venerdì 28 dicembre 2018

LE NUOVE VIE DELLA SETA NEL 2018: MOLTISSIMI OSTACOLI, NESSUNO INSORMONTABILE - Dal 2013 a oggi, solo il 14% dei progetti avviati nell’ambito della Bri ha riscontrato dei problemi - Si parla anche di Trieste in questo articolo di Limes On Line -




Nel 2018 la Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta) ha continuato a espandersi, malgrado l’intrecciarsi di molteplici ostacoli.

Nonostante le vulnerabilità dei partner, la “trappola del debito” e le preoccupazioni dei principali rivali di Pechino, nell’anno che sta per chiudersi il progetto geopolitico della Cina ha fatto passi avanti. Le contromosse di Usa, Europa e Indo-Pacifico. I dubbi dell’Italia.



Tra questi rientrano la guerra commerciale e le frizioni tecnologiche e militari con gli Usa, l’opposizione degli altri rivali di Pechino (Giappone, Australia e India), i timori dell’Europa per la penetrazione economica del Dragone, la crescente preoccupazione internazionale per le implicazioni militari della Bri, l’instabilità geopolitica e finanziaria di alcuni paesi coinvolti nell’iniziativa. La cosiddetta “trappola del debito” preoccupa diversi paesi (vedi Gibuti, Maldive, Sri Lanka, Pakistan) e ha spinto alcuni di loro a rinegoziare o addirittura cancellare i progetti concordati con la Cina.

Questi fattori per ora non compromettono il progetto infrastrutturale lanciato nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping al quale oggi partecipano oltre 65 paesi. Tuttavia, per la prima volta quest’anno Xi ha criticato indirettamente la sua stessa creatura, sottolineando che bisogna “tenere conto degli interessi delle altre parti e attuare progetti che beneficino le popolazioni locali”. Non è escluso che Pechino ricalibri l’iniziativa per impedire che nel lungo periodo subisca una battuta d’arresto. Ripercuotendosi sui progetti geopolitici del terzo leader cinese più potente dopo Mao Zedong e Deng Xiaoping.

Il treno corre, malgrado tutto

Nel 2018, la Repubblica Popolare ha investito 12 miliardi di dollari nella Bri, il 6,4% in più rispetto all’anno precedente. Inoltre, ha firmato progetti per un valore contrattuale di 80 miliardi di dollari (+48% rispetto al 2017). L’interscambio commerciale con i partner dell’iniziativa ha superato gli 860 miliardi di dollari. Le aziende cinesi hanno investito 11 miliardi di dollari in progetti sotto il cappello della Bri e avviato 82 zone di cooperazione economica e commerciale all’estero. Tra le più attive vi sono i colossi logistici Cosco e China Merchants Group. Il primo, che controlla il porto del Pireo, ha da poco preso la gestione di un terminal container ad Abu Dhabi. Il secondo, che quest’anno ha aperto un centro di ricerca a Ravenna, potrebbe a breve investire nel porto di Trieste, anche se vi sono altre aziende cinesi interessate allo scalo marittimo nostrano, inclusa China Merchants.

I paesi che aderiscono alle nuove vie della seta sono aumentati in Eurasia (vedi Grecia e Portogallo) e negli altri continenti. In Asia-Pacifico, Filippine, Papua Nuova Guinea, Samoa, Figi, Niue e Isole Cook hanno firmato il memorandum di partecipazione alla Bri. Ciò ha elevato la soglia di attenzione dell’Australia, che teme la crescente presenza cinese sul suo territorio e nel proprio “giardino di casa”. Ciò spiega perché Canberra abbia recentemente annunciato in accordo con gli Usa il potenziamento della base militare di Manus, in Papua Nuova Guinea.

In America Latina, anche Uruguay, Cile, Trinidad e Tobago, Ecuador e Panamá hanno aderito alla Bri. Quest’ultima ha aperto i rapporti diplomatici con la Cina solo nel giugno 2017, rompendo quelli ufficiali con Taiwan. Lo stesso ha fatto El Salvador ad agosto. Tale dinamica riduce lo spazio diplomatico di Taipei, la cui sovranità è riconosciuta solo da 17 Stati nel mondo – inclusa la Santa Sede, con cui a settembre la Cina ha trovato un accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi nella Repubblica Popolare, mossa dall’intenzione di rafforzare il suo soft power. Pechino vuole riprendersi Taiwan entro il 2049, se possibile (anche se improbabile) con mezzi pacifici.

