venerdì 27 maggio 2022

BUSH PADRE AVEVA RAGIONE: GIÙ LE MANI DALL’UCRAINA - UN ARTICOLO PUBBLICATO DA LIMES

 

Carta di Laura Canali - 2022

Fino al 1992, gli Stati Uniti avevano scelto di non umiliare la Russia e di non toccare lo spazio post-sovietico. Il brusco cambio di rotta di Clinton ha gettato le basi per l’attuale crisi tra Mosca e l’Occidente. Parte di quella classe dirigente governa ancora.

di James W. Carden
già consulente per la Russia del Dipartimento di Stato USA
Pubblicato su Limes "Il Caso Putin" n.4 2022

Sinora il conflitto in Ucraina ha tolto la vita ad almeno 46 mila persone e causato 11 milioni di sfollati, la più grande ondata di rifugiati che il continente europeo abbia conosciuto dalla fine della seconda guerra mondiale. Capire come si sia arrivati a una situazione così drammatica è tanto più indispensabile se si considera la variabile nucleare che essa chiama in gioco.


Sembra quanto mai necessario tornare a interrogare il periodo storico che ha plasmato le scelte della politica estera statunitense sulla Russia dalla fine della guerra fredda. Diversi analisti, tra cui l’esponente della scuola realista John J. Mearsheimer e l’ex ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Sovietica Jack F. Matlock (1987-91), concordano che l’attuale crisi, coi rischi di catastrofe nucleare connessi, sembra più pericolosa di quella dei missili di Cuba 1.


La seguente ricostruzione suggerisce che gli eventi non dovevano necessariamente seguire questo corso. Alcune specifiche scelte statunitensi negli anni Novanta (con l’acquiescenza degli alleati Nato in Europa) ci hanno portato al punto in cui siamo oggi.


La politica estera americana non è stata sempre guidata da quella hybris che è poi diventata il suo marchio distintivo. Secondo Matlock, la guerra fredda ebbe fine il 7 dicembre 1988, quando il segretario generale dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbačëv tenne uno storico discorso davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Da quel momento in poi, gli Stati Uniti ebbero la preziosa opportunità di adottare una postura magnanima, e dunque prudente, nei confronti dell’Unione Sovietica prima e della Federazione Russa poi.


Le analisi del celebre russista Stephen F. Cohen si rivelano particolarmente calzanti in questo frangente 2. Cohen rimarcava che il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione del trattato sulla creazione dell’Urss – che si consumò nelle foreste bielorusse per mano dei presidenti delle repubbliche sovietiche di Russia, Ucraina e Bielorussia nel dicembre 1991 – non mettevano in alcun modo fine né ai problemi che divoravano dall’interno lo spazio sovietico né alle numerose questioni aperte tra Russia e Occidente.


Anzitutto, la liquidazione del dominio politico-militare di Mosca sull’Europa orientale e sulle quindici repubbliche costituenti poneva una questione spinosa. La fine improvvisa dell’Unione Sovietica aveva relegato milioni di cittadini russi nei confini di quelli che erano diventati paesi stranieri e spesso ostili. Come Cohen osservò nel novembre 1992, si andava profilando «una combinazione esplosiva di 25 milioni di russi che vivevano nelle repubbliche ex sovietiche ormai fuori dalla Russia e un esercito russo ancora accampato in quei territori». «Per certi versi», scriveva lo studioso, «quell’esercito ha già partecipato ad almeno quattro guerre civili al di fuori della Russia – in Moldova, Georgia, Tagikistan e nell’enclave armena del Nagorno Karabakh in Azerbaigian» 3.


Anche l’Ucraina presentava un alto potenziale di conflitto. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, milioni di russi etnici in Crimea e nel Donbas si ritrovarono cittadini di un paese diverso. I primi attriti si manifestarono già nel 1992, quando il parlamento regionale della Crimea dichiarò l’indipendenza della penisola dalla neonata nazione ucraina.


