DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

giovedì 20 luglio 2017

LA SVOLTA REALISTA DI PAPA FRANCESCO SULLA CINA- La diplomazia vaticana ha sempre avuto un grande influsso sull' Italia - Un articolo di Limes


Malgrado lo iato tra retoriche ufficiale e ufficiosa, il Vaticano procede nella marcia di riavvicinamento a Pechino. La sublimazione dell’armonia come direttrice geopolitica della Santa Sede verso l’Asia, dove si giocherà il futuro della Chiesa.
Freno e acceleratore. Le parole dei due portavoce, ufficioso e ufficiale, di Francesco non eranomai risuonate tanto distoniche. Ai limiti del corto circuito e della convulsione istituzionale.

Troppo per non indurre al sospetto di una regia unitaria, nel gioco di ombre cinesi e guerra di nervi che si svolge a distanza di ottomila chilometri fra il Colle Vaticano e la Città Proibita, ormai peraltro accessibile a tutti. Fuorché alla Chiesa.

Da un lato la sala stampa, che nella dichiarazione del direttore, l’americano Greg Burke, prende atto suo malgrado della battuta d’arresto, quanto meno di un drastico slow-down del dialogo con Pechino, e denuncia il sequestro del vescovo di Wenzhou, “forzatamente allontanato”. Ultimo di una serie di “episodi che purtroppo non facilitano cammini d’intendimento”.

Dall’altro La Civiltà Cattolica di Padre Antonio Spadaro, che assomma in sé nei confronti di Bergoglio il profilo dei due “Giovanni” del Vangelo: Battista ed Evangelista. Precorrendone la via e rivelandone i pensieri del cuore. Al punto da prospettare assertivo la soluzione del problema e affermare tra il temerario e il perentorio che “la Chiesa cattolica e la società cinese non si scontreranno più”.

La frase è contenuta in una sorta di “tema di maturità”. Un po’ prova d’esame, un po’ prova d’amore. Stampato con il visto della segreteria di Stato e assurto subito a manifesto politico: il “manifesto” comunista di Francesco. Mirando a quella che configura sin da principio la destinazione strategica del pontificato gesuita e della Compagnia fondata da Sant’Ignazio. Per guadagnare l’ambito approdo che i successori di Pietro si vedono ripetutamente negato da trent’anni almeno. Da quando gli eredi di Mao scelsero con Deng Xiaoping di riaprire il paese alla modernità e mantenerlo chiuso alla democrazia. Conservando un rigido controllo sulla società e promuovendo un rapido decollo dell’economia.

“Finché il Partito comunista cinese rimarrà l’unico partito di governo, il marxismo continuerà a essere il riferimento ideologico della società. Perciò la Chiesa cattolica cinese è chiamata a ridefinire il suo ruolo e le sue relazioni con il Partito comunista e con la sua ideologia”, scrive ardito e inaudito Padre Joseph You Guo Jiang, che firma il pezzo con l’imprimatur del confratello papa, Jorge Bergoglio, e vanta una suggestiva somiglianza con il giovane Mao Tse Tung. In virtù della quale sorvola sugli orrori del passato e, giunto in zona critica, si tiene al largo dagli errori del presente, ossia le persecuzioni che investono a ondate intermittenti l’episcopato e il clero della chiesa “sotterranea”, fedeli a Roma.

L’excursus storiografico naviga ordinario, bonario lungo un millennio di rapporti a corrente alternata. Poi però in prossimità della meta opera una improvvisa virata e manda un clamoroso segnale di avvistamento. Ammainando la bandiera del pluralismo e alzando quella rossa del socialismo. “Questo non significa”, mette le mani avanti l’autore, “che la Chiesa debba essere d’accordo con la politica e con i valori del Partito, ma piuttosto che essa debba trovare soluzioni flessibili ed efficaci per continuare la sua missione e il suo ministero in Cina”.

In qualunque maniera la leggiamo, al netto delle precisazioni e attenuazioni del caso, si tratta di una svolta. Se Ratzinger, con la lettera del 2007 ai cattolici cinesi, apriva le porte alla collaborazione con il governo, il manifesto di Civiltà Cattolica le schiude a quella con il Partito, annota il sinologo Francesco Sisci, autore di una celebre intervista con il papa per Asia Times.

Il riconoscimento del ruolo guida del Politburo da parte della Sede Apostolica costituisce un red carpet cromatico e diplomatico, su cui Pechino inopinatamente avanza con cadenze poliziesche, ma che il pontefice si ostina nondimeno a stendere, in uno stridente allestimento geopolitico del “Porgi l’altra guancia”.