Dal 2013 a oggi, solo il 14% dei progetti avviati nell’ambito della Bri ha riscontrato dei problemi, secondo la società di consulenza RWR Advisory Group, basata a Washington. La cifra non è poi così grande se si pensa alle dimensioni economiche della Bri e alla varietà dei progetti avviati con questo marchio, diventato sinonimo della politica estera cinese.

Trappola del debito

La Malaysia è stato il primo paese a cancellare un progetto per evitare di accumulare debito nei confronti della Cina. I due paesi dovevano costruire una ferrovia per collegare la Thailandia, il porto malese di Kuantan e quello di Klang (vicino Kuala Lumpur), così da tagliare il paese da costa a costa.

Tale iniziativa serviva a Pechino per ridurre la dipendenza dallo stretto di Malacca che separa l’Oceano Indiano dal Mar Cinese Meridionale. La Cina teme che un giorno gli Usa – i quali dominano i colli di bottiglia marittimi mondiali – possano bloccarlo per impedire il passaggio dei suoi traffici commerciali. Di qui la necessità di individuare rotte alternative. In tale contesto rientrano anche i corridoi che uniscono la Cina rispettivamente al Pakistan e al Myanmar, entrambi soggetti a vulnerabilità securitarie e finanziarie. L’attentato di novembre al consolato cinese di Karachi conferma l’opposizione dei ribelli baluci alla costruzione delle infrastrutture del Dragone in territorio pakistano. Islamabad inoltre deve gestire l’alto livello di debito pubblico, il deficit commerciale e il crollo delle riserve di valuta estera. Per questo prima ha chiesto il sostegno del Fondo monetario internazionale e dell’Arabia Saudita, poi ha ridotto di due miliardi di dollari il budget per lo sviluppo della tratta ferroviaria Karachi-Peshawar, all’inizio fissati a 8,2 miliardi. Anche Myanmar, afflitto dagli scontri tra esercito e gruppi etnici armati e dal rischio della “trappola del debito”, ha ridotto i finanziamenti per l’ampliamento del porto di Naypidaw da 7,3 a 1,3 miliardi di dollari.

La sicurezza della Bri

In futuro, Pechino incrementerà la presenza militare all’estero per tutelare maggiormente le proprie risorse impiegate in teatri instabili, quali Medio Oriente e Africa. Lo conferma il memorandum sull’antiterrorismo firmato a dicembre da Cina, Pakistan e Afghanistan. La costruzione di nuove basi oltre a quella di Gibuti (eretta nel 2017) è in tal senso indispensabile. Per realizzarle, la Cina dovrà superare i timori dei paesi stranieri. Vanuatu, Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka e Maldive hanno infatti smentito la loro possibile collaborazione. Nel 2017 la Cina ha condotto attività di mediazione diplomatica di varia intensità in nove conflitti (sei in più rispetto al 2012), tra cui quelli tra Israele e Palestina, tra Afghanistan, Pakistan e talebani, e in Myanmar tra governo e gruppi etnici armati. Infine la Repubblica Popolare ha incoraggiato i contractors cinesi a collaborare con i suoi colossi economici che operano all’estero.

Nel 2018, Pechino ha rafforzato la repressione nel Xinjiang, espandendo i campi di rieducazione per i presunti estremisti uiguri (musulmani e turcofoni) e di altre etnie. L’obiettivo è “sinizzare” la regione, cioè indurla ad abbracciare usi e costumi degli han per garantirsi la sua fedeltà alla Repubblica Popolare. Il Ningxia (popolato dai musulmani Hui) ha firmato degli accordi antiterrorismo con la regione e Hong Kong vi ha inviato la sua task force per studiarne le tecniche di sorveglianza. È probabile che in futuro i metodi applicati nella “Nuova Frontiera” siano utilizzati anche nel resto della Repubblica Popolare.

