DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

lunedì 11 marzo 2019

CINA - UNA NUOVA ENORME "ZONA FRANCA" ENTRO 2020: L' ISOLA DI HAINAN - UN NUOVO PORTO FRANCO AL CENTRO DEL PROGETTO -


La grande isola tropicale di Hainan affacciata sul conteso Mar Cinese Meridionale dovrebbe diventare una zona di libero scambio entro il 2020.
di 


La provincia di Hainan, comprendente l’omonima isola, è la più piccola e più meridionale della Repubblica Popolare e in futuro potrebbe rappresentare un laboratorio privilegiato delle riforme economiche cinesi. Pechino intende trasformarla in un centro finanziario e commerciale istituendo una nuova zona di libero scambio che favorisca gli investimenti stranieri e un porto franco in cui i beni possano essere esportati, importati, prodotti e gestiti senza il diretto intervento della dogana.

Boao, lungo la costa orientale dell’isola, ospita dal 2002 il Boao Forum for Asia (Bfa): un evento internazionale cui partecipano politici e uomini d’affari provenienti da tutto il mondo. La “Davos d’Asia” è uno dei primi strumenti con cui la Cina ha cercato di fornire una visione della globalizzazione alternativa a quella plasmata dagli Stati Uniti. Pechino ha proposto un incontro tra Xi Jinping e Donald Trump a margine dell’edizione di quest’anno (26-29 marzo) per risolvere i negoziati commerciali in corso tra Repubblica Popolare e Usa, ma il vertice non è stato confermato.

Hainan, definita “Hawaii della Cina” per il clima tropicale e le belle spiagge, ha anche un grande valore strategico. L’isola infatti ospita una importante base militare e si affaccia sul Mar Cinese Meridionale, la cui sovranità è contesa tra Cina, Vietnam, Filippine, Malaysia, Indonesia, Brunei e Taiwan.

Tali fattori rendono Hainan un tassello chiave della geopolitica cinese.

Lo Stretto di Qiongzhou, che divide Hainan dal Guangdong, è largo solo 30 chilometri. A ovest, il golfo del Tonchino, ampio circa 300 chilometri, separa l’isola dal Vietnam.

Hainan è diventata una prefettura cinese durante la dinastia Qin (221-206 a.C.) e in quella Han (202 a.C.-220 d.C.) è entrata a far parte definitivamente dell’Impero del Centro creato da Qin Shi Huang. In quanto propaggine meridionale più remota del paese, l’isola è stata per diverso tempo un rifugio per coloro che fuggivano dalle guerre in corso nell’heartland cinese e luogo di esilio per i criminali e i funzionari caduti in disgrazia.

Dal 1912, l’allora Repubblica di Cina ha amministrato Hainan con il nome di Qiongya, conferendogli una certa autonomia. Durante la seconda guerra sino-giapponese (1931-1945), le truppe nipponiche hanno invaso l’isola. I nazionalisti del Kuomintang l’hanno ripresa nel 1945 e cinque anni dopo sono stati sconfitti dai comunisti guidati da Mao Zedong. Hainan è diventata una provincia a sé stante della Repubblica Popolare Cinese nel 1988, dopo che è stata separata dal Guangdong.

Nell’ambito della politica di “riforma e apertura” promossa quarant’anni fa da Deng Xiaoping, Hainan è diventata la zona economica speciale (Zes) più grande della Repubblica Popolare. Lo scopo delle Zes era favorire l’apertura dell’economia cinese al resto del mondo. All’inizio, queste si concentravano lungo la costa della Repubblica Popolare, alimentando tuttavia il divario di ricchezza con l’entroterra. Pechino ha poi favorito la loro creazione in luoghi più periferici, inclusa Hainan.

Eppure nell’ultimo decennio l’isola ha ricevuto poco sostegno dal governo centrale e non ha retto la competizione con le altre Zes. Tra il 2012 e il 2017, la provincia ha attirato investimenti esteri per 10 miliardi di dollari, solo l’1,5% del totale accumulato dalla Repubblica Popolare. L’economia di Hainan è cresciuta del 7,8% nel 2017, ma il suo pil è al momento tra i più bassi del paese e la sua popolazione è prevalentemente rurale.

Per Pechino, la provincia comprende ufficialmente gli arcipelaghi Paracel, Spratly e Zhongsha nel Mar Cinese Meridionale. Qui la Cina ha costruito diverse installazioni artificiali per scopi militari e civili. La loro amministrazione è stata assegnata alla prefettura di Sansha, creata nel 2012 sull’isola di Woody, una delle più grandi e sviluppate.

Sulla costa meridionale di Hainan si trova inoltre l’importante base navale di Yulin, che in futuro potrebbe ospitare anche i sottomarini balistici classe Jin. Se e quando Pechino riuscirà a prendere il controllo di Taiwan, le due isole costituirebbero uno scudo a protezione della costa meridionale cinese da potenziali attacchi navali da parte dei suoi rivali, a cominciare dagli Usa.