“Ci sono dettagli che devono essere definiti e che rivestono grande importanza su ambo i versanti”, spiega Sisci. “Essi riguardano aspetti religiosi, per il Vaticano, e prerogative dello Stato, secondo Pechino. Non c’è una questione di principio. Ma questi particolari sono molti e delicati”.

Particolari e dettagli che alla stregua delle ombre cinesi, sovrapponendosi e ingigantendosi, possono repentinamente peggiorare la percezione del quadro, facendo scomparire o riapparire alla bisogna un personaggio scomodo quale il vescovo Shao Zhumin e confermando la persistenza di approcci brutali, arbitrari, duri a morire. Dietro una coltre di atavica diffidenza che la duplice professione di fede, nel papa e nel Partito, dovrebbe contribuire a dissipare.

Come se Bergoglio, che custodisce la memoria genetica del migrante, avesse accettato di sottoporsi al test di cittadinanza, con immagine di stringente attualità, per ottenere l’agognato ius soli. Ossia non limitandosi a indossare un abito culturale sul modello del precursore Matteo Ricci, ma immedesimandosi ancora di più e integrandolo con l’habitus mentale di una classe dirigente che respinge la litigiosità perenne dei moderni sistemi occidentali, dialettici e competitivi. Ostentando in sua vece l’armonia: “quell’armonia che ama tanto lo spirito cinese”. Slogan riecheggiato in due Angelus nel maggio 2016 e 2017, durante i messaggi augurali per la festa della Vergine di Sheshan.

Una password non solo politica bensì teologica, per accedere al dialogo con le regioni e religioni dell’Asia, come si evince da un ulteriore articolo di Civiltà Cattolica che sancisce la nascita e consacrazione di una “teologia panasiatica, sotto il segno dell’armonia”. Lo ha redatto il gesuita francese Benoît Vermander – Wei Mingde, il suo nome cinese – professore dell’università Fudan di Shanghai e assertore del principio secondo cui occorre “fare i conti con la visione del mondo inclusa nelle parole, nei concetti e nelle strutture linguistiche” del megacontinente.
C’era una volta la democrazia: undicesimo comandamento dei papi del Concilio, in uno stretto, sponsale abbraccio tra Chiesa e Occidente. Amore sbocciato al termine di un sofferto, incerto rito di corteggiamento.

E c’è oggi l’armonia, parola d’ordine di un pontificato che viene da Ovest, ma che con l’Occidente ha reciso gli ormeggi puntando a Oriente, per aggiornare dopo due millenni la formula dell’adagio “andate in tutto il mondo”, depurandola di ogni sorta di proselitismo e accompagnandola con una iniezione pragmatica di realismo. Unitamente a una dose omeopatica di relativismo. Nell’epoca del pensiero aperto, fondato “sul dialogo e sulla costruzione del consenso”.

Si deve partire da questa cornice copernicana per inquadrare il pressing in atto sulla Cina e le sortite di Civiltà Cattolica, che sgretolano in sequenza i pilastri del cristianesimo europeo, dal razionalismo al logos, e la presunta superiorità delle sue argomentazioni: “La dialettica è l’ottimismo della ragione, il dialogo è l’ottimismo del cuore”, insiste Wei Mingde.

Paradosso emblematico di una rivista che per quattromila numeri, tanti ne ha celebrati a febbraio, si è identificata con le mura della civitas e adesso le abbatte a colpi di piccone, invitando a deporre il vessillo della civiltà cristiana per sciogliersi come lievito nei mondi altrui, senza pretesa di plasmarli, ma di farli semmai lievitare verso un traguardo di più alta spiritualità e umanità.

C’era una volta la democrazia: precetto canonicamente codificato da Montini alla scuola di Maritain, teologicamente sublimato da Ratzinger sulla cattedra di Ratisbona, militarmente brandito a mo’ di Excalibur da Wojtyla, con l’impeto leggendario di una carica di Pilsudski. E c’è oggi l’armonia, un balsamo emolliente spalmato da Bergoglio sulle piaghe e fra le pieghe di una storia che altrimenti non si lascia sfogliare, lenire, capire.

Apologo-epilogo di un cattolicesimo progressista che ha rincorso la democrazia, quale standard imprescindibile di modernizzazione. Ma poi realizza d’un tratto che il mezzo risulta inadeguato nel contesto del secolo asiatico, dalla sponda del Golfo alla costa del Mar Giallo.

Retaggio di una globalizzazione che ha spostato a Oriente – quello estremo fra il Guangdong e Pyongyang – non solo il target geografico, ma ideologico del papato, spingendo i pontefici sul limite del fuorigioco dottrinale, per non restare ai margini ed essere ammessi nell’area che conta, dove si vince o perde la partita del futuro. “Le Chiese cristiane in tutto il mondo hanno preso coscienza del fatto che il XXI secolo è veramente il secolo dell’Asia”, ribadisce Padre Vermander. Lasciando chiaramente intendere che agli occhi del papa non sussiste alternativa.

