DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

giovedì 17 maggio 2018

PERCHÉ LA NUOVA CRISI DELL’EURO È INEVITABILE: Draghi ha salvato il salvabile ma non basta. Fallito il ‘consenso di Berlino’, Roma farà saltare il banco? - articolo di Fabrizio Maronta sull' ultimo numero di Limes -



Questo articolo è uscito sull' ultimo numero di Limes: "Lo Stato del Mondo" (clicca QUI).

L’euro fu concepito scontandone l’insensatezza sistemica per indurne la correzione geopolitica, tramite un federalismo solidale indigeribile per Germania e nordici. Draghi ha salvato il salvabile ma non basta. Fallito il ‘consenso di Berlino’, Roma farà saltare il banco?


1. Con il senno di poi è tutto ovvio, logico, inevitabile.

Ovvio che un’Europa distrutta da due guerre mondiali in trent’anni risorgesse dalle proprie ceneri, generando quel «miracolo» economico che nel volgere di due decenni ne avrebbe fatto una delle aree più prospere del pianeta. Logico che tale poderosa marea sollevasse anche le barche più fragili, tra cui un’Italia al tempo povera, in gran parte agricola e sconfitta. Inevitabile che tale processo, benedetto dagli Stati Uniti e blindato dal confronto bipolare, coinvolgesse una Germania prostrata e divisa ma pur sempre temuta, che della doppia tragedia bellica era stata il fulcro.

Di scontato, nella storia e in geopolitica, c’è tuttavia ben poco e in questo ristretto novero non rientrava certo, agli albori della guerra fredda, l’idea di un assetto geostrategico europeo avente come orizzonte ultimo niente meno che l’obsolescenza della più grande invenzione veterocontinentale: lo Stato nazionale.

Ma la sorte sa essere ironica: a macerie ancora fumanti, fu la necessità di contenere la minaccia sovietica e di neutralizzare la volontà di potenza tedesca a forzare quel processo di unificazione europeo che si giovò certo di talenti autoctoni, ma il cui embrione prese forma oltreatlantico. Gli Stati Uniti, prodotto d’esportazione più riuscito di quella pace di Vestfalia (1648) che le moderne nazioni statualizzate aveva generato, imposero così ai loro progenitori di snaturare sé stessi. Almeno quel tanto che bastava a soddisfare gli imperativi di un ordine mondiale non più eurocentrato.

In tale cornice, se fino alla fine degli anni Trenta del Novecento quella tedesca era stata soprattutto una questione territoriale, dal secondo dopoguerra in poi diventa sempre più una questione geoeconomica. L’Europa aveva bisogno che la Germania si riprendesse e tornasse a crescere; ma tutti, a cominciare dai francesi, temevano il ritorno della potenza tedesca. La «costruzione» europea va letta anche, forse soprattutto, come il tentativo di sciogliere questo annoso dilemma. Il quale ebbe fin da subito una dimensione tangibile: l’industria della Germania (Ovest) necessitava di acciaio e del carbone per forgiarlo, ma Parigi era determinata a scongiurare un nuovo monopolio tedesco sulle risorse che avevano alimentato la devastante forza bellica del Reich. Quelle risorse, osservava Jean Monnet, erano «distribuite in modo non uniforme ma complementare in un’area divisa da frontiere storiche» [1].
Tale circostanza è alla base dell’intuizione di Monnet: condivisione. Se Francia e Germania avessero concorso alla produzione di carbone e acciaio, i volumi prodotti sarebbero cresciuti grazie alle economie di scala, ponendo su solide fondamenta la ricostruzione europea. Ma soprattutto, per i due paesi sarebbe stato molto più sconveniente – idealmente impossibile – farsi di nuovo la guerra, data la loro complementarità industriale. Il risultato, sancito dai Trattati di Parigi del 1951, fu la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), vero atto di nascita – più delle successive Euratom e Cee – dell’integrazione europea.
Da sognatore pragmatico qual era, Monnet non si faceva illusioni sulla facilità del processo d’integrazione. Uomo del suo tempo, scampato a due guerre totali per vedersi proiettato nell’incubo atomico, era altresì poco incline a concepire positivisticamente la storia come iter lineare. L’umanità procede a tentoni, e sebbene gli eventi non si ripetano uguali a sé stessi, ciò che chiamiamo progresso è quasi sempre il frutto di errori che generano crisi che a loro volta sfociano (quando va bene) in catarsi. L’ansia tassonomica degli studiosi avrebbe distillato tale visione nel concetto di «funzionalismo», il quale postula che la necessità crea l’istituzione. Nella versione empirica di Monnet: «Ho sempre creduto che l’Europa sarebbe stata costruita attraverso le crisi, e che sarebbe stata la somma delle soluzioni escogitate per farvi fronte» [2].

