DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

sabato 5 dicembre 2020

LA VERA STORIA DEI CINESI A TRIESTE - Conversazione con Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico orientale (Trieste). Dall' Ultimo numero di Limes -

Conversazione con Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico orientale (Trieste). 


LIMESChe cosa è successo davvero al porto di Trieste, dopo il tentato sbarco della Cina avversato dagli Usa fino all’approdo della tedesca Hamburger Hafen und Logistik (HHLA)?

D’AGOSTINOOccorre premettere che sino a due-tre anni fa trattare con la Cina non aveva implicazioni geopolitiche. La logica era meramente trasportistica. I negoziati avviati dalla nostra Autorità portuale non erano condizionati dalla geopolitica. Nel 2016 abbiamo perciò cominciato a dialogare attivamente con aziende della Repubblica Popolare Cinese. Non vedevo e non vedo nulla di male nella nostra partecipazione alle nuove vie della seta, che però va distinta dall’adesione formale alla Belt and Road Initiative (Bri). Altrimenti si rischia una commistione dannosa, assegnando valore geopolitico a iniziative che riguardano la logistica e la trasportistica internazionale. Il passaggio di mano di un terminal container non stravolge di per sé gli assetti strategici nazionali, come dimostra il caso degli altri paesi europei che accolgono investimenti cinesi. Anche perché con le tecnologie attuali non serve di certo il controllo di un terminal container per spiare qualcuno.

Il ruolo nodale di Trieste, incuneata nel cuore d’Europa e sbocco naturale delle rotte passanti per il Canale di Suez, è iscritto nella sua geografia. Sarebbe suicida rinunciare alla funzione che Trieste può svolgere nel corridoio trasportistico più importante al mondo – più di quelli transpacifico e transatlantico – per valore, tonnellaggio, numero di navi. Rotta che dall’Asia giunge via mare nel Vecchio Continente, passando anche dall’Adriatico. Questo è il valore su cui è imperniata la rilevanza dello scalo giuliano, che per di più è porto franco.

Di fatto, più che merci sulle nuove vie della seta viaggiano fabbriche, poiché queste direttrici aumentano l’accessibilità di alcuni territori riconfigurando il posizionamento delle grandi multinazionali.

Eppure da qualche anno l’opportunità di relazionarci su quest’asse con il soggetto principale, la Cina, ha scatenato controversie. Rispetto al passato, l’interazione con i cinesi, ma anche con gli iraniani e altri soggetti di questa rotta, ha acquisito una dimensione geopolitica.

Al di là dell’emergenza coronavirus, contrariamente a quello precedente il nostro governo attuale non pare intenzionato a stringere i bulloni dei rapporti con la Cina. Oggi a Roma quando si tratta di Pechino si smarcano in molti, mentre all’inizio dell’anno scorso le forze di maggioranza spingevano compatte in quella direzione. Non sorprende, anche alla luce delle crescenti pressioni americane. 

LIMESQuando c’è stata la svolta?

D’AGOSTINOLo scorso novembre ancora trattavamo a Shanghai. Il 2020 è stato l’anno determinante, anche per la crisi da Covid-19 che rallenta gli scambi e in alcuni casi li arresta. I riflettori sull’Italia hanno cominciato ad accendersi con la firma del memorandum d’intesa sino-italiano sulla Belt and Road Initiative, nel marzo 2019. Con tanto di grandiosa scenografia. Mentre senza troppe luminarie Germania e Francia conducevano e conducono beatamente affari con Pechino, guardandosi però bene dall’aderire alla Bri con un memorandum d’intesa. Parigi non ha battuto ciglio a maggio di fronte all’acquisizione di dieci terminali non localizzati in Francia, controllati dalla francese Cma Cgm, da parte di China Merchants, mentre ha bloccato l’attivismo di Fincantieri.