La zona di libero scambio

Durante l’edizione 2018 del forum di Boao, Xi Jinping ha annunciato che il progetto della zona di libero scambio di Hainan sarà completato entro il 2020.
Uno degli elementi chiave del piano sarà il porto franco, che diventerà pienamente operativo nel 2035. Ad Hainan, Pechino potrebbe consentire il libero accesso alle piattaforme digitali occidentali tradizionalmente censurate nella Repubblica Popolare (Google, Facebook eccetera). Il governo cinese vuole altresì valorizzare il turismo, probabilmente anche tramite l’introduzione delle corse dei cavalli e l’apertura di casinò. Dallo scorso anno ai visitatori di 59 paesi (Italia inclusa) non è richiesto il visto per l’isola a patto che viaggino con un tour organizzato e per un periodo massimo di 30 giorni. Nel 2020, Hainan dovrebbe accogliere 1,3 milioni di turisti stranieri.

In prospettiva, la zona di libero scambio dell’isola potrebbe produrre risultati migliori di quella di Shanghai e delle altre dieci presenti in Cina. La separazione fisica dal resto del paese consente a Pechino di gestire più agevolmente i rapporti con la base politica ed economica locale e di circoscrivere in maniera netta le sperimentazioni all’isola, evitando che queste influenzino la Cina continentale. A ciò si aggiunga che il progetto comprenderà tutta Hainan, grande oltre 35 mila chilometri quadrati, mentre le altre zone di libero scambio cinesi dispongono al massimo di 120 chilometri quadrati. Alcune zone dell’isola sono meno sviluppate di altre, quindi le sperimentazioni daranno indicazioni più affidabili circa l’impatto delle riforme economiche su contesti diversi. L’isola potrebbe beneficiare anche del ridimensionamento del ruolo di Hong Kong, uno dei principali poli finanziari e commerciali del paese. Il governo centrale sta progressivamente incardinando la regione ad amministrazione speciale nei meccanismi politici ed economici della Repubblica Popolare, per smorzarne le pretese democratiche.

Il governo centrale può usare la rivalità tra le diverse zone di libero scambio come leva negoziale nel dialogo con le amministrazioni locali circa l’implementazione delle riforme. Ad ogni modo, Hainan non gode di un centro economico affermato come Shanghai e Hong Kong. Inoltre, i porti dell’isola – Haikou, Yangpu e Basuo – accolgono insieme circa il 10% delle merci gestite da Shanghai. Il progetto del porto franco richiederà la costruzione massiccia di nuove infrastrutture logistiche e commerciali, una revisione della cornice legale, una sensibile riduzione dell’intervento governativo e misure per liberalizzare i tassi d’interesse e un minor controllo sui capitali.

Sullo sviluppo di Hainan potrebbe incidere il rallentamento dell’economia cinese, la cui crescita si attesterà quest’anno tra il 6,5 e il 6%. Il premier cinese Li Keqiang ha recentemente affermato che le priorità di breve periodo saranno la stabilità finanziaria del paese, la riduzione della popolazione rurale di almeno 10 milioni di persone, la creazione di 11 milioni di posti di lavoro nelle città, l’aumento del pil reale pro capite proporzionalmente alla crescita del paese. Inoltre, le importanti riforme economiche annunciate dal presidente cinese Xi Jinping per ora non si sono concretizzate, anche a causa delle lotte di potere interne al Partito. Lo stesso Xi ha anche chiarito più volte che il Partito comunista terrà saldamente le redini dell’economia.

Per queste ragioni, il processo di trasformazione di Hainan darà importanti indicazioni sul modo in cui Pechino intende dirigere l’evoluzione della Repubblica Popolare.



giovedì 7 marzo 2019

TRIESTE PUO' DIVENTARE COME SINGAPORE: CONVERSAZIONE CON ZENO D' AGOSTINO PRESIDENTE DELL' AUTORITA' PORTUALE DI TRIESTE - Dal nuovo numero di Limes


Pubblichiamo questa intervista a Zeno D' Agostino realizzata prima delle pubbliche prese di posizione di USA e UE critiche sulle "Nuove Vie della Seta". L' intervista è pubblicata sull' ultimo numero di Limes UNA STRATEGIA PER L'ITALIA - n°2 - 2019.

Abbiamo contattato telefonicamente il Presidente D' Agostino in merito alle odierne notizia di stampa sulla contrarietà americana (e UE) agli investimenti cinesi nel porto di Trieste ed è parso ottimista e particolarmente soddisfatto dell' interesse della stampa internazionale per il porto di Trieste e del fatto che gli arrivino richieste di interviste dalle maggiori testate americane e internazionali.
- "
Siamo sulla bocca e sulle pagine dei giornali di tutto il Mondo. E' probabile che molti investitori arriveranno. Spero anche molti americani..." " Ci sono accordi in vista con i maggiori player al mondo del settore, e da oggi interesse su Trieste che cresce a dismisura. Chi lo avrebbe mai solo immaginato solo pochi anni fa? Veramente la Singapore dell’Adriatico!" -


Speriamo bene perchè  Trieste è già stata sacrificata sull' altare della prima "Guerra Fredda" pagando con decenni di paralisi, e non gradirebbe che la storia si ripeta adesso che si aprivano serie prospettive di tornare ad essere lo snodo tra Europa ed Oriente.