La situazione in Ucraina irritò i nervi dei nazionalisti russi, che lamentavano l’inettitudine del presidente russo Boris El’cin nella gestione della disgregazione sovietica. Il premio Nobel Aleksandr Solženicyn era dell’idea che El’cin si fosse lasciato raggirare dalla promessa del presidente ucraino Leonid Kravčuk. Durante i negoziati nella foresta di Belaveža, quest’ultimo prospettava, dopo il tramonto del trattato sulla creazione dell’Urss, la nascita di un nuovo tipo di unione con «confini invisibili, un solo esercito e una sola moneta» destinata a prendere il posto dell’Unione Sovietica 4. 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Solženicyn accusò i vertici del nuovo Stato indipendente ucraino di aver ingannato El’cin. Secondo l’intellettuale, i nazionalisti in carica a Kiev, «che in passato si erano opposti così strenuamente al comunismo, maledicendo Lenin», adesso invece, con un voltafaccia, accoglievano entusiasti «i tendenziosi confini dell’Ucraina tracciati da Lenin». Compresa la Crimea, che Solženicyn definiva «la dote del meschino tiranno Khruščëv» 5. La contesa per i confini e il trattamento della minoranza russa entro la nuova frontiera ucraina rimangono nodi cruciali anche nell’attuale disputa tra le due nazioni.


‘Vacci piano’, l’approccio di George H.W. Bush

Alla luce della situazione precaria e instabile nei paesi ex sovietici, l’amministrazione del presidente George H.W. Bush delineò una politica basata su due pilastri: 1) il rifiuto di rinfacciare alla Russia lo stato di miseria in cui era sprofondata; 2) l’impegno a non esacerbare le tensioni etniche latenti nelle repubbliche ex sovietiche.


Come scrisse in seguito l’allora segretario di Stato James A. Baker: «Il presidente Bush non si stancò mai di ripetere che non dovevamo danzare sulle rovine del Muro di Berlino. Non voleva neanche sentirne parlare» 6. Nei fatti, la politica di Bush era: «Vacci piano». Gli Stati Uniti non avrebbero esercitato alcuna pressione, in un senso o nell’altro, per condizionare la forma che avrebbe preso l’assetto politico post-sovietico. Il presidente era guidato dalla volontà di evitare lo scoppio di una crisi, più che dal desiderio di plasmare un nuovo ordine.


Bush e i suoi uomini ebbero la lucidità di riconoscere che il mondo in cui i leader americani e sovietici si erano mossi dalla fine della seconda guerra mondiale era irrevocabilmente cambiato dopo il discorso di Gorbačëv alle Nazioni Unite. In quel 7 dicembre 1988, Gorbačëv aveva dismesso l’ideologia della lotta di classe marxista che per decenni aveva informato la politica estera sovietica. L’ultimo leader sovietico ora lasciava che gli Stati dell’Europa orientale decidessero liberamente del proprio destino: «L’inderogabile necessità del principio di libera scelta» era nella sua opinione «un principio universale che non ammette eccezioni».


«Per la prossima amministrazione statunitense, guidata dal presidente George Bush», continuava Gorbačëv, «saremo degli interlocutori pronti a proseguire il dialogo, senza lunghe esitazioni o tentennamenti, guidati da spirito di realismo, apertura e piena disponibilità. Nella volontà di raggiungere risultati concreti sulla base di un’agenda che spazi dalle questioni fondamentali delle relazioni tra Unione Sovietica e Stati Uniti fino alla politica globale» 7.


Inizialmente, il presidente americano nutriva un certo scetticismo verso Gorbačëv. Nelle sue memorie, Brent Scowcroft, consigliere per la Sicurezza nazionale di Bush, minimizzò la portata storica del discorso del leader sovietico, che a suo parere si era limitato a «inaugurare, con grande afflato retorico, un’inebriante atmosfera di ottimismo». Il timore di Scowcroft era che Gorbačëv volesse «approfittare di un prematuro incontro con il nuovo presidente per proclamare la fine della guerra fredda, senza però proporre misure concrete per la creazione di una “nuova” Unione Sovietica» 8.