Le mosse dei rivali

La tregua commerciale non porrà fine alle frizioni tecnologiche e militari sino-statunitensi. Per conto degli Usa, a dicembre il Canada ha fermato Meng Wanzhou, manager di Huawei e figlia del fondatore. Soprattutto, Washington, Ottawa e i governi degli altri Five eyes (Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda) hanno respinto la possibilità che Huawei costruisca le loro reti 5G. Probabilmente temono che Pechino possa servirsene per spiarli. La rilevanza della partita tecnologica era emersa già a maggio 2018, quando Washington ha messo in ginocchio l’azienda cinese Zte (accusata di aver trasferito beni e tecnologia a Iran e Corea del Nord), vietando alle compagnie a stelle e strisce di venderle componenti tecnologici fino al 2025. Il colosso cinese ha ripreso le attività a luglio, dopo aver pagato una multa di 1,4 miliardi di dollari.

Gli Usa hanno anche proposto ai paesi dell’Asia-Pacifico un piano d’investimento infrastrutturale anti-Bri, che prevede solo 113 milioni di dollari di investimenti e 60 miliardi da prestare ad aziende private per progetti all’estero. Cifre che non possono competere con quelle profuse in questi anni dalla Repubblica Popolare. Washington vuole coinvolgere in tali piani anche Giappone, Australia (dotati di rispettivi piani infrastrutturali regionali) e India per contenere l’ascesa economica e militare del Dragone. Malgrado la loro repulsione strategica per il progetto cinese, i tre paesi non negano la loro partecipazione tout court, come dimostrato dall’adesione dello Stato australiano di Victoria e dai progetti di collaborazione sino-nipponici.

Difficilmente la strategia di contenimento anti-cinese potrà avere successo fino a quando la Repubblica Popolare avrà il sostegno della Russia. La collaborazione infrastrutturale, energetica e militare – vedi le esercitazioni di Vostok 2018 – tra Pechino e Mosca è stata agevolata dalle frizioni rispettivamente registrate dalle due potenze eurasiatiche e gli Stati Uniti. Non è chiaro fino a quando durerà la collaborazione sino-russa, ma la crescente presenza cinese in Asia Centrale e nell’Artico potrebbe danneggiare le strategie di Mosca nel lungo periodo. Limes affronterà questo argomento nel 2019.

I paesi dell’Unione Europea vogliono continuare a fare affari con la Cina senza favorirne gli investimenti predatori. Soprattutto in Europa centrorientale, attraverso cui dovrebbero transitare le merci approdate al Porto del Pireo. Per questo Bruxelles ha gettato le basi di un progetto infrastrutturale antitetico alla Bri per collegare la Cina al Vecchio Continente. Questo promette maggiore trasparenza e standard qualitativi più elevati, cioè gli ambiti in cui le nuove vie della seta sarebbero carenti secondo l’Ue. Durante la prima esposizione internazionale per le importazioni della Cina (Ciie) svoltasi a Shanghai a novembre, è emerso il disappunto europeo per le mancate riforme economiche cinesi. Paesi come Germania e Francia sperano che Xi ponga in atto le misure più volte annunciate per aprire ulteriormente il mercato della Repubblica Popolare al mondo.

Malgrado le perplessità di Bruxelles, nel 2018 l’Italia ha stretto ulteriormente i rapporti con la Cina, ma durante il Ciie non ha firmato il memorandum di adesione alle nuove vie della seta come ci si aspettava. Roma potrebbe aver rimandato l’adesione per non irritare l’Ue e gli Usa. La firma del memorandum implicherebbe infatti l’appoggio simbolico all’iniziativa cinese, che nessun paese del G7 ha dato sinora. Non è escluso che Roma sottoscriva il documento durante il secondo forum Bri, che si terrà a Pechino il prossimo aprile.

La Cina potrebbe servirsi dell’evento per aggiustare il tiro dell’iniziativa in base ai risultati e ai problemi riscontrati nel 2018. In caso contrario, la mera celebrazione della globalizzazione con caratteristiche cinesi potrebbe suscitare l’insoddisfazione dei paesi partner e avvantaggiare i suoi rivali.