Insomma una riedizione su scala planetaria della teoria dei “due polmoni”, con cui Wojtyla delineò in ambito europeo l’esigenza vitale, per la Chiesa, di respirare da Est e Ovest: pena il sottrarsi e venire meno alla propria natura universale. Come se Bergoglio avvertisse lo stesso senso di asfissia spirituale del papa polacco e lo proiettasse al di là degli Urali e dell’Amur.

Nulla di nuovo sotto i cieli della storia. Se “Parigi val bene una messa” – come chiosò l’ugonotto Enrico di Navarra, ricevendone in cambio la corona di re – Pechino varrà pure, a parti e partiti invertiti, una bandiera rossa.
“bergogliani”, c’è molto più di una chiesa minoritaria: un fiume carsico capace di sfociare, sulla distanza del millennio appena iniziato, in confluenze maggioritarie impensate. Confidando in un hardware predisposto alla “app” del cattolicesimo e suscettibile di rispondere in progressione geometrica. Un azzardo nel quale la Compagnia non si preclude, all’orizzonte remoto, il bingo indicibile: di conquistare il banco e attrarre una leadership palesemente in deficit di valori morali, che fungano da collante alle istituzioni e antidoto alla dilagante corruzione.

“La Chiesa cattolica e la Cina e non si scontreranno più. Perché i valori culturali e tradizionali cinesi e i valori evangelici e l’insegnamento ecclesiale hanno molte cose in comune”, conclude il manifesto “comunista” di Civiltà Cattolica, riconoscendo nella joint venture con il partito un provvisorio e colorato lasciapassare. Una vernice appariscente, che non penetra in profondità e svanisce nel tempo, a contatto con le culture millenarie che la sottendono.

Così, mentre subiscono il goal in contropiede, ad opera di un regime che davanti alle reiterate, spericolate aperture vaticane non cessa di praticare il catenaccio e “marcare a uomo”, entrando a gamba tesa sui vescovi obbedienti al papa, Bergoglio e i suoi consiglieri continuano indomiti a predicare l’armonia.

Nuova, sottile declinazione dell’egemonia nel Terzo Millennio dell’era cristiana, in cui un pontefice ha deciso di stimolare “l’export” e riposizionare il brand sui mercati che crescono. Accettando di pagare un dazio ideologico, all’estero, e teologico, in casa, pur di aggirare le barriere in difesa e alzare i numeri della Chiesa in Asia.

Vista da Roma infatti la posta geopolitica è altissima e va oltre il risultato minimo dell’auspicata, reciproca legittimazione e riunificazione tra le due chiese, “patriottica” e “sotterranea”, che cumulano insieme, sul miliardo e trecento milioni di persone, una percentuale comunque irrisoria di popolazione.

Di “sotterraneo” in Cina, nella scommessa visionaria degli strateghi “bergogliani”, c’è molto più di una chiesa minoritaria: un fiume carsico capace di sfociare, sulla distanza del millennio appena iniziato, in confluenze maggioritarie impensate. Confidando in un hardware predisposto alla “app” del cattolicesimo e suscettibile di rispondere in progressione geometrica. Un azzardo nel quale la Compagnia non si preclude, all’orizzonte remoto, il bingo indicibile: di conquistare il banco e attrarre una leadership palesemente in deficit di valori morali, che fungano da collante alle istituzioni e antidoto alla dilagante corruzione.

“La Chiesa cattolica e la Cina e non si scontreranno più. Perché i valori culturali e tradizionali cinesi e i valori evangelici e l’insegnamento ecclesiale hanno molte cose in comune”, conclude il manifesto “comunista” di Civiltà Cattolica, riconoscendo nella joint venture con il partito un provvisorio e colorato lasciapassare. Una vernice appariscente, che non penetra in profondità e svanisce nel tempo, a contatto con le culture millenarie che la sottendono.

Così, mentre subiscono il goal in contropiede, ad opera di un regime che davanti alle reiterate, spericolate aperture vaticane non cessa di praticare il catenaccio e “marcare a uomo”, entrando a gamba tesa sui vescovi obbedienti al papa, Bergoglio e i suoi consiglieri continuano indomiti a predicare l’armonia.

Nuova, sottile declinazione dell’egemonia nel Terzo Millennio dell’era cristiana, in cui un pontefice ha deciso di stimolare “l’export” e riposizionare il brand sui mercati che crescono. Accettando di pagare un dazio ideologico, all’estero, e teologico, in casa, pur di aggirare le barriere in difesa e alzare i numeri della Chiesa in Asia.

Articolo pubblicato originariamente su L’Huffington Post

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