La circospezione con cui Bush e i suoi uomini trattavano Gorbačëv venne  applicata parimenti agli Stati europei orientali di fresca o imminente indipendenza. Come fa notare l’esperto di storia diplomatica James Graham Wilson, Bush aveva perfettamente intuito che ogni atteggiamento trionfalistico si sarebbe ritorto contro gli americani. In risposta a un progetto che promuoveva il «dialogo democratico» tra i paesi dell’Europa orientale, Scowcroft scriveva: «Bene, purché i programmi in questione non puzzino di fomento rivoluzionario» 9.


Alla fine Bush dovette riconoscere che Gorbačëv faceva sul serio sul programma di riforme e prese a guardarlo con gli stessi occhi con cui lo guardarono Reagan, Shultz e Matlock: come un utile alleato nel progetto di ricomporre la più che quarantennale frattura che spaccava l’Europa in due.


Un episodio poco noto verificatosi a Camp David nel novembre 1989, un mese prima del primo incontro tra Bush e Gorbačëv, potrebbe servire a illuminare le circostanze che convinsero il presidente statunitense a imporsi sullo scetticismo dei suoi consiglieri.


Condoleezza Rice, all’epoca giovane assistente del Consiglio per la sicurezza nazionale, in quell’occasione invitò a Camp David due specialisti di Russia: Richard E. Pipes dell’Università di Harvard, promotore della linea neoconservatrice integralista, e Stephen F. Cohen, rappresentante di spicco della scuola «revisionista» della storia sovietica, nonché autore di una biografia del leader sovietico Nikolaj Bukharin, che Gorbačëv ammirava. Pipes e Cohen erano noti per le loro visioni antitetiche, di cui spesso davano mostra confrontandosi pubblicamente in dibattiti televisivi e radiofonici. A Camp David i due si ritrovarono a discutere su quale fosse il modo migliore di trattare con Gorbačëv nell’incontro che si sarebbe tenuto di lì a poco a Malta. Pipes, come Bush, era un repubblicano e vantava un’esperienza da consigliere per gli Affari sovietici nell’amministrazione Reagan. Cohen invece era una figura critica della politica statunitense proveniente dalla sinistra moderata, incline alla diplomazia e al dialogo. Molti anni dopo, Cohen mi raccontò che quel giorno, alla fine del dibattito, Bush gli chiese di sedersi al suo fianco per il pranzo e disse ai presenti: «Steve è proprio il mio genere di russista» 10, rigettando così la linea dura promossa da Pipes.


Il presidente, evidentemente, prese a cuore il consiglio di Cohen. Come osserva Graham Wilson, a Malta «Bush cercò di non lasciare intendere di voler dare ordini a un nemico sconfitto» 11. Secondo lo storico Joshua Shifrinson, la trascrizione dell’incontro lascia trasparire che «piuttosto che strombazzare il crollo del sistema sovietico per incassare punti politici, Bush fosse invece propenso a minimizzare i cambiamenti nell’ideologia sovietica se ciò poteva servire a preservare le relazioni tra americani e sovietici» 12.


Caduta l’Urss, Bush e i suoi uomini riconobbero subito il potenziale esplosivo della situazione. Il 1° agosto 1991, in un discorso al parlamento ucraino, il presidente statunitense condensò in poche frasi il senso della sua politica di non interferenza nei confronti dell’Unione Sovietica: «Non vi diremo come dovete riformare la vostra società. Non prenderemo le parti dei vincitori né dei vinti nelle contese politiche tra le repubbliche o tra le repubbliche e il centro. Quello è affar vostro, non è affare degli Stati Uniti». Bush specificò inoltre che non avrebbe «supportato i tentativi di indipendenza volti alla sostituzione di un potere tirannico distante con un dispotismo locale. Non appoggeremo i fautori di un nazionalismo suicida mosso dall’odio etnico». 


La posizione di Bush incontrò aspre critiche all’interno del suo stesso partito, in particolare provenienti dal fronte degli ideologi della guerra fredda. Rimase celebre l’espressione dell’editorialista neoconservatore del New York Times William Safire, che canzonò il discorso di Bush soprannominandolo «pollo alla Kiev» 13.