2. All’atto pratico l’idea si sarebbe rivelata efficace, ma nell’urgenza postbellica la strategia fu sacrificata alla tattica. Il processo d’integrazione lasciò infatti inevasi due interrogativi cruciali, destinati a riproporsi ogni qualvolta l’Europa attraversava una crisi: chi e perché.
Chi desiderava un’Europa unita? Chi era necessario e sufficiente che la volesse? Non tanto l’uomo «della strada», intento a sopravvivere e desideroso di protezione, più che di integrazione; piuttosto l’élite politica europea, la cui rappresentatività era auspicabile, ma non indispensabile. Lo stesso Jean Monnet aveva vestito molti panni – vicesegretario generale della Lega delle Nazioni, banchiere, consigliere del governo cinese, funzionario di quello francese e poi di quello britannico in servizio negli Stati Uniti – ma non aveva mai ricoperto una carica elettiva in vita sua. Tant pis! Per fare l’Europa occorreva fare gli europei e sul punto la visione di Monnet, Adenauer, De Gasperi e degli altri padri nobili dell’integrazione europea scontava un comprensibile ma limitante paternalismo di stampo ottocentesco.
Quanto al perché la sottesa ma irreversibile federalizzazione dell’Europa fosse l’unica strada per evitare un altro conflitto paneuropeo, il problema non si poneva. Il fatto che non vi fossero precedenti storici di una federazione imposta come antidoto alla guerra – semmai il contrario: la guerra civile come viatico della federazione, nel caso statunitense – non generò mai un vero dibattito pubblico. La comunanza economico-istituzionale come presupposto dell’unità politica, a sua volta foriera di pace, era una necessità insindacabile proprio perchéindimostrabile.
Il dogma in geopolitica è tuttavia impraticabile, in quanto non ammette repliche. Da cui il paradosso ontologico dell’Europa e della sua massima espressione, la moneta unica: un metodo empirico di matrice darwiniana, quello funzionalista, messo al servizio di un «destino manifesto» che non prevede confutazione.
L’antinomia è in parte ammissibile nel contesto storico che fa da sfondo al processo d’integrazione: l’irrimediabile venir meno del primato geopolitico europeo, detenuto con alti e bassi dalla fine del Quattrocento. Devastazione bellica; trasloco del potere marittimo dall’Inghilterra agli Stati Uniti; maturazione della rivoluzione d’Ottobre e affermazione della potenza sovietica; decolonizzazione; salti tecnologici epocali incubati altrove (elettronica e nucleare, solo per citarne due); decollo demografico e poi economico dell’Estremo Oriente e del subcontinente indiano; fine della parità aurea e intensificarsi della competizione economico-finanziaria mondiale; svolta capitalistica della Cina ed esplosione della globalizzazione a trazione sino-americana; conseguente internazionalizzazione delle catene produttive e vertiginoso aumento della concorrenza; crollo dell’Urss e dell’assetto territoriale postbellico; ritorno della Russia sulla scena internazionale e transizione demografica dell’Africa, con annessa pressione migratoria.
Quest’elenco sommario dei fattori che hanno concorso al ripiegamento e allo smarrimento dell’Europa non pretende di essere esaustivo; ciò nondimeno, può fungere da attenuante per gli errori compiuti negli ultimi decenni – specie dopo il 1989 – dagli artefici dell’attuale assetto comunitario.

