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mercoledì 15 agosto 2018

L'EUROPA HA CAMBIATO L'AUSTRIA. ORA L'AUSTRIA VUOLE CAMBIARE L'EUROPA - Un articolo di Limes On Line -

L’Europa ha cambiato l’Austria. Ora l’Austria vuole cambiare l’Europa

Le crisi che attraversa l’Unione Europea impongono a Vienna di riflettere sulla propria identità, sul rapporto con la Germania e su quello con la Mitteleuropa.


L’ultimo decennio ha visto grandi trasformazioni dello spazio geopolitico attorno alla piccola Austria.


Queste numerose trasformazioni hanno ulteriormente alterato quei tratti del sistema regionale sopravvissuti alla caduta della cortina di ferro, che aveva cristallizzato la postura internazionale austriaca in una funzionale nicchia di neutralità che si inseriva lungo tre vettori principali. Quello mitteleuropeo, che era finito oltre-cortina ed era a egemonia russo-sovietica; quello balcanico, che coincideva sostanzialmente con lo spazio neutrale jugoslavo; quello europeo, determinato dal polo di attrazione linguistico ed economico della Germania, principale motore del processo di costruzione di uno spazio politico comunitario.

Questo incastro di tre mondi geopolitici che si dipanavano attorno a Vienna, rendendo speciale la posizione di frontiera multipla dell’Austria, era ovviamente il prodotto delle fratture geopolitiche dell’ordine di Yalta. Che, ancorché sopravvissute al crollo della cortina di ferro, erano iniziate a venire meno in seguito alla dismissione dei progetti geopolitici sovietico e jugoslavo e all’emersione del piano per la creazione di una cosiddetta Nuova Europa che unisse l’Europa occidentale con quella orientale e sud-orientale. Quest’ultimo progetto rappresentava una drastica semplificazione geopolitica a nord, est e sud-est dell’Austria; rendeva apparentemente superato il concetto di neutralità di Vienna, in quanto due terzi dei paesi confinanti entravano nello spazio di attrazione dell’unico vettore geopolitico sopravvissuto, quello del cosiddetto allargamento euro-atlantico, con centro nominale a Bruxelles e centri strategici a Washington e Berlino.

Il processo di allargamento euro-atlantico spostava le frontiere geopolitiche di diverse centinaia di chilometri dai confini austriaci, avviando un superamento dello status di neutralità attiva e creando un rischio di marginalizzazione. Vienna tentò di superare questo rischio con l’ingresso nell’Unione Europea (referendum del 1995), rinunciando all’opzione di una sovranità assoluta, quella di divenire una Svizzera dell’Est. Pochi hanno osservato che la riconfigurazione della politica estera austriaca in chiave europeista implicava il prevalere dell’opzione pangermanica a scapito di quella nazionale.
Le progressive difficoltà registrate dal progetto europeo anche nella sua dimensione orientale (problemi economici e istituzionali dei paesi di nuovo allargamento, mancato completamento dell’integrazione dei Balcani occidentali, acuirsi delle tensioni dell’Ue con Mosca ed Ankara), la fragilità dell’Eurozona e da ultimo la crisi migratoria che ha investito il continente hanno ridato forza in Austria alla prospettiva nazionale rispetto ai fallimenti della Ostpolitik europea e tedesca.

In questo contesto, l’affermazione di un governo conservatore-nazionalista e l’abbandono della grande coalizione – la stessa al potere nei parlamenti di Berlino e di Bruxelles – sono segnali di rottura rispetto agli sviluppi nella politica interna ed esterna dell’Ue. In particolare, rispetto alla gestione da parte della cancelliera tedesca Angela Merkel delle due grandi crisi intervenute con Mosca ed Ankara. L’Unione Europea è stata costretta a scendere a patti con Erdoğan dopo aver subito la crisi migratoria nel biennio 2014-2015 e a sposare la linea dura di Washington contro Putin per il conflitto in Ucraina; le sanzioni alla Russia e la linea morbida verso la Turchia hanno ampliato le differenze tra Berlino e Vienna, rendendo la visione geopolitica di quest’ultima più simile a quella della Baviera o degli Stati del blocco di Visegrád (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia – V4) che a quella del più grande Stato tedescofono d’Europa.

I cambiamenti negativi verificatisi negli ultimi anni in Europa sud-orientale hanno ulteriormente eroso l’immagine che ha l’Austria dell’Unione Europea. È andato a picco il rapporto con la Russia, da cui Vienna importa il 50% del gas naturale; si sono riacutizzate le tensioni etniche e geopolitiche nei Balcani, regione in cui il sistema finanziario ed economico austriaco ha investito massicciamente; Ankara è passata da alleata ad antagonista de facto, e ha già dimostrato di poter annichilire la Grecia e mettere in ginocchio la stessa Germania aprendo il rubinetto dei migranti; l’assertivo blocco di Visegrád, al di là delle simpatie o affinità politiche su certi temi, di fatto sostituisce al soft power post-moderno mitteleuropeo austriaco e tedesco un forte patriottismo nazionalista d’impronta cristiana, slava e magiara.