Non vanno sottovalutate nemmeno le conseguenze trasportistiche di un accordo con i cinesi. Quando se ne è iniziato a discutere, l’ostilità è arrivata non a caso prima da Bruxelles che da Washington. A cominciare dai tedeschi, ovvero dagli stessi protagonisti della recente operazione relativa al Molo VIII del porto di Trieste. I porti del Nord Europa, che fino ad allora avevano goduto di rapporti privilegiati nel quadro di questi flussi lucrosi, si vedevano insidiati dalla nostra iniziativa. Nel frattempo, gli ambasciatori europei a Pechino firmavano una lettera di denuncia della pericolosità delle nuove vie della seta.

Alla debolezza della politica estera italiana si aggiunge la scarsa cognizione da parte del nostro governo e dell’opinione pubblica del fondamentale valore della proiezione marittima e della portualità nazionale. Paradossale per un paese come il nostro, circondato dal mare ma completamente proteso verso terra. All’opposto, la Cina, potenza storicamente e culturalmente terrestre, ha inserito la Bri in costituzione, considerandola un disegno trasportistico-logistico globale, di grande valore economico e geopolitico.

Purtroppo bisogna tornare alla prima metà del Novecento per trovare una seppur blanda forma di politica marittima nazionale. Quando eravamo un paese colonizzatore, peraltro lontano dai fasti delle altre potenze europee, che però tentava di proiettare l’immagine di una vocazione marittima nazionale. Oggi non sembra esserci – e temo non ci sarà – alcuno slancio marittimo dell’Italia, quando tutto chiamerebbe a tentarlo.

LIMESGli americani si sono opposti allo sbarco cinese a Trieste in nome del valore strategico di questo scalo, che può servire le loro basi di Vicenza e Aviano, oltre a fungere da caposaldo adriatico della verticale antirussa che sfocia nel Baltico. Ma il vostro porto può essere militarizzato?

D’AGOSTINOUn porto civile non si converte agevolmente in militare. E non è solo questione di normative. La geografia ci rende uno scalo strategico, ma oggi ci è preclusa la gestione di flussi militari. È una questione di cui Washington dovrebbe discutere con Roma, non con Trieste. È vero però che Bruxelles sta allocando fondi notevoli all’Action Plan on Military Mobility del Connecting Europe Facility (Cef, da cui Trieste riceve finanziamenti per la rete ferroviaria). Istituito su spinta degli Stati dell’Europa centrorientale nel 2018 per adibire a uso duale nodi connettivi strategici di fronte alla percepita minaccia russa. Da qui la necessità di rifornire, tramite Mediterraneo e dunque Adriatico, di truppe e mezzi un’eventuale linea del fronte nell’Est Europa. È un progetto comunitario che coinvolge Nord Adriatico e Trieste in particolare e che permette di destinare le infrastrutture finanziate esclusivamente alle operazioni belliche in caso di guerra.

LIMESÈ vero che prima i cinesi e ora gli americani sono interessati a installare un data center nel Molo VIII?

D’AGOSTINOAscrivere la contesa per lo scalo alla potenziale installazione di un data center mi pare fuorviante, malgrado oggi la competizione tecnologica sia al centro della geopolitica. È ovvio tuttavia che il nodo del Nord Adriatico serva anche il passaggio di dati e cavi, oltre che di armi e simili. In questa logica, gli hubs tradizionalmente trasportistici devono diventare anche hubs tecnologici. Il mare resta veicolo di informazioni, a partire dai cavi sottomarini, quindi l’interesse delle potenze esterne – cinesi e americani compresi – è anche di questo tipo.

Oggi, con il Covid-19 stiamo subendo un’epidemia tradizionale. Se invece fosse un virus digitale a colpirci con la stessa aggressività non oso immaginare che effetti devastanti sortirebbe. Potenzialmente, il blocco di tutte le attività tecnologiche alla base della nostra economia. Trieste quindi deve farsi perno trasportistico e di dati.

Alcuni sostengono inerzialmente che la connettività comporti soltanto vantaggi. Dovremmo invece rivalutare il valore dell’isolamento, della capacità di disconnettersi rapidamente all’occorrenza. Come porto di frontiera, uno degli obiettivi è procedere a una tecnologizzazione che preveda la possibilità di sganciarsi dalla Rete qualora necessario. Un porto franco che immagazzini dati come merci e che sia capace di preservarli.