Potete approfondire questi argomenti nel numero di Limes intitolato “Non tutte le Cine sono di Xi“.


domenica 23 dicembre 2018

UN INTERVENTO SULLA TRATTATIVA IN CORSO TRA CINA ED EUROPA DELL' AMBASCIATORE LI RUIYU - Corriere della Sera 22 dicembre


Proponiamo l' articolo pubblicato ieri dal Corriere della Sera


Cina e Europa insieme
Nuova fase di cooperazione

Pechino guarda all’Italia come a un amico affidabile in seno all’Ue ed è convinta che lo sviluppo ulteriore del partenariato strategico globale sino-italiano è nell’interesse dei due Paesi e dei loro popoli

Caro direttore, la Cina guarda con favore a un’Europa unita, stabile, aperta e prospera e sostiene il processo di integrazione europea, nonché la promozione reciproca dei rapporti con le istituzioni europee e i Paesi europei.
Il governo della Repubblica popolare lo conferma nel terzo documento sulle politiche rivolte all’Europa pubblicato il 18 dicembre del 2018, anno che ha segnato il 15° anniversario del partenariato strategico globale sino-europeo e il ventennale della creazione del meccanismo di incontri tra leader di Cina e Unione Europea. La Cina è la seconda economia e il più grande Paese in via di sviluppo nel mondo. L’Ue è un organizzazione internazionale con il maggior livello di integrazione. Con un quarto della popolazione mondiale e un terzo della produzione economica globale, la Repubblica popolare cinese e l’Ue rappresentano due forze tra quelle più importanti sullo scenario internazionale. Di fronte a un periodo di cambiamento profondo e radicale, le due parti devono avere un’ottica altamente strategica e lungimirante per i rapporti tra di esse e a portare avanti uno spirito di unione di fronte alle avversità.
Cina e Europa hanno interesse a rafforzare il concetto di cooperazione win-win.Quest’anno si celebra il 40° anniversario dell’avvio della politica di Riforme e Apertura della Cina. Negli ultimi quattro decenni, la cooperazione sino-europea ha raggiunto risultati importanti, l’interscambio bilaterale è aumentato più di 250 volte. Il 2018 è l’anno del turismo sino-europeo e ha visto flussi di oltre 7 milioni di persone. Attualmente, vi sono più di 70 meccanismi di dialogo bilaterale che coprono quasi ogni settore di cooperazione. Spero che le due parti accelerino i negoziati per raggiungere accordi sugli investimenti e quelli sulle denominazioni di origine e che incentivino il combinarsi tra l’iniziativa «Belt and Road» e la «Strategia per l’interconnessione tra Asia ed Europa» della Ue.

Cina e Europa devono rendere più serrato il coordinamento riguardo alla governance globale
. L’economia e il commercio mondiale si trovano in un momento di debolezza e difficoltà. In tale contesto, Cina e Europa devono migliorare la comprensione reciproca al fine di tutelare il multilateralismo e il libero scambio. E’ necessario abbandonare del tutto la logica desueta dell’unilateralismo e del gioco a somma zero al fine di migliorare l’equità, inclusione e la sostenibilità del sistema di governance dell’economia globale. Auspico che l’Europa si attenga ai principi e ai regolamenti internazionali dell’Organizzazione mondiale del commercio circa apertura del mercato e ingresso degli investimenti, così da generare un ambiente sempre più accogliente per la cooperazione economica e tecnologica sino-europea. La Cina è pronta a continuare a rafforzare il dialogo con l’Europa in seno agli organismi internazionali come l’Onu e il G20 per contribuire alla pace, alla prosperità e alla stabilità del mondo intero.
Cina ed Europa devono rafforzare il dialogo tra le civiltà differenti
. Tra Cina e Europa non esistono conflitti di interesse di base, ma vi sono delle differenze a livello di storia, cultura e sistemi sociali ed è innegabile che vi siano idee e vedute differenti su diverse questioni. Le divisioni e i contrasti che sono emersi su alcuni aspetti della cooperazione sono da considerarsi normali fastidi che si incontrano in un percorso di crescita e riflesso della intensità della cooperazione. Il percorso di sviluppo dei rapporti sino-europei ci insegna che se le due parti si attengono al rispetto reciproco, portano avanti il dialogo, cercano i punti di vicinanza e accettano le differenze, allora i rapporti bilaterali possono avere uno sviluppo sano ed equo. Auspico che Cina e Europea possano rafforzare costantemente la fiducia reciproca al fine di tutelare i mutui interessi legittimi e affidarsi a un approccio costruttivo nella gestione delle differenze e degli attriti.
L’Italia è uno degli Stati fondatori dell’Unione Europea e la sigla del «Trattato di Roma» 61 anni fa viene considerata come una pietra miliare del processo di integrazione europea.
 La Cina guarda al vostro Paese come a un amico affidabile in seno all’Ue ed è convinta che lo sviluppo ulteriore del partenariato strategico globale sino-italiano è nell’interesse dei due Paesi e dei loro popoli. La Cina intende cogliere insieme all’Italia tutte le opportunità e promuovere i rapporti bilaterali affinché possano divenire un modello d’avanguardia tra quelli del nostro Paese con gli altri Stati europei e possano dare un contributo sempre maggiore allo sviluppo della cooperazione e dell’amicizia sino-europea.
Li Ruiyu
Ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese in Italia