L' articolo di fondo di questo numero di Limes suggerisce all' Italia riguardo questi aspetti di una strategia generale "... dagli americani ci attendiamo che rinuncino a sabotare la nostra adesione ai dossier economico-commerciali della via della seta – una volta accettato di prenegoziare con loro le linee rosse cui attenerci in materia – e a minare la per noi insostituibile interdipendenza energetica con la Russia, posto il nostro rifiuto di partecipare alla destabilizzazione del colosso eurasiatico".

Ecco l' intervista:

Conversazione con Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico Orientale (Trieste e Monfalcone).
a cura di 

LIMESHa senso considerare Trieste un porto italiano vista la sua storia, il suo status giuridico e la sua propensione a operare con l’Europa centrale?
D’AGOSTINOTrieste è un porto italiano, ma oggi lavora soprattutto con lo spazio dell’ex impero austroungarico. Inoltre, sta ampliando le attività anche nell’Europa occidentale. Per esempio sono incrementati i trasporti merci intermodali verso il Lussemburgo e il Belgio. Dobbiamo ricordare che prima dell’emersione degli scali marittimi del Nord Europa, le attività di quelli nostrani erano proiettate naturalmente oltre i confini nazionali. Le dinamiche internazionali in corso offrono alla Penisola l’opportunità di tornare principale porta di accesso all’Europa dei flussi marittimi mondiali.
LIMESIl Trattato di pace del 1947 e il memorandum di Londra del 1954 (firmato da Italia, Usa, Regno Unito e Jugoslavia) disciplinano l’amministrazione di Trieste e del porto franco. In base a essi, il direttore dello scalo marittimo non deve essere italiano o jugoslavo. Come è possibile che lei sia presidente dell’Autorità portuale?
D’AGOSTINOSarebbe troppo facile rispondere che il Trattato di pace si riferisce alla figura del direttore e non a quella del presidente. Le due cariche di fatto coincidono. Piuttosto il documento del 1954, che riconosce la fine dell’esperienza del Territorio libero di Trieste, afferma l’impegno del governo italiano a mantenere il porto franco «in general accordance» con i primi venti articoli dell’Allegato VIII del Trattato. Ciò significa che non devono essere rispettati pedissequamente. Al di là di questo dettaglio giuridico, credo che la cosa più importante sia che il porto funzioni. Se questo non dovesse bastare, vorrà dire che cambierò cittadinanza (risata).
LIMESDa tempo si parla di investimenti della Cina a Trieste e in particolare di un interessamento di China Merchants Ports Holding per la piattaforma logistica del porto. Inoltre, a breve l’Italia potrebbe aderire alla Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta). Dovremmo temere una maggiore presenza del Dragone in Italia?
D’AGOSTINOI colossi della logistica cinese sono certamente interessati a fare affari con Trieste, visto che è uno snodo strategico tra il Mar Mediterraneo e il Nord Europa. Ma le preoccupazioni italiane sono esagerate e comunque tardive. Da tempo la Repubblica Popolare investe nel nostro paese e in Europa. Le attività cinesi riguardano tutti i settori, inclusi i fondi che controllano proprietà logistiche e industriali. Parte dei timori emersi in Italia sono motivati dal fatto che la Cina ha preso il controllo di diversi porti stranieri, incluso quello del Pireo in Grecia, attraverso l’acquisizione delle Autorità portuali. Comprendo le riserve dei paesi economicamente più fragili, ma se Trieste concluderà degli accordi con la Cina, non si assisterà a un simile scenario. L’Autorità infatti non intende rinunciare alla gestione del porto. Oggi controlliamo una parte importante della nostra catena logistica marittima: non solo il porto in sé, ma anche i punti franchi, la zona industriale e gli interporti. In più, controlliamo al 100% l’impresa ferroviaria privata Adriafer. Abbiamo conservato in mano statale aziende che conducono attività fondamentali nello scalo marittimo e costituito un’agenzia del lavoro per gestire la manodopera, anziché affidare la questione ai privati. Così abbiamo evitato che costoro portassero forza lavoro a loro più gradita.
In Europa abbiamo scartato con troppa sufficienza l’importanza della pubblica amministrazione nell’ambito portuale. Anche perché le leggi comunitarie, ancorate al modello liberistico, privilegiano il settore privato e impediscono la preminenza del pubblico. In questo senso potremmo imparare qualcosa dall’approccio cinese e asiatico alla logistica portuale. La Repubblica Popolare ha di fatto abbracciato il capitalismo, ma è dotata di potenti società statali che sono riuscite a penetrare nei gangli dell’economia mondiale. Il ruolo dello Stato nell’accrescere la capacità del sistema portuale è evidente anche nel caso di Dp World a Dubai. Trieste ha preso spunto da modelli di successo come Singapore e Hong Kong, i cui porti non erano tanto più grandi del nostro prima di affermarsi come snodi marittimi mondiali. Forse sarò troppo ottimista, ma con questi presupposti e sulla base della nostra posizione strategica nel Mar Mediterraneo potremmo replicare il loro successo.
LIMESGli investimenti della Repubblica Popolare a Trieste implicherebbero anche l’avvio di collaborazioni legate alle telecomunicazioni?
D’AGOSTINO Le aziende cinesi hanno espresso il loro interesse anche in tal senso. Del resto, le nuove vie della seta costituiscono un progetto di integrazione globale, che prevede sia lo sviluppo di infrastrutture tradizionali sia il potenziamento delle connessioni digitali. Si pensi all’impatto che possono avere la rete 5G e l’intelligenza artificiale sull’efficienza dell’economia. La Cina in questi campi è all’avanguardia e cooperarci è inevitabile, a patto che sia in linea con i nostri interessi.