Nonostante gli sforzi dell’amministrazione americana, tuttavia, alla fine in Ucraina gli impulsi nazionalisti prevalsero. Le legittime istanze dei cittadini russofoni che popolavano le regioni orientali e meridionali vennero ignorate. Ma il fatto più grave fu che le élite politiche ucraine iniziarono a dar segno di voler entrare a far parte del Patto Atlantico. Riflettendo su questi eventi, Matlock si disse «convinto che se Bush fosse stato rieletto, non avrebbe permesso che la Nato si espandesse» 14. Ma nei fatti non lo sapremo mai, perché nel novembre 1992 Bush perse le presidenziali contro il governatore dell’Arkansas Bill Clinton.


Vale la pena di soffermarsi su un ultimo caso in cui venne applicata la politica estera di Bush e Baker. La loro sapiente cautela nel maneggiare il calderone del nazionalismo campanilistico nell’ex Unione Sovietica si manifestò anche nelle scelte che adottarono in una situazione analoga, nei Balcani. La Jugoslavia, come l’Urss, era uno Stato multietnico e multiconfessionale che dopo settant’anni di comunismo stava precipitando nel caos, a causa delle montanti tensioni nazionalistiche in Croazia, Bosnia, Slovenia e Serbia. A giudizio di Baker, la guerra nei Balcani non meritava l’intervento americano: «Non abbiamo neanche un cane in questo conflitto», disse una volta. Il segretario di Stato senza dubbio comprendeva anche gli stretti legami storici, culturali e religiosi che univano la Serbia e la Russia. Pertanto, riteneva a ragione che qualsiasi tentativo americano di determinare gli esiti post-jugoslavi avrebbe inevitabilmente costretto a scegliere per chi parteggiare. Ciò avrebbe significato violare la regola cardinale di Bush, che impegnava gli Usa a non rinfacciare alla Russia la sua condizione di miseria.


Ma la linea avviata da Bush fu interamente rigettata dall’entrante amministrazione Clinton. Con risultati disastrosi.


Carta di Laura Canali - 2015

Carta di Laura Canali – 2015


La brutta piega di Clinton

Negli anni successivi alle elezioni del 1992, la rispettosa non interferenza negli affari post-sovietici cedette il passo a una politica di microgestione da parte di Washington. I problemi non tardarono ad arrivare. Nella scelta dei consiglieri di politica estera, Bill Clinton volle verificare la tenuta del vecchio detto secondo cui «scegliere il personale è fare politica». Il ruolo di consigliere sulla Russia venne affidato a un suo amico di lunga data, Strobe Talbott. Nel giro di pochissimo tempo, Talbott e una squadra di funzionari del dipartimento di Stato, della Cia, del Tesoro e del Consiglio per la sicurezza nazionale si imbarcarono in una serie di viaggi per tutta l’ex Unione Sovietica. 


In queste visite lampo, Talbott e il suo gruppo (inclusa la giovane Victoria Nuland, membro di una delle più influenti famiglie di neoconservatori e oggi sottosegretario di Stato nell’amministrazione Biden) si recarono in tutte le repubbliche ex sovietiche. Avevano il compito di «mostrare ai leader dei nuovi Stati indipendenti che Washington era al loro fianco e che li avrebbe sostenuti tanto nel processo di consolidamento della sovranità, quanto nella risoluzione delle controversie con Mosca» 15, come racconta lo stesso Talbott. La loro prima visita a Kiev fu nel maggio 1993.


A motivare un cambio di registro così repentino nell’orientamento della politica estera statunitense furono ragioni di politica interna. La spiegazione è triste, eppure poco sorprendente: si trattò di voti. La politica di espansione della Nato portata avanti da Clinton era stata costruita su misura per esercitare presa sugli elettori polacchi e ucraini presenti nella Rust Belt.