sabato 22 dicembre 2018

GLI INVESTIMENTI CINESI CI SONO GIA' E CHI FA ALLARMISMO VIVE NEL PASSATO - video



Chi crea preoccupazioni e allarmi per futuri investimenti cinesi nel porto di Trieste non si rende conto che i cinesi da tempo sono già molto presenti nella logistica europea a terra (oltrechè in numerosi altri settori vedi ad esempio Pirelli e Volvo): la NUOVA VIA DELLA SETA è già arrivata ed è un processo inarrestabile IL CUI VERO PERICOLO E' RESTARNE AI MARGINI O ESCLUSI.

Proponiamo una serie di slides del prof. Sergio Bologna, noto esperto di logistica e portualità e presidente dell' Agenzia Imprenditoriale Operatori Marittimi di Trieste - AIOM che ringraziamo.
Documentano in modo semplice l' importanza attuale della presenza cinese nella logistica europea a terra, mentre si sta sviluppando nei porti sia del Mediterraneo che del Nord Europa.


Nota: Per leggere nel dettaglio le slides è opportuno fare doppio click sull' immagine per portarla a schermo intero e 
mettere in pausa il video quando si desidera, agendo sulla barra che appare alla base dell' immagine quando si posiziona il cursore.

venerdì 14 dicembre 2018

LE CONSEGUENZE STRATEGICHE DELLO SCONTRO TRA LA PIAZZA E MACRON


La Francia ama il proprio monarca almeno quanto adora scagliarvisi contro. La piazza francese è da secoli fattore inaggirabile per valutare la consistenza di chi esercita il potere a Parigi e il suo margine di manovra all’estero. Gli effetti delle proteste di queste settimane possono dunque essere valutate con lenti geopolitiche.

I motivi che hanno innescato le manifestazioni sono i più disparati. Uno di questi riguarda i rapporti di forza in Europa. Per provare a rinvigorire l’asse franco-tedesco, dunque l’uso della Germania come moltiplicatore della potenza, il presidente Emmanuel Macron aveva proposto ad Angela Merkel una serie di riforme per l’Ue. Per convincere Berlino di essere un interlocutore affidabile, si era adeguato al verbo dell’austerità, promettendo di rimettere in ordine i conti di Stato – la Francia sforava fino a poco tempo fa i parametri di Maastricht.

Le ricette economiche importate dalla Germania hanno però alimentato l’insoddisfazione popolare. Non è un caso che un Macron in visibile difficoltà abbia promesso di aumentare il salario minimo di cento euro, di non tassare gli straordinari, di ridurre le tasse sulle pensioni. Il governo prevede stanziamenti da 8-10 miliardi di euro.

Tutto ciò però ricadrà sul bilancio pubblico, riportando Parigi nella lista dei cattivi alunni, in buona e salda compagnia dell’Italia, potenzialmente aprendo un fronte di crisi con Bruxelles e, ciò che più conta, con Berlino. In quest’ultima capitale è in corso la successione fra Merkel e Annegret Kramp-Karrenbauer: alla prima restano le redini della politica estera mentre la seconda costruisce le proprie credenziali in patria per assicurare alla CDU il primato nazionale. Sarà pertanto difficile per Macron ottenere rassicurazioni che non vadano oltre il cosmetico.