LIMES Quali altri paesi intendono operare a Trieste?


D’AGOSTINO Ungheria, Austria e Germania hanno manifestato la volontà di investire nei terminali del porto. Lo scorso dicembre, l’azienda indonesiana Java Biocolloid Europe ha avviato un’attività nel porto franco. Una società danese ha da poco preso la gestione di un terminale che prima era in mano turca. Anche Trieste vorrebbe fare lo stesso in scali stranieri importanti per i suoi traffici. Abbiamo affrontato questo capitolo con Austria, Germania, Lussemburgo, Ungheria, Slovacchia e Cina.
LIMESTrieste è storicamente territorio di frontiera. Oggi l’Italia è teatro della competizione tra Stati Uniti e Cina. Quale potrebbe essere la reazione americana agli investimenti cinesi?
D’AGOSTINOSpero che queste dinamiche inneschino un circolo virtuoso, attirando nuove opportunità. A quel punto, Trieste sarebbe più di un porto italiano. Diventerebbe uno snodo del commercio marittimo mondiale al pari di Rotterdam o Amburgo. In questi scali i cinesi sono già fortemente presenti, ma lì si agitano meno di quanto accade in Italia.
LIMESCosa si può fare per valorizzare i porti del Sud Italia, che per ora non sono considerati come snodi potenziali delle nuove vie della seta?
D’AGOSTINOIl futuro dei porti del Mezzogiorno non va solamente legato allo sviluppo delle rotte provenienti da Oriente, ma a quello del commercio interno al Mar Mediterraneo e in particolare ai rapporti con l’Africa. Da tempo la Cina opera nel Continente Nero, ma gli africani gradiscono di più gli europei, come ha detto l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi a Parigi lo scorso settembre durante la conferenza del Reinventing Bretton Woods Committee. Non si capisce perché l’Ue non abbia ancora sviluppato un progetto speculare alle nuove vie della seta, dotato di una visione unitaria di lungo periodo e progetti specifici focalizzati sul versante Sud del Mar Mediterraneo. L’Italia sarebbe la prima a trarne beneficio, vista la sua collocazione in mezzo al mare nostrum.

L' ITALIA PRONTA A ENTRARE NELLA VIA DELLA SETA ? L' OPPOSIZIONE DEGLI USA - "Essere teatro dello scontro Cina-Stati Uniti è un’opportunità da non sprecare": un primo commento di Limes



L’ITALIA PRONTA A VESTIRSI DI SETA ?
di 
Come anticipato da Limes la scorsa settimana, il governo italiano è pronto a firmare il memorandum d’intesa per aderire alle nuove vie della seta. Il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci ha dichiarato al Financial Times che, pur non essendo ancora conclusa la trattativa, il documento verrà siglato durante la visita del presidente cinese Xi Jinping nel nostro paese, che inizia il 22 marzo.
Perché conta: L’Italia sarebbe il primo membro del G7 a entrare nel progetto infrastruttural-commerciale di Pechino. Sviluppo sgradito agli Stati Uniti, che hanno subito esternato la propria contrarietà, mettendo in dubbio l’effetto benefico dell’iniziativa per il Belpaese. Washington interpreta le nuove vie della seta come strumento di espansione globale dell’influenza cinese, al pari degli investimenti di Huawei nelle reti 5G dei principali paesi europei (Italia inclusa).
Di fronte a tale pressione, per Roma si apre una fase molto delicata. Tassello per nulla irrilevante dell’impero americano, l’Italia non può gettarsi nell’abbraccio cinese perché gli Usa non lo accetterebbero: hanno gli strumenti per farle pagare un conto salato. Primo fra tutti la minaccia di rimuovere l’ombrello bellico-finanziario, che garantisce la protezione della penisola. Ma non può nemmeno rinunciare agli investimenti della Repubblica Popolare, occasione per rilanciare soprattutto le infrastrutture portuali e il loro indotto.
All’Italia spetta il difficile compito di selezionare con cura i progetti cinesi non lesivi non solo della sicurezza nazionale ma pure degli interessi militari e spionistici Usa nella penisola. Con una consapevolezza: essere teatro dello scontro Cina-Stati Uniti è un’opportunità da non sprecare per aumentare il profilo e il peso negoziale del paese.