LIMESOggi a chi è connesso lo scalo di Trieste? È un porto italiano?

D’AGOSTINOTrieste è un porto mitteleuropeo in Italia. Per noi rivestono importanza apicale i collegamenti ferroviari lungo gli assi che conducono in Germania, Austria, Belgio, Lussemburgo, Slovacchia, Repubblica Ceca, in grado di trasportare merci fino in Scandinavia e nel Regno Unito. Stiamo poi studiando l’apertura di tratte per collegarci direttamente con la Polonia e più intensamente con l’Ungheria – pezzo forte degli ultimi anni. Si tratta di economie in sensibile crescita, connesse al resto del mondo, specie all’Asia, in particolare per quanto riguarda le forniture di materie prime, componentistica, semilavorati.

LIMESSpicca nel suo elenco l’assenza dell’Italia.

D’AGOSTINOIl collegamento con l’Italia esiste, verso Padova, Milano, Novara. Ma è questione delicata. Perché se puntiamo a ovest non facciamo concorrenza ai vicini della Mitteleuropa ma ai porti nazionali. La tratta italiana segnala disfunzioni degli altri scali italiani più che costituire un valore aggiunto per Trieste. Significa che qualcosa non funziona a Venezia e a Genova. Noi miriamo anzitutto alle direttrici nordiche e orientali, come testimoniano i traffici ferroviari da e per Trieste.

LIMESChe valore riveste l’oleodotto Transalpino che collega Trieste all’Europa centrale, coprendo il 40% del fabbisogno tedesco (100% di quello di Baviera e Baden-Württemberg), il 50% di quello ceco e il 90% delle importazioni austriache?

D’AGOSTINOQuel tubo simboleggia la nostra competitività logistica. Se riusciamo a portare tanto petrolio in Germania, Austria e Cechia, significa che possiamo essere competitivi anche in altri settori merceologici. L’oleodotto risale agli anni Sessanta. È il frutto delle menti aperte e lungimiranti dell’epoca, a partire da Enrico Mattei: la progettazione dell’oleodotto è difatti molto precedente alla sua realizzazione, ultimata nel 1967.

LIMESPrima dell’ingresso degli amburghesi nel Molo VIII con il 50,1%, in estate c’è stato un tentativo cinese di rientrare nella partita con China Merchants. L’offerta era economicamente molto superiore. Perché è stata rifiutata?

D’AGOSTINOSi è trattato di una proposta giunta a privati, rispetto alla quale il porto è soggetto terzo. Ma è chiaro che in questo momento qualsiasi acquisizione nei comparti strategici deve passare il vaglio del golden power. Questo spiega perché l’iniziativa tedesca è andata a buon fine, diversamente da quella cinese.

LIMESDunque i calcoli geopolitici hanno prevalso sui criteri commerciali?

D’AGOSTINOSolo in parte, perché la ratio è senz’altro geopolitica ma poi la questione assume rilevanza prettamente economica. Accettare un’offerta pur vantaggiosa nella consapevolezza che questa si arenerà per mesi o addirittura anni, dato il golden power, sarebbe improduttivo. Si tratta di essere pragmatici. L’implicazione è di business.

LIMESQuindi si dà per assodato che le acquisizioni tedesche non incontrino ostacoli?

D’AGOSTINOL’operazione di HHLA potrebbe essere considerata prova della nascente collaborazione fra italiani e tedeschi in materia portuale. Bloccare un’offerta tedesca sarebbe altrettanto significativo per gli equilibri europei del «no» ai cinesi. Anche nel caso degli ungheresi la trafila è stata tutto sommato veloce – stesso attivismo riscontrato per quella in atto inerente il Molo VIII.


LIMESLei ha da tempo avviato una trattativa con China Communications Construction Company (Cccc) per installare una testa di ponte triestina in Cina, in particolare a Nanchino. A che punto siamo?

D’AGOSTINOÈ tutto bloccato. Era in agenda una riunione a febbraio che coinvolgeva i cinesi e i maggiori produttori vinicoli del Nord-Est italiano, ma la diffusione dell’epidemia prima nella Repubblica Popolare e poi nel nostro paese ha congelato la trattativa. Stessa sorte toccata ad altre operazioni, come quelle in Slovacchia. Idem riguardo agli investimenti di Cccc nelle nostre reti ferroviarie.