Le convulsioni macroniane interessano molto da vicino l’Italia. Lo dimostra il tweet del ministro dell’Interno Matteo Salvini, che spera di sfruttare lo stallo attuale (e il raffreddamento futuro) tra Francia e Germania per avvicinare Roma a Berlino. Non sarà facile: dalla Repubblica Federale il nostro paese tende a essere visto come un’arma di distruzione di massa (per l’euro e sui migranti) più che come un’opportunità.

Ma il governo italiano non si butterà nelle braccia dei tedeschi. Vorrà restare al fianco degli Usa nel tentativo di smorzare la Germania in Europa. E potrà usare i possibili sforamenti del debito pubblico della Francia per perorare la propria causa sulla crescita della capacità di spesa, che resta un obiettivo anche se la Commissione Europea è disposta ad accettare un aumento del deficit per il 2019 dall’1,8% all’1,95% (comunque abbassando l’iniziale richiesta del 2,34%). In ogni caso, Roma non si schiererà nettamente né con uno né con l’altro dei nostri maggiori partner europei.
Federico Petroni 

giovedì 6 dicembre 2018

GLI USA SFIDANO LA CINA SU HUAWEI - L' arresto della vicepresidente Meng Wanzhou in Canada su mandato USA dimostra l’inconsistenza della tregua appena raggiunta - Un articolo d Limes On Line



L’arresto della vicepresidente di Huawei dimostra l’inconsistenza della tregua appena raggiunta da Usa e Cina in campo commerciale. Si tratta di una mossa inaudita, gravida di conseguenze ed esemplare dell’intensità dell’offensiva a tutto campo di Washington contro Pechino.

Meng Wangzhou è un pezzo da novanta dell’economia cinese. È figlia di Ren Zhengfei, fondatore del colosso delle telecomunicazioni, un’azienda centrale nella strategia di Xi Jinping per diminuire la dipendenza tecnologica dagli Usa, requisito necessario per dotarsi dello status di grande potenza. La reazione di Pechino, che ha chiesto “l’immediato rilascio della detenuta”, fa capire la sensibilità del soggetto.

Fermata dalle autorità canadesi a Vancouver su richiesta di WashingtonMeng attende l’estradizione negli Stati Uniti. I motivi dell’arresto non sono stati ancora ufficializzati. Potrebbero riguardare la vendita di tecnologia sensibile all’Iran, in violazione delle sanzioni del Tesoro e del Congresso Usa, lo spionaggio industriale di cui la Repubblica Popolare è costantemente accusata oppure i timori per la sicurezza nazionale che ha portato l’amministrazione Trump ad ammonire circa la diffusione di prodotti Huawei in patria. Già quest’anno Washington aveva temporaneamente bandito l’azienda Zte, accusata di rifornire Iran e Corea del Nord.

L’arresto di Meng è l’apice di un’intensa campagna di contenimento dell’impresa cinese da parte degli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati. Quest’anno Washington ha bandito Hauwei dagli appalti governativi, Australia e Nuova Zelanda le hanno vietato di sviluppare le reti 5G nazionali e nel Regno Unito il gestore delle telecomunicazioni sta eliminando la tecnologia dell’azienda dalle reti 3G e 4G. Il Canada è l’ultimo membro dell’Anglosfera e dell’alleanza dei Five Eyes ad accodarsi. Nella sfida alla Cina, evidentemente gli Usa esigono disciplina dalle nazioni sorelle. Non è detto che qualora l’offensiva proceda anche al resto del mondo non siano imposte precise scelte di campo.

Il fatto che il fermo sia avvenuto il 1° dicembre, nelle stesse ore in cui Donald Trump e Xi Jinping siglavano la tregua di 90 giorni nella guerra commerciale, dimostra che a Washington si dibatte non se ma come fermare la Cina. Il messaggio è chiarissimo: gli Usa non hanno intenzione di allentare la presa. Non è altrettanto chiaro se il destinatario, oltre alla Repubblica Popolare, sia lo stesso Trump, cui lo Stato profondo comunica che non è il momento di desistere dal tentativo di far deragliare la locomotiva cinese.