La prospettiva fornita da Matlock è a tal proposito nuovamente illuminante: «Il vero movente di Clinton fu la politica interna. Ho testimoniato al Congresso contro l’espansione della Nato, sostenendo che sarebbe stato un grande errore. E che, nel caso in cui fosse proseguita, l’espansione andava necessariamente arrestata prima che arrivasse a coinvolgere paesi come l’Ucraina e la Georgia, linee rosse non oltrepassabili per qualsiasi governo russo. Inoltre, l’espansione della Nato avrebbe minato ogni possibilità di sviluppo di un regime democratico in Russia». Eppure, prosegue Matlock, «una volta fuori dall’aula del Congresso alcune persone che avevano assistito alla testimonianza mi chiesero: “Jack, perché stai portando avanti questa battaglia?”. “Perché credo che sia una cattiva idea”, risposi. “Sai, Clinton vuole essere rieletto”, ribatterono loro, “e ha bisogno della Pennsylvania, del Michigan, dell’Illinois: tutti Stati con una componente est-europea molto marcata”. Molti di questi elettori, infatti, quando si trattava di rapporti tra Est e Ovest si erano convertiti al credo democratico reaganiano. E ora premevano affinché nella Nato venissero incluse la Polonia e, a tempo debito, anche l’Ucraina» 16.


È dunque chiaro che l’espansione della Nato rispondeva alle esigenze dell’agenda politica di Clinton, mentre gli interessi di sicurezza americani non rientravano nell’equazione. Il rigetto della cautela politica di Bush fu l’errore fatale dell’amministrazione Clinton. Un errore che ha contribuito a portarci sull’orlo di una nuova, impensabile guerra mondiale.


Se il principale abbaglio di Clinton fu quello di promuovere l’espansione della Nato, l’approccio nei confronti dell’ex Jugoslavia si aggiudica il secondo posto. Nei Balcani, la presidenza dimenticò del tutto il monito di Bush sul «nazionalismo suicida». Non parrebbe avventato dire che la politica attuata da Clinton in Serbia abbia preparato il terreno per quello a cui stiamo assistendo oggi in Ucraina.


L’odierna fede di Washington nell’efficacia e nella giustezza degli interventi militari a scopo umanitario risale all’operazione della Nato in Bosnia nel 1995. Il successo degli accordi di Dayton sembrò cementare, fra i membri dell’amministrazione Clinton che si occupavano di politica estera, l’idea che dopotutto l’America fosse la nazione indispensabile. Come ha osservato lo storico David P. Calleo, se è vero che l’amministrazione Clinton «aveva sempre sfoggiato una retorica wilsoniana di bassa lega con sottese ambizioni egemoniche», da Dayton in poi «la politica cominciò a imitare la retorica» 17. 


Il secondo intervento nei Balcani del 1999 canonizzò il modello che provarono a riproporre George W. Bush in Iraq e Barack Obama in Libia e Siria. Senza l’approvazione dell’Onu, Clinton lanciò un bombardamento di 78 giorni sulla Serbia, ufficialmente volto a prevenire quello che appariva come un imminente massacro dei kosovari albanesi da parte delle forze serbe.


Il Kosovo, i successivi interventi americani in Iraq, Siria, Libia e le «rivoluzioni colorate» sostenute dagli Stati Uniti nell’Europa orientale negli anni Duemila hanno alimentato la paranoia di Vladimir Putin sulle intenzioni americane, nonché i suoi timori di un potenziale cambio di regime a Mosca orchestrato da Washington. Come scrisse una volta il romanziere Joseph Heller: «Solo perché sei paranoico, non significa che non ti stiano cercando».


La reazione della Russia alla politica di Clinton, in particolare alla guerra illegittima scatenata contro Belgrado, ha contribuito ad acuire la crisi. È utile ricordare che il precedente del riconoscimento unilaterale da parte della Russia delle repubbliche secessioniste di Donec’k e Luhans’k lo hanno fissato gli Stati Uniti nel febbraio 2008 riconoscendo l’indipendenza del Kosovo.