LIMESC’è una clamorosa asimmetria in questi negoziati. In Italia i colossi stranieri, appoggiati o financo controllati dai rispettivi governi, negoziano direttamente con le nostre autorità locali, mosse da legittimi interessi specifici, e con i nostri non colossali privati. Non ci servirebbe una regìa italiana, analoga a quelle altrui?

D’AGOSTINODecisamente sì. Vale anche per il complesso dei paesi europei. È inconcepibile ed emblematico che non esista sul piano europeo un progetto simile alla Bri cinese. Stiamo parlando di corridoi strategici. Il nostro è un immobilismo deleterio. Dovremmo sì proteggerci, ma pure imparare. Pechino viene criticata, ma non concede prestiti a fondo perduto. Le nuove vie della seta prevedono infatti finanziamenti, anche a tassi elevati. E allora perché non lo facciamo noi? Magari partendo da realtà come Assicurazioni Generali, con appendici sparse nel globo, Hong Kong compresa, che non vogliamo o sappiamo sfruttare. Più che finanziario, il problema è di visione strategica. La Bri è anzitutto un’idea.

 

Il paradosso per eccellenza in questo senso è il nostro approccio all’Africa. Stigmatizziamo la proiezione della Cina in un continente che noi percepiamo principalmente come fonte di problemi, invece di investire sul suo potenziale dopo un’accurata pianificazione. Non siamo in grado di porci come centro di pensiero strategico, il quale è alla base di qualsivoglia estroflessione su larga scala. Avremo il coordinamento della portualità italiana quando l’Italia avrà una strategia, non viceversa.

LIMESQuali dovrebbero essere le nostre direttrici strategiche?

D’AGOSTINOI porti non sono mere infrastrutture ma centri di competenze, è su queste ultime che urge investire. Siamo divenuti un paese di poeti, santi e – più che navigatori – costruttori. Questi ultimi sono decisivi. Ne è esempio la parabola del ponte Morandi di Genova. A costruzione ultimata, ci si interrogava ancora a chi consegnarlo. Riprova della mancanza di progettualità organizzativa, non solamente infrastrutturale. Gli scali portuali devono assurgere a centri di eccellenza, scommettendo sulla competenza oltre che sul cemento e prevedendo modalità di azione pubblica diverse da quelle oggi consentite per legge. Ci vuole lo Stato, o comunque una mano pubblica. Dovremmo prendere spunto dalla recente acquisizione del Molo VIII a opera di un’azienda della municipalità di Amburgo. In Italia invece si dà per scontato che l’intelligenza sia appannaggio dei privati. Il primo passo consiste quindi nell’operare una rivoluzione concettuale. In assenza di un indirizzo pubblico complessivo partiamo sconfitti, come giustamente sostiene Alessandro Aresu nel suo libro sul capitalismo politico, notando le affinità tra Cina e Usa sotto questo profilo.

Decisiva resta la modesta dimensione delle aziende private italiane rispetto alle controparti estere. Le nostre aziende finiscono così per curare il proprio orticello invece di perseguire anche l’interesse nazionale, codificato in una strategia condivisa. Stato ed enti pubblici come le autorità portuali devono giocare un ruolo incisivo.

Se noi italiani riusciremo a costituirci come centro di intelligenza, oltre che di transito di merci e persone, potremo estrofletterci. Trieste ha già contatti ben avviati in Malaysia, Texas, Grecia, ed è oggetto delle attenzioni di tutti gli altri attori dell’Adriatico.

Insomma: conviene accettare la sfida cinese, iniziando a ragionare al grado europeo, facendo perno sulla rinnovata competitività del nostro mare. In quest’ambito dovremmo proporre un binomio italo-tedesco, per non restare schiacciati dal solito asse tra Parigi e Berlino.


LIMESQuale relazione dovremmo intrattenere con i porti del Nord Europa, nostri concorrenti?