mercoledì 27 febbraio 2019

TRIESTE: I CINESI CI SONO GIA' E TUTTO VA BENE - ASSE CON FINCANTIERI - RILANCIATO IL RUOLO DI TRIESTE SULLA VIA DELLA SETA -


Un articolo del Piccolo sul convegno di ieri a Trieste parla della  fruttuosa collaborecione tra Fincantieri e Cina.Il capo del colosso di Stato cinese promuove Bono: asse con Fincantieri Di Maio fa marcia indietro. Boom del titolo (+15%). Convegno con Carniva: rilanciato il ruolo di Trieste sulla Via della Seta

di Pircarlo Fiumanò
TRIESTE. «Bono è molto bravo nella gestione del suo gruppo. Siamo felici di lavorare con lui. Fincantieri ha un ottima reputazione nel mondo»: parla così Lin Fanpei, amministratore delegato di China State Shipbuilding Corporation, il colosso pubblico della cantieristica cinese. Ed è come se parlasse il governo di Pechino. Da Lin Fanpei arriva questo nuovo FOEPSTFNFOU a favore del numero uno del colosso cantieristico triestino al culmine di una giornata trionfale per il titolo in Borsa (+15%) dopo la presentazione dei conti chiusi con un record di ricavi. Bono “incassa” così il plauso dei mercati e un riconoscimento di peso: «Diciamo che a questo punto mi sento responsabile e sono pronto a uscire in gloria», commenta scherzosamente Bono dopo le pressioni politiche degli ultimi giorni per un ricambio al vertice del colosso navalmeccanico. Poco dopo le agenzie diffonderanno la marcia indietro del vicepremier Di Maio: «Fincantieri rappresenta una realtà di assoluto rilievo per il panorama industriale nazionale ed il Governo è pienamente consapevole del suo ruolo strategico. In vista della futura scadenza della governance aziendale, nessuna decisione è stata assunta». Fincantieri è il primo grande gruppo industriale italiano a stringere un patto pesante con i Dragoni. A Shanghai nel novembre scorso i vertici di Fincantieri hanno siglato con China State Shipbuilding Corporation (Cssc) e lo storico alleato Carnival hanno firmato i contratti per la costruzione di due navi da crociera, e ulteriori quattro in opzione, che saranno le prime unità di questo genere mai realizzate in Cina per il mercato cinese. L'accordo ha un valore di circa 1,5 miliardi di dollari per le prime due navi con consegna prevista per il 2023. Lin Fanpei, una gloria nazionale essendo un veterano dell’industria aerospaziale cinese, ha parlato a Trieste al convegno organizzato dalla Fondazione Italia-Cina che nella sostanza rilancia Trieste come uno dei capisaldi della Via Della Seta, il grande piano di espansione commerciale di Pechino dai porti dell’Asia fino all’Adriatico settentrionale. E anche di questo si discuterà il 22 e 23 marzo durante la visita ufficiale di Xi Jinping a Roma, come ha sottolineato Vincenzo Petrone, ex presidente di Fincantieri e oggi a capo della Fondazione. Sulla nuova Via Della Seta, e sul ruolo di Trieste, l’asse Fincantieri-Carnival-Cssc apre grandi prospettive. Come ha sottolineato Bono, Fincantieri «potrebbe diventare il volano per l’insediamento in Cina della propria catena italiana di fornitura, o di altre Pmi italiane, che in questo modo trarrebbero un notevole vantaggio dall’operazione». Il patto di ferro fra il gruppo triestino e i cinesi-come ha precisato Lin Fanpei-potrà ampliarsi anche ad un numero di progetti di ricerca e sviluppo in molteplici aree della navalmeccanica. Il gruppo triestino sta facendo da apripista ai futuri interscambi commerciali verso il Paese dei Dragoni. Nel periodo 2000-2017 la Cina ha investito in Italia 13,7 miliardi di euro piazzandosi al terzo posto dopo Regno Unito e Germania. Non solo. Secondo i dati elaborati dalla Fondazione Italia Cina sono oltre 600 le aziende italiane a capitale cinese principalmente nei settori chiave del Made in Italy. Michael Thamm, amministratore delegato del Gruppo Costa e Carnival Asia, ha annunciato la creazione di un nuovo brand di crociere che opererà in Cina: «Grazie all’arrivo di Costa nel 2018 ci sono stati 2,5 milioni di cinesi in crociera. Il potenziale di sviluppo futuro è ancora enorme: i crocieristi in Cina rappresentano al momento meno del 2% dei cinesi che fanno vacanze all’estero». 


