DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

martedì 8 ottobre 2019

TRUMP, ERDOĞAN, I CURDI E LA SIRIA: LE REALTÀ DIETRO LA RETORICA - IL VIA LIBERA AMERICANO ALL' INVASIONE TURCA DEI TERRITORI DEI CURDI IN SIRIA, AVVERSARI STORICI DI ANKARA E FIERI COMBATTENTI CONTRO L' ISIS - Un articolo di Lucio Caracciolo.

L’annuncio della Casa Bianca fa chiarezza sui diversi (dis)interessi mediorientali di Stati Uniti e Turchia, presunti alleati Nato. Pentagono e intelligence faranno di tutto per ostacolare le decisioni astrategiche del presidente. Gli ultimi a poter alzare il dito sono gli europei.


L’annuncio con cui Trump lascia mano libera a Erdoğan per penetrare nella Siria nord-orientale e stabilirvi una “zona di sicurezza” a spese dei curdi rivela alcune realtà di fatto oscurate dalla retorica corrente.

Primo. Stati Uniti e Turchia sono alleati solo sulla carta. Poiché anche noi partecipiamo della stessa alleanza (Nato), ciò non dovrebbe lasciarci indifferenti – niente paura: lo siamo. Già il fatto che uno Stato “atlantico” come la Repubblica Turca si armi con missili russi di difesa antiaerea S400 è abbastanza dimostrativo di come entrambe le parti interpretino il vincolo che formalmente le lega. Mosca e Ankara, storiche nemiche, mai sono state tanto vicine. Non sappiamo per quanto.

Secondo. Nel caso siriano, la divaricazione fra americani e turchi è strutturale. Gli Stati Uniti, superpotenza mondiale, considerano il Medio Oriente sempre meno rilevante. Ne hanno percezione tattica, reattiva. Si contentano di preservare un precario equilibrio tra le potenze regionali e di assicurare l’esistenza di Israele. Punto. Dei curdi a Washington non può importare di meno. Servono, quando servono, per spostare di qualche grado l’angolo della bilancia mediorientale. Per esempio nella battaglia contro lo Stato Islamico, allegramente dichiarata vinta. Al resto provvedono le varie fazioni curde che sognando il Grande Kurdistan continuano a battagliare fra loro, in omaggio a quest’antica tradizione.

Terzo. Per Erdoğan l’operazione “Fonte di pace” non è invasione di un paese straniero. È polizia domestica. La carta mentale del presidente-sultano resta quella del Patto Nazionale, varato il 2 febbraio 1920 dall’ultimo parlamento ottomano. Quella Grande Turchia – minima rispetto alle ambizioni più sfrenate di Erdoğan, preoccupato di “comparire con la testa ben alta” alla presenza di Solimano il Magnifico, quando gli toccherà – comprende un’ampia fascia di territorio formalmente siriano e iracheno, lungo la direttrice Aleppo-Mosul-Arbil-Kirkuk. Il Kurdistan siriano e quello iracheno. Fino a ieri parte di Siria e Iraq. Oggi terre contese, stante che quegli Stati – come molti altri – esistono solo nelle carte politiche che pigramente o cinicamente continuiamo a ostentare. Ai curdi siriani non resterà forse che tendere la mano ad al-Asad, visto che di protettori esterni si è persa ogni traccia. Quanto ai “connazionali” sparsi nella regione, fanno come d’uso gli affari loro.

Quarto. Il pretesto avanzato da Ankara per annunciare l’occupazione di una parte della ex Siria è la necessità di allocarvi una quota dei 3,6 milioni di profughi siriani attendati in Turchia. Si tratta di coloro che la signora Merkel, quando ancora parlava a nome e per conto dell’Ue, volle assicurarsi non muovessero verso sponde europee e finissero per bussare alla sua porta. Per questo promise congruo indennizzo a Erdoğan. Il quale giudica ormai tale compensazione del tutto insoddisfacente. Quindi si appresta a muovere nella zona curda. Gli ultimi a poter alzare il ditino contro il sultano sono gli europei, tedeschi in testa, che pensavano di poter affittare Erdoğan quale guardiano di profughi. Neanche fosse Gheddafi.

Quinto. Trump dixit. Non necessariamente alle parole seguiranno fatti. Si è perso il conto dei ritiri annunciati di truppe americane dal terreno siriano. Un contingente significativo resterà comunque nell’area, disponendosi a semicerchio per assistere allo scontro turco-curdo dalle poltronissime di prima fila. Né il Pentagono né l’intelligence – oltre ad alcuni autorevoli senatori repubblicani – paiono sedotti dalla scelta di Trump. Interpreteranno molto liberamente l’uscita del presidente. Il quale ad ogni buon conto si è autopreparato il contrordine, via tweet della (pen)ultima ora: “Se la Turchia fa qualcosa che, nella mia grande e impareggiabile saggezza, io consideri sbagliato, io distruggerò e annienterò totalmente l’economia turca (l’ho già fatto una volta!).”

Il caso curdo-turco illustra come la lotta fra poteri e apparati americani stia ingolfando il motore della superpotenza. Trump ha sempre denunciato la prevedibilità del suo predecessore. Ma il confine tra imprevedibilità tattica e inaffidabilità strategica è linea sottile. Quasi invisibile.


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