Perché la posta in gioco di questa partita non è commerciale, tecnologica o limitata allo spionaggio. Cina e Stati Uniti si contendono il primato globale.

di 

giovedì 29 novembre 2018

I BALCANI E IL FUOCO CHE COVA SOTTO LA CENERE un articolo di Mauro Manzin sul Piccolo


Ieri 29 novembre Il Piccolo ha pubblicato un interessante articolo di Mauro Manzin sulla situazione dei Balcani sulla quale non vi è sufficiente attenzione e intervento dell' Europa.
Inutile ricordare quanto le vicende dei Balcani si riverberino su Trieste non solo per motivi di vicinanza ma anche per questioni geopolitiche e infrastrutturali.
Ad esempio la progettata nuova linea ferroviaria veloce che nelle intenzioni della Cina dovrebbe collegare il porto del Pireo, controllato dalla cinese Cosco, a Budapest nel cuore dell' Europa Centrale bypassando i porti l' Alto Adriatico, subirebbe certamente contraccolpi negativi da un riaccendersi delle tensioni balcaniche.
Per chi non avesse potuto leggere l' articolo lo pubblichiamo  qui di seguito:


I BALCANI E IL FUOCO CHE COVA SOTTO LA CENERE
di Mauro Manzin


C’è del marcio nei Balcani, di cui l’Europa non avverte il forte odore assolutista che lo permea e di cui gli Stati Uniti hanno solo un vago sentore, ma che il super io di Donald Trump relega al disinteresse vero o tattico che sia.
I PROGETTI UE
Il progetto di Bruxelles di allargamento nei Balcani occidentali sta fortemente traballando perché nella regione si sta diffondendo la certezza che stia collassando il tentativo di creare un ordine basato sulle regole, rinforzando così di fatto la sfaccitaggine delle élite locali nei confronti di Ue e Usa. Una strategia per “impressionare” anche i nuovi interlocutori dell’area come Russia, Cina, Turchia e monarchie del Golfo. Facciamo solo tre casi: dazi doganali in Kosovo, fuga dell’ex premier macedone Gruevski in Ungheria (Paese Ue) e la presidenza del serbo Dodik in Bosnia. E, come scrive anche il politologo Jasmin Mujanović, i tre fatti sopra elencati sono solo in apparenza slegati tra di loro. Fatti che si inseriscono bene nella crisi più ampia del liberalismo occidentale iniziata con l’aggressione di Putin all’Ucraina, proseguita con la Brexit e conclusa dall’unilateralismo reazionario di Trump. I Balcani occidentali, comunque, non sono solo le vittime di tali eventi, ma sono abili manipolatori degli stessi per volgerli a proprio vantaggio. La fuga di Gruevski in Ungheria alla vigilia della sua carcerazione e l’asilo politico concesso all’ex premier di Skopje da Budapest coinvolge direttamente anche Bruxelles che si trova di fronte a una palese violazione dello Stato di diritto della Macedonia. E se Gruevski dovesse restare in Ungheria questo sarà un duro colpo alla credibilità Ue nella regione. Il Kosovo, sull’orlo della disperazione, ha innalzato del 100% i dazi per i prodotti serbi in risposta al blocco del suo ingresso nell’Interpol e contemporaneamente ha spalancato a Sud i confini a Tirana materializzando di fatto lo spettro della Grande Albania. O l’Ue decide di agire in modo equo, preparandosi così a incorrere anche nell’ira di qualcuno che agisce in malafede, oppure fingendo l’ignoranza di quanto sta accadendo vedrà la propria credibilità frantumata nei confronti di tutte le parti coinvolte. L’ultima provocazione è quella del neoeletto presidente Milorad Dodik alla presidenza collegiale bosniaca. Il leader della Republika srpska (entità della Bosnia secondo gli accordi di Dayton del 1995) ha dichiarato che in qualità di presidente di turno del Paese viaggerà col passaporto serbo. Potrebbe sembrare un colpo di teatro, invece altro non è se non l’ulteriore tassello del suo tentativo di instaurare a Banja Luka il governo del partito unico serbo puntando così a una modifica della Costituzione dell’entità, a militarizzare la polizia, a reclutare paramilitari addestrati in Russia, come conferma lo stesso Mujanović, e creare strutture di sicurezza parallele mantenendo forti legami politici e diplomatici con Serbia, Russia ma anche con territori occupati come l’Ossezia del Sud.
NON SOLO GIOCHETTI
Solo giochi? No, semplicemente i prodromi per la secessione. Il tutto mentre l’Ue non vede o non vuole vedere, l’Usa regala armi alla Croazia e lo stesso fa Mosca con la Serbia che vuole, a parole, diventare una stella d’Europa, ma contemporaneamente sbatte la porta in faccia alla Nato predicando un sospetto non-allineamento sulle orme di quello che fu il paradigma della politica internazionale del maresciallo Tito. Quanta Europa c’è in tutto questo? Quanto gli Usa ci sono o ci fanno? 23 anni dopo Dayton i Balcani occidentali tornano a essere carichi di dinamite e basta l’ultranazionalista di turno (ne navigano molti in questi tempi) ad accendere la miccia. –