mercoledì 13 febbraio 2019

L' ITALIA NAZIONALISTA: DALLA FRANCIA A ISTRIA E DALMAZIA - A proposito dei recenti "incidenti diplomatici" con Slovenia e Croazia un articolo di Limes On Line


Pubblicato su Limes On Line il 12 febbraio 2019
ITALIA E NAZIONALISMO
Il ministro della Giustizia francese ha annunciato che l’Italia ha presentato richiesta formale di estradizione di uno dei latitanti di estrema sinistra riparato Oltralpe durante gli anni di piombo. Nel frattempo, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani si è scusato per i commenti sull’Istria e la Dalmazia italiane pronunciati a una commemorazione dei martiri delle foibe, sostenendo che le sue parole non equivalevano a una rivendicazione territoriale. Slovenia e Croazia avevano accusato il politico italiano di revisionismo storico.
Perché conta: Il filo rosso fra i due avvenimenti è il crescente ricorso al nazionalismo da parte dei politici italiani, al governo ma non solo. La richiesta di estradizione approfondisce lo scontro con Parigi a pochi giorni dal richiamo dell’ambasciatore francese in Italia e costituisce un nuovo capitolo di una querelle che ci divide da decenni. Il richiamo alle comunità italiane in Istria e Dalmazia si inserisce in una lunga storia di usi strumentali della memoria. Nessuno dei due fatti fa parte di una strategia geopolitica: serve ad aumentare consensi elettorali. Ma è il segnale della diffusione nella società di sentimenti nazionalisti, che peraltro contribuisce a surriscaldare i rapporti con i vicini.

L' ITALIA DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE 
Cessate le ostilità, l’allargamento a nord-est del nostro paese fu possibile in base agli accordi internazionali sottoscritti nel dopoguerra: il trattato di Saint-Germain del 1919, che ci assegnò Trentino e Alto Adige, e il trattato di Rapallo del 1920, che fissò il confine con il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni.

Nel numero Quanto vale l’Italia :

Per togliere all’impero asburgico la componente italiana e arrivare a Trieste e a Trento si combatté fino alla prima guerra mondiale. Vienna fu forzata a gestire i rimasugli dell’impero ottomano a sud di Zagabria. Come potenza vincitrice nella Grande guerra, ovvero nella quarta guerra d’indipendenza, Roma abbracciò con gioia il principio di autodeterminazione dei popoli proposto da Woodrow Wilson – ed entusiasticamente sostenuto da Lenin in altri lidi – per sminuzzare il vecchio rivale asburgico, per qualche decennio perfino alleato nella Triplice Alleanza, specchio della carenza di orientamento strategico e della brama di riposizionamento in quello che fu il grande lago di Venezia. Quello sminuzzamento poteva essere interpretato da Wilson come la realizzazione dei princìpi di libertà e democrazia a stelle e strisce per disfarsi di strutture monarchiche incompatibili con il destino manifesto della futura potenza egemone dell’Occidente, mentre per l’Italia era il modo migliore per tentare d’applicare il principio del divide et impera in una regione di per sé caratterizzata da storiche diversità culturali, politiche ed economiche. A cento anni dalla fine della prima guerra mondiale è oramai lampante che l’Italia non ha saputo affermarsi nell’entroterra del lago veneziano e nelle antiche regioni romane del Norico e della Pannonia.
Fu l’esplodere del primo conflitto mondiale a mostrare la strategica urgenza di dominare le Alpi Retiche. Solo allora il governo italiano comprese che per ottenere tale risultato doveva rompere con l’Austria-Ungheria, padrona delle Alpi orientali. Nella primavera del 1915 il Regno d’Italia abbandonò gli Imperi centrali in favore della Triplice intesa e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino ottenne dai nuovi alleati la promessa di annessione del Tirolo cisalpino, scolpita nell’articolo 4 del patto di Londra. Quanto riconosciuto al termine della guerra dal trattato di Saint-Germain-en-Laye (1919), nonostante la vittoria mutilata. La Venezia Tridentina, dizione coniata nel secolo precedente dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli, diveniva ufficialmente italiana. Il Regno si spingeva perfino oltre lo spartiacque alpino attraverso il possesso del Comune di San Candido, presso le sorgenti del fiume Drava, affluente del Danubio.
Durante il ventennio fascista, Roma provò a trasformare in strategica l’acquisizione territoriale. Benito Mussolini decise la forzata e dolorosa assimilazione dei germanofoni dell’Alto Adige. Obiettivo ultimo era controllare la regione e la popolazione che vi abitava, ponendo un concreto diaframma tra la transalpina area germanica e il resto del paese.