D’AGOSTINOTorniamo alla strategia: dobbiamo iniziare a fare progetti, a ragionare nel medio-lungo periodo. Due anni fa sono stato ospite dell’esecutivo hongkonghese, il quale dispone di un intero dipartimento che studia la Hong Kong del 2050. Fra trent’anni il sistema portuale europeo sarà segnato dall’innalzamento delle acque al Sud e dal progressivo insabbiamento degli scali nordici. Non è un caso che Amburgo si proietti verso il Nord-Est italiano.

Il nostro governo dovrebbe rimboccarsi le maniche e fare leva anche sul previsto cambiamento climatico nelle trattative con i soci nordeuropei. I quali rischiano di perdere tutto nei prossimi decenni e ne sono consapevoli. Invece i dibattiti nostrani sul tema restano centrati sulla narrazione per cui il grosso delle navi aggirerà comunque Suez per approdare nei porti del Nord Europa. Eppure qui i problemi legati all’abbassamento del livello delle acque (anche fluviali) sono palesi, a partire dai porti di Olanda e Germania.

LIMESÈ più facile negoziare con i tedeschi o con i cinesi? Chi di loro ci conosce meglio? Quanto li conosciamo noi?

D’AGOSTINOAl netto delle differenze interne ai singoli paesi – tra amburghesi e bavaresi, pechinesi o hongkonghesi come tra siciliani e lombardi – i tedeschi sono seri nel lavoro quanto nel divertimento. Sono quadrati, dunque vanno ricambiati con la stessa moneta, ma poi a cena ci si trova bene insieme. Dei cinesi invece serbo due esperienze diametralmente opposte. Cccc è un soggetto tipicamente pechinese, politicamente allineato e di riflesso rigido; non ricordo stimoli particolari allo sviluppo di idee. Le proposte più fantasiose arrivavano da noi, ad esempio quelle relative alle piattaforme in Cina e agli investimenti in Slovacchia. Rispetto a Cccc, China Merchant è molto più business oriented, affidata a manager la cui prima preoccupazione è economica.

Complessivamente, nel quadro dello scontro tra Usa e Cina si poteva presumere l’interesse di Pechino a intestarsi Trieste. Così non è stato. Parimenti, da Napoli la cinese Cosco ha alzato le tende appena i conti non quadravano più, chiamandosi fuori a favore di Msc senza tergiversare. I conti «contano» più di quanto si pensi in queste strategie. Anche per i cinesi, su questo insisto.

LIMESQuanto conta il vostro status di porto franco nelle trattative?

D’AGOSTINOLa sua cogenza emerge in ogni negoziato. Tutti ne chiedono la disponibilità. Gli amburghesi della HHLA negherebbero, ma soltanto perché sanno il fatto loro e a suo tempo ad Amburgo hanno ottenuto da Bruxelles condizioni che compensano gli svantaggi derivanti dal mancato utilizzo dello status di porto franco.

È la storia dello scalo giuliano, considerato in Italia uno fra tanti, sebbene meriterebbe particolare attenzione. Anni fa in un convegno a Vienna affermai provocatoriamente che Trieste non è un porto italiano, poiché al contrario della gran parte degli altri scali del paese gode di nodali connessioni ferroviarie e pescaggi da 18 metri. E non lo è neanche tecnicamente, proprio in qualità di porto franco. Ma la consapevolezza della sua rilevanza sta prendendo piede. L’Italia sta mostrando di capire quanto importante sia attivare fino in fondo il porto franco di Trieste.



1 commento:

  1. Cosa significa concretamente “attivare fino in fondo il porto franco di Trieste” ? I dazi UE sono tra i più bassi al mondo, dalla creazione del Gatt, poi OMC, sono scesi da circa 40% a meno del 4% in media sui prodotti industriali. Un terzo delle linee tariffarie ha un dazio zero. Decine di accordi di libero scambio li riducono ulteriormente. Il r3gimeUE di perfezionamento attivo permette di trasformare ovunque i prodotti importati senza dazi doganali. Quale sarebbe oggi il vantaggio fiscale di un porto franco e perché Amburgo, Anversa, Marsiglia Rotterdam lavorano benissimo senza essere porti franchi ?

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