3. Quando nel 1992, a Maastricht, i governi europei decisero di adottare una moneta comune in assenza degli strumenti politico-istituzionali per farla funzionare, intendevano replicare una volta ancora il prodigio monnettiano: creare una realtà (la moneta) che, nel tempo, avrebbe reso indispensabile lo strumento (un governo europeo) necessario a gestirla. Pena un rovinoso fallimento. Solo una simile prospettiva avrebbe consentito di plasmare un potere sovrannazionale pienamente sovrano, cui demandare la gestione dell’allargamento a est e dei timori indotti dalla riunificazione tedesca. Così Romano Prodi: «Occorreva partire dalla moneta, altrimenti i litigiosi governi europei non avrebbero fatto nulla» [3].
Le ragioni squisitamente geopolitiche dell’euro sono ormai assodate, e le giustificazioni tecniche di cui esso fu ammantato non convincono oggi come non persuadevano allora. Molto si è detto e scritto, ad esempio, sull’arbitrarietà dei famosi parametri di Maastricht, frutto di grossolane medie statistiche (il rapporto debito/pil al 60%) quando non del puro caso (il rapporto deficit/pil al 3%) [4]. Anche laddove tali criteri avessero avuto una genesi scientifica – il che presuppone che l’economia sia una scienza – l’inclusione dell’Italia nel gruppo di testa dell’euro sarebbe bastata a screditarli. Nel 1996, alla vigilia della cura da cavallo imposta dall’allora ministro del Tesoro Ciampi, il nostro deficit sfiorava il 7,5% del pil, mentre il debito eccedeva quota 120%. Dall’anno successivo il primo parametro fu dolorosamente centrato, il secondo non lo è mai stato (nel 2017 ha superato il 131%).
La principale ragione per cui fummo ammessi da subito nella moneta unica ha poco a che fare con l’essere cofondatori della Cee, e molto con la nostra tendenza a svendere la lira per rendere appetibile l’export. Fu il rifiuto tedesco di competere sui mercati internazionali con un’Italia in grado di svalutare la propria divisa rispetto a un euro sottratto al controllo della Bundesbank che fece la differenza.
Tale considerazione permette di inquadrare la chiave di volta dell’edificio monetario europeo: il manifatturiero tedesco. In quell’inedito storico che è l’Eurozona, area valutaria «non ottimale» in quanto troppo eterogenea, la Germania è il partner più uguale degli altri. Il suo singolare peso economico e demografico (21% del pil e 16% della popolazione Ue nel 2016) fa sì che il mandato della Banca centrale europea (Bce), pur non potendo prescindere dalle disparate realtà nazionali, risponda in primo luogo alle esigenze tedesche. Queste sono condensabili in due capisaldi: bassa inflazione e moneta stabile, ma non troppo forte da pregiudicare la competitività delle esportazioni.
Il marco tedesco (occidentale), cui l’euro è costretto ad assomigliare, non fu e non sarà mai una lira o una peseta, ma nemmeno una sterlina inglese o un franco svizzero. È la moneta della competitività industriale ottenuta con la moderazione salariale e gli incrementi di produttività, i cui costi sociali sono per quanto possibile attenuati dal welfare. Ma è anche la moneta dell’ortodossia contabile scolpita in costituzione (con l’obbligo di pareggio del bilancio) e perseguita a suon di attivi commerciali (245 miliardi di euro a febbraio, pari a circa il 7,5% del pil tedesco). È, in definitiva, la moneta di una nazione ordoliberista, come si definisce il peculiare connubio germanico di mercatismo e venerazione dei parametri contabili.
Questa realtà ha condizionato l’euro fin dall’inizio.
Negli anni Novanta il grosso dei paesi europei presentava un’inflazione sensibilmente più alta di quella della Germania. La propensione al risparmio e l’avversione all’inflazione degli alacri e virtuosi tedeschi sono spiegate in vari modi: dallo shock di Weimar all’etica protestante [5], anche se è forse improprio scomodare la Riforma. Ancora all’inizio del Novecento, infatti, era la Francia calvinista a predicare il laissez-faire, mentre la giovane nazione guglielmina perseguiva la semiautarchia con politiche dirigistiche e opportuno ricorso al disavanzo [6]. Fu il trauma dei due conflitti mondiali a sovvertire i ruoli, screditando le élite colbertiste francesi e convertendo la Germania all’unico verbo con cui fosse coniugabile la sua rinascita: quello del commercio, con il corollario della competitività di cui la virtù fiscale è in parte strumento.
Tra il 1992 (Maastricht) e il 1999 (termine ultimo per il completamento dell’Unione economica e monetaria), e ancora nei primi anni Duemila (l’euro entra in circolazione nel 2002), si assistette dunque a uno schiacciamento dei tassi d’interesse dell’Eurozona su quelli tedeschi. Le conseguenze di tale allineamento si prestano a due spiegazioni.
Quella «soggettiva» racchiude un severo giudizio etico sulle cosiddette economie periferiche (Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia), i cui governi hanno usato i risparmi sul servizio del debito per comprare consenso con una spesa pubblica improduttiva, invece di sanare i conti e fare investimenti. Frattanto la cittadinanza si indebitava oltremisura, profittando dei tassi stracciati.
Quella «oggettiva» rileva invece come nei famigerati Pigs (i rei suddetti meno l’Irlanda), dove il calo dei tassi era stato maggiore, l’inflazione restò per un certo tempo più elevata rispetto alle economie «centrali» (Germania in testa), perché i poteri d’acquisto continuavano a riflettere le differenze di competitività tra le varie economie. Dal primo gennaio 2002 ciò si tradusse in un’impennata dei prezzi (il noto cambio «di fatto» lira/euro 1000 a 1). Tuttavia, i capitali – erosi dall’inflazione – non erano incentivati a spostarsi nel resto dell’Eurozona, stante l’uniformità dei tassi d’interesse. Sicché ci fu una corsa al mattone, bene rifugio per eccellenza, che innescò bolle speculative poi sgonfiatesi a partire dal 2009-10 [7]. L’indebitamento delle cicale europee fu peraltro assecondato dalle banche francesi e tedesche, a caccia di nuovi mercati in un panorama di rendimenti bassi. Tanto che la successiva corsa di Berlino e Parigi a «salvare» la Grecia deve molto all’inconfessabile necessità di salvaguardare i rispettivi istituti sovraesposti sul mercato ellenico.