L’Austria è profondamente euroscettica, ma la natura del suo euroscetticismo è incomprensibile se non si analizza l’identità nazionale. Nel dopoguerra il nazionalismo in Austria si è sviluppato, in maniera poco visibile e sotterranea, lungo tre dimensioni: quella localista, delle heimat e delle piccole patrie; quella pangermanista, della opzione Großdeutschland; e quella statalista, basata su un’identità racchiusa nel binomio neutralità + Stato sociale. La destra attuale, ad esempio, specialmente nella versione “sovranista” ultimi anni sotto la guida di Strache, non ha mai richiesto l’uscita dall’Ue o dalla moneta unica e si è sempre caratterizzata per una linea nei fatti molto più morbida rispetto agli omologhi partiti europei. Il paradosso dell’euroscetticismo austriaco e delle sue ambiguità è tutto qui: il nazionalismo austriaco è in qualche modo la sintesi di queste tre componenti apparentemente inconciliabili; l’integrazione europea è oggi l’unica forma possibile di pangermanismo soft.
È chiaro che l’abolizione dei confini, la libera circolazione del capitale, la riduzione delle forme nazionali di controllo dell’economia sono tutti fattori che con il tempo lavorano per una forma di unificazione post-moderna dei due maggiori Stati tedescofoni d’Europa, riproponendo il grande tema della creazione di unico spazio pangermanico dal Mar Baltico ai Balcani. Un progetto che il declino dell’Ue, l’assertività russa e turca e l’emersione del blocco di Visegrád hanno però messo in crisi, sviluppando tre progetti geopolitici concorrenti. Se l’Unione Europea non è la via per un rapporto più politicamente integrato con la Germania, tanto vale ridurne gli effetti invasivi e le ambizioni di trasferimento di sovranità dai Länder (Stati federali) a Bruxelles.

Il semestre di presidenza austriaco (luglio-dicembre 2018) coincide con un momento estremamente delicato della crisi dell’Unione Europea. Quella di Vienna sarà l’ultima presidenza prima del Brexit, previsto per 29 marzo 2019, e delle elezioni europee del 23 maggio 2019, che si annunciano come uno scontro tra europeisti e sovranisti. Difficilmente l’Ue potrà sopravvivere a questo doppio passaggio rimanendo uguale a sé stessa, ma dovrà necessariamente avviare un processo di ripensamento dagli esiti quanto mai incerti, che potrebbe portare a una sostanziale revisione dei trattati. In questo contesto revisionista, anche la ridefinizione del nuovo budget settennale – che proprio durante la presidenza austriaca andrà incontro a dei passaggi chiave – diventa cruciale.
Ad accrescere il significato mediatico del semestre iniziato a luglio è il fatto che sia il primo in mano a un governo guidato da un’inedita coalizione tra conservatori e nazionalisti. Anche se non è molto chiaro come l’esecutivo austriaco possa influenzare il clima politico europeo attraverso il debole strumento semestrale della presidenza. Altri organi istituzionali, la Commissione in primis, determinano gli sviluppi dei principali dossier. All’Austria – in particolare al primo ministro Kurz, che ha voluto trasferire dal ministero degli Esteri al
cancellierato le competenze europee per non lasciarle in mano alla FPÖ – resta la visibilità e soprattutto il coordinamento dei lavori del Consiglio, in cogestione con il presidente Tusk.

Contrariamente a quello che molti potrebbero aspettarsi, sul dossier più importante – Brexit – l’Austria non seguirà una linea che possa definirsi sovranista. Vienna appare difatti intenzionata a mantenere l’unità dei 27 come principale valore in gioco, non dimostrandosi disposta a favorire un accordo a metà che schiuda a Londra modalità intermedie tra l’inclusione e l’esclusione dall’Ue. Il tema è cruciale non solo per la Gran Bretagna: le modalità con cui il Regno Unito rimarrà collegato o meno a Bruxelles potrebbero creare uno spazio per quegli Stati desiderosi di aprire una terza opzione tra adesione e fuoriuscita. L’opzione di una partecipazione di seconda classe non è dissimile dal concetto di Europa a due velocità che si sta facendo strada a Berlino – concetto che rischia di indebolire ulteriormente l’Unione e potrebbe avvicinarne la disintegrazione.
I membri del V4 (tre dei quali sono fuori dall’Eurozona) appaiono pronti a prendere questa strada, Vienna per il momento no. I legami economici e finanziari con la Germania, sulla cui importanza concordano gli europeisti federalisti e i nazionalisti filo-tedeschi, sono un patrimonio da non mettere a rischio e appaiono più forti della tentazione di una revisione radicale della struttura dell’Ue.

