DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

sabato 8 aprile 2017

I MISSILI DI TRUMP E LA RABBIA DELLO ZAR FERITO - un articolo di Lucio Caracciolo per i nostri lettori-


Con l’attacco in Siria, The Donald ricorda – soprattutto a Cina e Russia – che almeno per ora il Numero Uno resta l’impero a stelle e strisce. Il reset con Mosca sembra già compromesso. Il Comandante in capo potrebbe farsi tentare da una guerra.
I cinquantanove missili Tomahawk scagliati da Trump contro una base aerea siriana hanno un doppio bersaglio geopolitico: Russia e Cina.
Messaggio forte e chiaro: l’America c’è e fa sul serio.

L’avvertimento è particolarmente umiliante per Xi Jinpingcolpito mentre era a tavola con il presidente, ospite nella sua residenza in Florida.

Al leader di Pechino Trump ha comunicato brutalmente che se non si sbriga a mettere la museruola alla Corea del Nord, che fra pochi anni potrebbe essere in grado di colpire gli Stati Uniti con una bomba atomica lanciata da un missile balistico intercontinentale, gli Stati Uniti agiranno per primi, vetrificando Pyongyang con un attacco preventivo. A pochi chilometri dalla frontiera cinese (e russa).

Prima le parole, poi i missili hanno mandato di traverso la cena a Xi Jinping, ricordandogli che, almeno per ora, il Numero Uno resta l’impero a stelle e strisce.

Ma il segnale più immediato Trump l’ha mandato a Putin. Al quale è stato ricordato che gli Stati Uniti sono la superpotenza globale. Punto. Quel “Dio benedica l’America e il mondo” con cui il leader della Casa Bianca ha concluso il suo videomessaggio non poteva essere più esplicito circa raggio e intensità della missione universale che la “nazione indispensabile” si attribuisce.

Se il Cremlino immaginava di scalfire, con l’intervento in Siria, il rango e l’impegno americano anche in una regione non più centrale per gli interessi di Washington qual è oggi il Medio Oriente, si sbagliava di grosso.

La principale ragione dell’esibizione di forza russa in Siria e più in generale nel Mediterraneo – incluse Egitto e Libia – era di smentire l’assunto di Obama per cui Putin presiede una mera potenza regionale.

E affermare che Mosca ha suoi interessi e propri “figli di puttana” da proteggere ben oltre il canonico spazio imperiale, quello ex sovietico. A partire dall’universo islamico. Marcando così la differenza con Washington, che a partire dall’ultimo biennio della presidenza Bush e per l’intero ottennato di Obama aveva cercato di estricarsi dal pantano mediorientale.

Con l’attacco missilistico di ieri Trump ha inteso frenare la ritirata, anche per rassicurare i suoi storici alleati nella regione – Israele in testaArabia Saudita e suoi satelliti del Golfo a seguire – sull’impegno americano a proteggerli.

La svolta a 180 gradi della Casa Bianca, che fino a pochi giorni fa assicurava di considerare Assad una realtà inaggirabile per la soluzione della guerra siriana, è maturata nelle ore in cui Trump incontrava il monarca giordano, che per primo ha denunciato la minaccia del “crescente sciita” guidato da Teheran, con al fianco Damasco e alle spalle l’ombrello di Mosca. Uno spettro che incombe sulle entità arabo- sunnite tra Mediterraneo e Golfo.

Ma con questa mossa Trump ha voluto soprattutto affermare il suo status di comandante in capo, per riunire una nazione divisa attorno alla figura del suo portabandiera. E lo ha fatto attaccando indirettamente l’impero nemico dal quale sarebbe stato aiutato a conquistare la Casa Bianca.

Il fatto di aver preavvertito Putin – come altri leader politici di minor calibro – aggiunge la beffa al danno. Tradotto nel gergo diretto che distingue The Donald, il messaggio suona così: «Io faccio quel che mi pare e tu non puoi farci niente». Da sospetta quinta colonna del Cremlino a belligerante anti-russo, il testacoda non poteva essere più drammatico.

Colpito, Putin ha incassato con fredda rabbia, denunciando “l’aggressione” americana alla Siria e mettendo la sordina ai già modesti abbozzi di cooperazione russo-statunitense nella guerra contro lo Stato Islamico.


Dopo nemmeno tre mesi, l’annunciato reset trumpiano delle relazioni con Mosca appare compromesso. Per la resistenza degli apparati della forza americani, abituati a trattare la Russia da nemico, del Congresso e dell’opinione pubblica, per quel poco che s’interessa del resto del mondo.

Certo, per ora siamo al puro colpo di teatro. È possibile che Trump si accontenti dell’effetto scenografico, senza rischiare un’escalation. Il caos sul terreno siriano è tale da sconsigliare – se mai qualcuno a Washington l’immaginasse – una campagna di terra per intestarsi la liberazione di Raqqa dal “Califfo” e di Damasco da Assad. Avendo la quasi certezza dello scontro diretto con Russia e Iran.

Ma nella fresca veste militare Trump può sorprenderci. L’obiettivo strategico suo, come di qualsiasi altro presidente in carica, è di essere rieletto.

Se le fragili fondamenta della sua amministrazione fossero ulteriormente minate dalla resistenza dello “Stato profondo” (intelligence e Pentagono in testa) e di buona parte degli stessi repubblicani – che al di là delle forme non sono il suo partito – la tentazione di una guerra vera potrebbe rivelarsi irresistibile.

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