4. Le due interpretazioni si completano: ognuna illumina un pezzo di verità. Ma prese insieme non fanno il tutto. Manca un tassello importante: l’effetto prodotto dall’euro sulle ragioni di scambio, dunque sulla competitività, dei paesi europei nei loro reciproci commerci.
L’inflazione genera svalutazione. Pertanto, nelle economie strutturalmente meno competitive (tra cui quella italiana) la moneta unica, non più inflazionabile, implicò nel tempo una sensibile rivalutazione del cambio reale. L’epoca delle svalutazioni competitive era terminata. Questo comportò per molti paesi un aumento delle importazioni e una crescente difficoltà ad esportare: dal 1999 tutta l’Eurozona andò in deficit commerciale. Tutta a eccezione della Germania, passata da un deficit cronico a un costante attivo della bilancia con l’estero [8]. Il grande malato d’Europa si era riconvertito in locomotiva.
La sopraggiunta impossibilità di riequilibrare con la moneta il passivo commercialefavorì nella «periferia» l’indebitamento dei privati verso il sistema bancario, nazionale e non – le importazioni andavano pur pagate in qualche modo – con conseguente aumento dello squilibrio fiscale complessivo. Per certi versi, la dinamica intra-europea nei tre lustri dell’euro è stata simile a quella tra America e Cina prima della crisi, con Pechino che finanziava l’import statunitense di merci cinesi usando gli attivi commerciali per prestare soldi a Washington (tramite l’acquisto di bond). La finanza renana ha fatto lo stesso con gli acquirenti europei, ai quali però – dettaglio cruciale – era adesso precluso stampare soldi per pagare le importazioni. Se avessero potuto farlo, avrebbero recuperato competitività [9]. Il pegno sarebbe stato, come sempre, un’inflazione sostenuta, nemesi e marchio d’infamia delle economie fragili.
Ma perché i mercati non reagirono tempestivamente al deterioramento della posizione fiscale e commerciale nella «periferia»? Perché non fecero pagare da subito più caro il denaro prestato a quei paesi, innalzandone il famigerato spread (il differenziale di rendimento dei titoli del debito pubblico rispetto a quelli tedeschi, considerati sicuri per eccellenza)?
La risposta sbrigativa è che i mercati sono ampiamente imperfetti, come non mancano ciclicamente di dimostrare. Quella più articolata è che essi non presero alla lettera il Trattato di Maastricht, la cui «clausola di non salvataggio» (risultante dal combinato disposto degli articoli 123 e 125) [10] statuisce la responsabilità di ogni Stato membro per la propria condotta fiscale e finanziaria. In altri termini, i mercati ritennero che in caso di guai seri – come il rischio di bancarotta sovrana di un paese dell’euro – la Germania avrebbe superato la sua storica avversione alla Transferunion, l’unione dei trasferimenti per cui un territorio (Stato membro) più ricco ne finanzia uno più povero in ossequio a una solidarietà fiscale tipica degli assetti federali. Quello sarebbe stato il momento monnettiano dell’euro, in cui l’unione monetaria avrebbe compiuto un passo decisivo verso l’unione politica.
Questo azzardo morale – agevolato dalla scommessa geopolitica insita nell’euro – è costato caro, a tutti. La crisi di liquidità greca si è presto tramutata in crisi d’insolvenza di fronte all’iniziale ritrosia di Berlino al salvataggio, e il conseguente panico dei mercati si è esteso agli altri anelli deboli dell’Eurozona. Le banche, i cui bilanci trabocca(va)no di titoli sovrani e crediti di dubbia esigibilità, sono andate in sofferenza. E quando, nella notte dell’euro, governo e parlamento tedeschi hanno infine teso la mano ad Atene, lo hanno fatto per il bene della «casalinga sveva», archetipo di frugalità e buonsenso evocato con trasporto da Merkel [11]. La patria e la rielezione innanzi tutto. Chissà se noialtri, a parti invertite, non avremmo fatto lo stesso.