Carta di Laura Canali, in esclusiva a colori su Limesonline.

venerdì 8 febbraio 2019

ORA LE ALPI SONO PIU' ALTE - LA CRISI ITALIA-FRANCIA COMMENTATA DA LUCIO CARACCIOLO, DIRETTORE DI LIMES


Sulla crisi Italia -Francia su Limes-On Line è uscito l’ altro ieri l’ articolo di Lucio Caracciolo che riportiamo sotto.
L’ articolo prevedeva, 
oltre al richiamo dell’ ambasciatore, delle rappresaglie da parte francese alle mosse avventate del Vicepresidente del Consiglio Di Maio che ha incontrato proprio in Francia alcuni esponenti di un’ ala particolarmente dura e di destra dei “gilet gialli” : “I colpi saranno visibili a chi deve vederli, ma sparati con il silenziatore”.

Poche ore dopo sembra che da parte francese non si voglia usare nemmeno il silenziatore: non viene rispettato l’ accordo per l’ accoglienza di una parte dei migranti della Sea Watch (il che riguarda Salvini) e salta la trattativa per l’ acquisizione di Alitalia su cui puntava Di Maio.
Speriamo non sia coinvolto anche l’ accordo con Fincantieri per l’ acquisizione dei cantieri navali francesi STX.
Lo sapremo forse dopo il Consiglio d’ amministrazione di Fincantieri appena convocato proprio per la data in cui l’ amministratore delegato Bono dovrebbe partecipare al nostro convegno del 14 a Trieste.


ORA LE ALPI SONO PIU' ALTE

Data l’intrinsechezza geopolitica, economica e commerciale fra i due paesi, abbondano i dossier su cui i francesi cercheranno di farci pagare pedaggio.
di Lucio Caracciolo

Da oggi le Alpi sono più alte. Il richiamo per consultazioni dell’ambasciatore di Francia a Roma, Christian Masset, sigilla una crisi senza precedenti nei rapporti italo-francesi. Almeno dal famigerato “colpo di pugnale alle spalle” del giugno 1940, quando Mussolini ordinò alle nostre truppe di invadere la Grande Nation già sopraffatta dalla Wehrmacht, nell’illusione di presto partecipare al banchetto in cui se ne sarebbe spartito le spoglie insieme a Hitler.
Eppure il gesto volutamente clamoroso di Macron non giunge inaspettato. Quasi inevitabile replica alla missione lampo di Luigi Di Maio in terra francese, per incontrare una presunta rappresentanza dei gilet gialli, dai loro stessi capi sconfessata. A guidarla l’islamofobo Christophe Chalençon, estremista di destra che vorrebbe un uomo forte – il generale Pierre de Villiers – all’Eliseo. Insomma, il nostro numero due s’è intrattenuto fraternamente con un aspirante golpista che vorrebbe i militari al posto del numero uno del paese dove si trovava informale e indesiderato ospite. Solo l’ultimo, farsesco episodio di una tragicommedia persino esilarante (culminata nella “polemica” sul franco Cfa) se non fosse seria. Almeno per noi italiani. E adesso, pare, un poco anche per i francesi.
È fuorviante valutare il vertice Chalençon-Di Maio sotto specie politico-elettorale, in vista del voto cosiddetto europeo di maggio, cui ogni paese partecipa con liste proprie, scrutandosi rigorosamente l’ombelico, preoccupato delle ripercussioni domestiche del risultato. Certo, per i movimentisti a cinque stelle l’attrazione dei gilet gialli è formidabile, posto che ne conoscano l’indirizzo. Sentimento non reciprocato dalla grandissima parte di costoro, fosse solo perché dei presunti fratelli italiani gliene importa poco o nulla. Quello che impressiona, semmai, è l’incoscienza con cui un vicepresidente del Consiglio dei ministri fa uso del suo ruolo istituzionale.
Non entriamo qui nel merito tattico della sua mossa, che si risolverà forse in un boomerang, o forse no – vedremo il 26 maggio. Ciò che impressiona è l’allegra indifferenza ai due princìpi fondamentali di qualsiasi strategia, non importa il colore: valutare i rapporti di forza e volere le conseguenze di ciò che si vuole. Dogmi che un tempo i dirigenti politici succhiavano con il latte, anche perché formati in autentici partiti e non nei correnti facsimile.
Nella fattispecie, assumendo che la gita a Parigi sia stata progettata in sobria coscienza, è consapevole il nostro vicepresidente del Consiglio delle conseguenze che il suo gesto provocherà per il suo e nostro paese? Oppure immagina che lo Stato francese, cui non difettano una certa idea di sé e una vena di irritabilità, possa contentarsi della gesticolazione diplomatica, destinata a rientrare? Data l’intrinsechezza geopolitica, economica e commerciale fra i due paesi, abbondano i dossier su cui i francesi cercheranno di farci pagare pedaggio. Dalla Libia a Ventimiglia, dalla cantieristica civile e militare all’Alitalia, fino allo scambio di informazioni segrete necessarie alla sicurezza nazionale, Parigi avrà di che sbizzarrirsi. Pur in una congiuntura assai critica, con un presidente infragilito, incapace di leggere il suo stesso paese e perciò inutilmente arrogante – di qui il modesto tasso di popolarità e la pallida credibilità sulla scena internazionale – la Francia ce la farà pagare. Senza esagerare, perché la considerazione di Parigi per Roma non è mai stata alta ed è ora ai minimi.
I colpi saranno visibili a chi deve vederli, ma sparati con il silenziatore. I fuochi d’artificio darebbero importanza a chi non ne deve avere. Giacché quando si violano le regole di base della competizione fra nazioni, con un responsabile di governo straniero che sostiene gli avversari del tuo monarchico presidente in casa sua, la reazione istintiva è di rappresaglia. In tal caso le burocrazie si muovono in automatico. Alla vendetta fredda in salsa gallicana non potremo opporre granché. Essendo, fra l’altro, più soli che mai in ambito euroatlantico.
Italia e Francia sono vicini che non hanno mai cercato di capirsi. Forse presumendo di non averne bisogno. Roma e Parigi hanno preferito coltivare piattezze retoriche, dalla “latinità” alla “cuginanza”, evocate con velenosa eleganza nello stesso comunicato del ministero degli Esteri che annunciava il richiamo di Masset. Dove si discetta nientemeno che di “comune destino”. Finora, il destino di Italia e Francia è stato di affettare una reciproca amicizia che non ha mai avuto radici profonde. Con il risultato di scoprirsi spesso avversari, talvolta nemici, quando si arrivava al dunque e la storia ti chiedeva il conto.
Circola tuttora in quel che resta della classe dirigente nostrana la massima di Machiavelli nel De Natura Gallorum, per cui i cugini d’Oltralpe quando non possono farti del bene, te lo promettono, e quando possono fartelo, difficilmente lo fanno, o non lo fanno. Negli omologhi francesi, prevale l’opinione che dell’Italia non sia necessario avere un’opinione.
Se questo è un destino, urge cambiarlo.