Conclusioni

Lo spettro del «nazionalismo suicida» ha a lungo infestato la politica ucraina, fino a diventare negli ultimi anni la sua forza trainante. Con la complicità del supporto retorico, finanziario e militare fornito dai presidenti Clinton, Bush figlio, Obama e Trump.


Il nazionalismo ucraino è tornato a mostrare i denti durante la cosiddetta rivoluzione arancione del 2004 e poi nuovamente in occasione del violento colpo di Stato del 22 febbraio 2014. Quest’ultimo evento ha innescato una guerra di otto anni (6 aprile 2014-24 febbraio 2022) contro le regioni russofone di Donec’k e Luhans’k, che ha causato la morte di 13 mila persone e 1,3 milioni di sfollati. Le vittime principali di quella guerra, i civili di lingua russa, hanno suscitato ben poca simpatia in Occidente.


Nell’Ucraina post-Jevromajdan sono state istituite leggi linguistiche discriminatorie ed è stata inaugurata un’«operazione antiterrorismo» mirata al Donbas sotto la direzione del primo ministro Arsenij Jacenjuk, messo al potere da Washington.


Queste mosse di Kiev hanno sfidato direttamente la politica di Putin volta a proteggere le minoranze russe all’estero. Il successivo rifiuto dei presidenti ucraini Petro Porošenko e Volodymyr Zelens’kyj di implementare i protocolli di Minsk del 2015 è stato l’ennesimo segnale che il «nazionalismo suicida» era ormai dilagante a Kiev. 


Sembra quindi chiaro, alla luce della storia, che la politica prudenziale e cauta di Bush verso la Russia fosse quella giusta. Sfortunatamente, Clinton e i suoi consiglieri hanno rigettato tale approccio. Non può che destare preoccupazione il fatto che, dopo tutti questi anni, molti di loro continuino a detenere il controllo del processo decisionale a Washington. I risultati parlano da soli.

 (traduzione di Agnese Rossi)


Note:

1. Per un confronto tra J.J. Mearsheimer e J.F. Matlock sul tema, si veda «John Mearsheimer on War in Ukraine with Katrina vanden Heuvel, Ambassador Jack Matlock, more…», youtube.com, 7/4/2022. 

2. S.F. Cohen, «A Cold Peace With Russia», The Nation, 23/11/1991.

3. Ibidem.

4. Cfr. A. Solženicyn, The Russian Question at the End of the Twentieth Century: Toward the End of the Twentieth Century, New York 1994, Farrar Straus and Giroux.

5. Ibidem.

6. Cit. in K.T. Walsh, «Bringing Down Walls, 25 Years Later», U.S. News, 7/11/2014.

7. «Address by Mikhail Gorbachev at the UN General Assembly Session», digitalarchive.wilsoncenter.org, 7/12/1988.

8. G.H.W. Bush, B. Scowcroft, A World Transformed, New York 1998, Alfred A. Knopf, p. 46.

9. Cit. in J. Graham Wilson, The Triumph of Improvisation: Gorbachev’s Adaptability, Reagan’s Engagement, and the End of the Cold War, Ithaca 2015, Cornell University Press, p. 157.

10. Cohen riportò commenti simili sull’incontro anche a sua moglie, Katrina vanden Heuvel, che conferma l’accuratezza della mia ricostruzione.

11. J. Graham Wilson, op. cit., p. 171.

12. J.R. Itzkowitz Shifrinson, «The Malta Summit and US-Soviet Relations: Testing the Waters Amidst Stormy Seas», Wilson Center, settembre 2013.

13. J.W. Carden, «The vindication of George H W Bush», Asia Times, 14/3/2022.

14. «The Ambassadorial Series: Deans of U.S.-Russia Diplomacy», Middlebury Institute of International Studies, 24/1/2022. 

15. Cfr. S. Talbott, The Russia Hand: A Memoir of Presidential Diplomacy, New York 2003, Random House.

16. Cfr. J.F. Matlock, op. cit.

17. D.P. Calleo, Rethinking Europe’s Future, Princeton 2003, Princeton University Press, p. 309.


Nessun commento:

Posta un commento