5. Dov’è l’Eurozona oggi, dopo una recessione decennale e una prolungata terapia deflattiva solo in parte mitigata dai massicci acquisti di debito pubblico della Bce? Il pil complessivo dell’area euro è tornato da poco ai livelli del 2008, ma nei paesi più colpiti dalla crisi il divario resta consistente: -7% per l’Italia, -22% per il Portogallo, -27% per la Grecia. La crescita media dell’area negli ultimi cinque anni è stata dello 0,6%, mentre nel 2015 gli investimenti erano allo stesso livello del 2009, anno nero della recessione. In tre paesi (Spagna, Italia e Grecia) la disoccupazione giovanile supera il 30%, in altri undici (compresi Francia, Portogallo e Finlandia) è tra il 16 e il 25%. «L’economia della conoscenza più competitiva e dinamica» del mondo promessa nel 2000 dalla strategia di Lisbona stenta a materializzarsi, se ancora oggi il mercato unico è un importatore netto di servizi digitali dagli Stati Uniti [12].
Si tratta ovviamente di rozze medie statistiche, che nascondono situazioni assai diverse. Ma rilevano proprio perché la politica della Bce, solo organismo comunitario titolato ad agire in nome e per conto dell’euro, non può che essere una: troppo accomodante per i paesi in surplus di bilancio, troppo restrittiva per gli altri. Questi ultimi sperimentano da anni la cosiddetta svalutazione interna: non potendo indebolire la moneta e incapaci di (o restii a) strutturare mercato del lavoro, fisco e spesa pubblica sul modello tedesco, tagliano salari e posti di lavoro. Il risultato è una crescita bassa o nulla e un’alta disoccupazione strutturale, che dietro i numeri cela una realtà umana fatta di rassegnazione ed emigrazione.
La faglia interna all’Eurozona e all’Ue è fotografata da un recente rapporto [13] della Fondazione Friedrich Ebert, che analizza le posizioni nazionali in merito alla cosiddetta «relazione dei cinque presidenti» [14], la proposta di riforma dell’Unione monetaria avanzata da Jean-Claude Juncker, Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz nel giugno 2015. In quel documento si perora tra l’altro il completamento dell’unione bancaria, l’unione dei mercati finanziari nazionali, il coordinamento delle politiche di bilancio e l’esercizio di un maggior «controllo democratico» da parte del Parlamento europeo. Segnali cifrati di unione politica esplicitati e rilanciati, ancorché strumentalmente, dal presidente francese Macron [15].
Le posizioni in merito alla proposta circoscrivono tre gruppi: i fautori della «stabilità» (Germania, Finlandia, Estonia, Lituania, Malta, Olanda, Danimarca, Romania e Ungheria) rifiutano in blocco ogni ulteriore cessione di sovranità in ambito economico e fiscale; i «federalisti» (Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Belgio, Lussemburgo, Slovenia e Lettonia) sono invece favorevoli, con alcuni distinguo; altri sette paesi (Cipro, Slovacchia, Croazia, Polonia, Irlanda, Austria e Cechia) sostengono un avanzamento parziale – in campo economico o fiscale, a seconda delle convenienze.
Gli attuali equilibri della politica tedesca rendono assai improbabile, nel medio termine, un ribaltamento della posizione di Berlino. Questo, del resto, richiederebbe una modifica del Grundgesetz (costituzione): ipotesi alquanto remota. L’euro appare quindi destinato a restare una moneta intergovernativa, il cui corso è deciso dai rapporti di forza tra i paesi che lo condividono. Il problema è che questo assetto è altamente disfunzionale. Non solo perché, in deroga ai dettami funzionalistici, questa moneta non riesce a generare un governo europeo, restando quindi acefala. Ma anche perché il «consenso di Berlino», cui il resto dell’Eurozona si è volente o nolente dovuto conformare, sta fallendo.
Dal 2012 a oggi la strategia anticrisi è consistita nel fare di tutto per portare in avanzo commerciale l’intera area euro (nonché i paesi, come Polonia o Svezia, ad essa legati tramite l’interscambio con la Germania), pretendendo che il resto del mondo assorbisse tale eccedenza senza battere ciglio. Questa condotta, più adatta a una piccola economia caraibica che al secondo mercato del globo, cozza con i noti problemi di sovrapproduzione della Cina; peggio, risulta altamente vulnerabile all’altrui protezionismo. L’Europa ha vissuto gli ultimi anni come se Donald Trump non esistesse.
Inoltre, inducendo la Bce a compensare le politiche pro cicliche e deflattive con massicci acquisti di titoli del debito pubblico, la cosiddetta austerità ha spuntato le armi di Francoforte. La Banca centrale europea ha oggi a bilancio oltre mille miliardi di titoli sovrani a tassi artificialmente bassi o negativi, spesso acquistati a fronte di collaterali (garanzie) assai dubbie [16]. Quando – non se – la prossima crisi investirà l’area euro, i margini di politica monetaria saranno assai risicati, per usare un eufemismo.
C’è da sperare che l’innesco della crisi prossima ventura non avvenga in Italia. L’olimpica flemma con cui i mercati hanno sin qui assistito ai recenti sviluppi politici italiani sembra frutto, una volta ancora, di due azzardi: che Mario Draghi (o chi per lui) possa e voglia continuare a surrogare l’assenza di una politica economico-fiscale anticiclica; e che Roma non deroghi agli stringenti obblighi di bilancio assunti in sede europea [17]. La prima asserzione è quanto meno dubbia, per i motivi di cui sopra. La seconda non è affatto scontata.
Frattanto, l’euro resterà una moneta incompiuta. Il suo coronamento richiederebbe, in ultima analisi, che il Nord finanziasse il Sud a fondo perduto. È lecito dubitare che ciò avverrà. Perché, come ebbe a dire al riguardo il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker con studiato candore: «Sappiamo tutti cosa bisogna fare. Solo che non sappiamo come essere rieletti dopo averlo fatto» [18].