Con questi limiti, l’euroscetticismo di Vienna imporrà una frenata graduale del processo di integrazione europea verso un super-Stato sovranazionale, processo del resto già arenatosi per conto suo. Nel linguaggio costituzionale-burocratico della presidenza austriaca questo approccio passa sotto il nome di sussidiarietà e di efficientamento della spesa pubblica europea. Affermare questo principio nel momento in cui l’Ue traballa per colpa del Brexit e si apre una finestra per la revisione dei Trattati vuol dire riportare Bruxelles alle sue competenze minime fondamentali, avviando una rinazionalizzazione delle competenze stesse che potrebbe portare a un nuovo patto di sussidiarietà tra gli Stati membri, la Commissione e il Parlamento europeo.
In questi anni, in Austria il processo di integrazione europeo è stato piuttosto asimmetrico; ha eroso competenze e sovranità prevalentemente a livello dei Länder, mentre ha paradossalmente rinforzato il debole ruolo dello Stato centrale. Questo sia perché gli ambiti delle competenze cedute non erano in massima parte quelle del dominio di Vienna, sia perché il cancelliere – il cui ruolo è quello di un coordinatore più che di un artefice delle politiche – è stato enormemente rafforzato rispetto ai governatori e ai ministri, visto che è lui a sedere nella principale sede europea (il Consiglio) in cui la devoluta sovranità politica nazionale viene assemblata sotto nuove forme.

Un altro dossier importante su cui la presidenza austriaca si focalizzerà sarà certamente quello migratorio. Sul tema c’è una potenziale unità di intenti con la Baviera, Visegrád e in parte anche con il governo italiano. Alla base dell’approccio austriaco c’è la volontà di fermare l’immigrazione illegale verso l’Europa spostando l’azione congiunta dalla redistribuzione tra paesi membri alla protezione delle frontiere esterne dell’Ue. Il tema migratorio è esplicitamente legato alla sicurezza interna (anche contro radicalizzazione e terrorismo); viene offera, almeno retoricamente, solidarietà alla Grecia e all’Italia, che non devono affrontare la pressione immigratoria illegale sulle loro coste da soli.
Questa visione può portare a un rafforzamento del mandato di Frontex, anche se la chiave per il controllo delle frontiere resta quella degli accordi con i paesi terzi di transito. Il semestre austriaco potrebbe essere il momento per mettere mano alla questione giuridica del sistema migratorio e di asilo europeo, ma si tratta di un terreno complesso e insidioso, in particolare per chi – come Austria e Germania – ha fatto dell’accoglienza umanitaria un pilastro del proprio reinserimento nella comunità internazionale del dopoguerra.
Più facile che si acceleri sulla creazione delle cosiddette “piattaforme regionali di sbarco” fuori dall’Unione Europea, in cui far confluire i migranti illegali salvati nel Mediterraneo. Si tratta di un vecchio progetto di Vienna, il cui governo ha già cercato senza successo di trovare paesi disponibili lungo la rotta balcanica. Nella persistenza della crisi migratoria, alcuni Stati extra-Ue come l’Albania, la Tunisia o l’Egitto potrebbero essere nuovamente interpellati; il compito di trovare paesi disponibili e zone isolate in cui costruire i campi di accoglienza temporanea (si cercano in particolare isole disabitate nel Mediterraneo) appare però particolarmente arduo. L’idea, a ogni modo, avrà un discreto sostegno: oltre all’Austria, alla Germania, ai V4 e all’Italia, potrebbe aggregarsi qualche Stato nordeuropeo desideroso di bloccare a monte i meccanismi di redistribuzione dei profughi senza apparire chiuso ai problemi umanitari.

A proposito di Visegrád: l’Austria è spesso vista come un membro aggiunto di tale gruppo, ma la realtà è più complessa. Si tende a considerare il V4 come un consorzio anti-migratorio, mentre i fattori che hanno spinto questi paesi a collaborare precedono di molto lo scoppio della crisi migratoria, che ovviamente – anche in virtù della debole e inefficace risposta europea – ne rafforza la compattezza. Vienna ha sempre cercato di dispiegare il proprio soft power nell’area che fu asburgica, quindi con alcuni membri di questi Stati ha relazioni privilegiate e particolari dai tempi della guerra fredda. Ma l’elemento polacco, che è determinante nel progetto del V4, porta verso la costruzione di un’identità geopolitica autonoma che non sia né germanica né russa. Visegrád, pur nelle sue blande forme di cooperazione, si muove su vettori non diversi da quelli del Trimarium: vuole favorire l’emersione di un’altra Europa di mezzo che si inserisce lungo un asse nord-sud nello spazio compreso tra il termine del mondo germanico e germanofilo e l’inizio del mondo russofono e russofilo.

L’Austria si trova dunque a presiedere l’Unione Europea in momento in cui il progetto dell’Ue è entrato in crisi. Le modalità con cui essa ne uscirà possono essere fondamentali tanto per i nuovi equilibri geopolitici nell’Europa sud-orientale che per il futuro della questione dell’identità nazionale austriaca, sia nei confronti dei vicini orientali che nei confronti della Germania. I mesi di qui a dicembre non potranno determinare gli esiti di questi processi, ma saranno un utile indicatore delle nuove tendenze che stanno emergendo a Vienna.

Pubblicato su Limes On Line del 9/8/18



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