sabato 26 gennaio 2019

IL MONDO LEGATO ALLA CINA - Come l’Impero del Centro guarda sé stesso e il globo - Su Limes una nuova cartina che evidenzia Trieste

Carta di Laura Canali
– inedito a colori in esclusiva per gli abbonati a Limesonline -

Nella cartina di Limes, pubblicata on line, vediamo ben evidenziata Trieste.
Nella seconda metà di marzo il presidente Xi Jinping andrà a Roma a parlare principalmente delle Nuove Vie della Seta e del nostro Porto Franco Internazionale.
Probabilmente questo preoccupa gli avversari geopolitici della Cina, in particolare gli USA, che hanno interesse ad ostacolare la formazione di una "testa di ponte" cinese nel cuore dell' Europa. E non è escluso che vengano rivendicate posizioni di privilegio per la NATO, desuete da anni, quanto ai controlli di sicurezza nel Porto Franco Internazionale di Trieste come è stato adombrato anche su 
taluni articoli di riviste internazionali specializzate (clicca QUI).




Anche di questo si parlerà
nel nostro prossimo appuntamento
GIOVEDI' 14 FEBBRAIO

ORE 18
STAZIONE MARITTIMA
TRIESTE

25/01/2019
Come l’Impero del Centro guarda sé stesso e il globo.

La carta inedita a colori della settimana è dedicata all’auto-percezione della Cina sul planisfero e alla sua effettiva proiezione internazionale.

La mappa cartografa il Celeste Impero al centro del mondo, come potenza al contempo terrestre e marittima – un disegno sublimato dalle duplici nuove vie della seta (Bri).

Pechino fa perno su tale narrazione, all’interno e oltre confine, nel percorso di “risorgimento nazionale” culturale e geopolitico declamato dal presidente e uomo forte della Repubblica Popolare Xi Jinping.

Il fine è tornare a esercitare sullo scacchiere internazionale il peso che Pechino crede le spetti per il solo fatto di essere Zhongguo, l’impero al centro del globo dal retaggio millenario.

Da qui la rappresentazione della Repubblica Popolare quale perno del planisfero, in linea con le sue aspirazioni internazionali.

Dal Celeste Impero si irradiano le rotte terresti e marittime (anche tramite l’acquisizione del controllo di porti strategici) che puntano a connettere il resto del mondo a Pechino, attraverso, attorno e oltre l’Eurasia.

Vettori del nuovo attivismo della Cina – imperialistico e predatorio, stando agli Usa – le manovre e le rotte strategiche dell’Impero del Centro hanno difatti il potenziale per plasmare lo scacchiere globale “con caratteristiche cinesi” nei decenni a venire.

Dall’Africa all’Oceania, dal Sudest asiatico all’Indocina, dall’Asia centrale all’Europa, dal Sudamerica all’Artico. Dati la multidimensionalità dei progetti previsti o in corso di realizzazione, numero e geografia dei paesi coinvolti nella Bri e nelle rotte strategiche della Cina.

In gioco c’è anche la primazia globale degli Stati Uniti, impegnati difatti in un’offensiva anti-cinese a tutto tondo volta al contenimento delle ambizioni del Celeste Impero sui fronti economico-tecnologico, militare, di soft power.

Per approfondire: Limes 11/18 Non tutte le Cine sono di Xi.