Note:
1. J. Lanchester, «Money Trap», The New Yorker, 24/10/2016.
2. J. Monnet, Cittadino d’Europa, Napoli 2007, Guida.
3. M. Minenna, P. Verzella, G.M. Boi, La moneta incompiuta: il futuro dell’euro e le soluzioni per l’Eurozona, Roma 2016, Ediesse.
4. V. Lops, «Parla l’inventore della formula del 3% sul deficit/Pil: “Parametro deciso in meno di un’ora, senza basi teoriche”», Il Sole-24 Ore, 29/1/2014.
5. T. Buck, «Why Are Germans so Obsessed with Saving Money?», Financial Times, 22/3/2018.
6. H. James, Monetary and Fiscal Unification in Nineteenth Century Germany: What Can Kohl Learn from Bismarck?, Essays in International Finance, n. 202, Princeton University Press, marzo 1997.
7. M. Minenna, P. Verzella, G.M. Boi, op. cit.
8. Ibidem.
9. Le merci italiane costavano meno al compratore straniero che cambiava i suoi soldi per pagare prezzi espressi in lire svalutate.
10. N. Berto, La clausola di non salvataggio e gli interventi della Bce, Università degli Studi di Padova, a.a. 2014-15, goo.gl/g2Ssxw
11. M. Feldstein, «The Failure of the Euro: The Little Currency that Couldn’t», Foreign Affairs, 1/1/2012.
12. H. Enderlein et al., Repair and Prepare: Growth and the Euro after Brexit, Bertelsmann Stiftung 2016.
13. B. Hacker, C.M. Koch, The Divided Eurozone: Mapping Conflicting Interests on the Reform of the Monetary Union, Friedrich Ebert Stiftung, 2017.
14. J.-C. Juncker et al., Completing Europe’s Economic and Monetary Union, European Commission, 22/6/2015.
15. «Emmanuel Macron’s Europe: A vision, Some Proposals», Fondazione Robert Schuman, 2/10/2017.
16. A. Evans-Pritchard, «Euro “House of Cards” to Collapse, Warns ECB Prophet», The Telegraph, 16/10/2016.
17. W. Münchau, «Financial Markets Fail to Reflect the Eurozone Time-Bomb in Italy», Financial Times, 25/3/2018.
18. «Jean-Claude Juncker’s Most Outrageous Political Quotations», The Telegraph, 15/7/2014.



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