domenica 18 novembre 2018

ANCHE L' UNGHERIA, DOPO LA CINA E IL DUBAI, SI INTERESSA A TRIESTE COME SCALO PRINCIPALE DELLA MITTELEUROPA - RITIRATA LA PARTECIPAZIONE UNGHERESE AL RADDOPPIO DELLA FERROVIA CAPODISTRIA / DIVACCIA - NON C'E' ALCUN PERICOLO DI MONOPOLIO CINESE SUL PORTO FRANCO INTERNAZIONALE DI TRIESTE -


L' ottimo giornalista Mauro Manzin dà notizia sia della decisione ungherese di puntare sul Porto di Trieste, con cui ci sono già intensi rapporti e linee ferroviarie giornaliere, sia del disimpegno dall' indispensabile raddoppio della linea ferroviaria Capodistria - Divaccia che essendo ormai satura rappresenta la principale strozzatura allo sviluppo del porto sloveno che dista solo 6 chilometri da Trieste.

Ricordiamo che l' Ungheria è stato il primo paese della UE ad entrare nelle "Nuove Vie della Seta" firmando il "memorandum d' intesa" con Pechino (clicca QUI) e che Budapest doveva diventare il terminal ferroviario della linea ad alta velocità che avrebbe dovuto collegare il Porto del Pireo controllato dalla COSCO cinese all' Europa Centrale e che sta incontrando difficoltà tecniche e geopolitiche.
Questo progetto avrebbe tagliato fuori dal grosso dei flussi commerciali l' Alto Adriatico e Trieste in particolare.

E' pertanto molto significativo il suo interesse sul nostro porto e l' abbandono di quello di Capodistria ed è da valutare quanto abbiano contato su questa scelta i disaccordi e conflitti all' interno della UE. Trovano concreta conferma gli ottimi rapporti con l' Ungheria di cui parlava il Presidente Fedriga in un intervista rilasciataci un mese fa (clicca QUI).

Riportiamo sotto per intero l' articolo di Manzin sul Piccolo di oggi, mentre  proprio domani il presidente della Port Authority di Trieste e vicepresidente dei porti europei Zeno D’Agostino sarà a Budapest. 

Le paure seminate ad arte di un pericolo di "monopolio cinese" e di "svendita alla Cina” del Porto Franco Internazionale di Trieste sono irrealistiche. 
In realtà ci sono molteplici e concreti interessamenti per il Porto Franco Internazionale di Trieste che per la sua collocazione geopolitica è il vero porto dell’ Europa Centrale ed Orientale sulle Nuove Vie della Seta ed è lo snodo intermodale ideale tra nave e  ferrovia, ancora oggi come ai tempi di "Trieste porto dell' Impero" per evidenti motivi geopolitici, economici e di infrastrutturazione ferroviaria.

La DP WORLD importantissima compagnia emanazione dell’ Autorità Portuale del Dubai è concretamente interessata a un terminal a Trieste ed ha già iniziato trattative per ampliare e/o costruire un nuovo terminal (QUI una scheda).

Ormai è noto e dibattuto anche il concreto interessamento del colosso cinese CHINA MERCHANTS GROUP di cui già parla la stampa da giorni (QUI).


L’ esito auspicabile e probabile di questa situazione, e di questa benefica concorrenza tra grandi operatori internazionali, è che vi saranno due grandi terminal: uno per gli operatori cinesi e uno per gli operatori del Dubai.
Presumibilmente i Moli VII e VIII che insisterà sulla Piattaforma Logistica in costruzione.
E adesso si aggiunge l' interesse ungherese ad acquisire concessioni di infrastrutture a lungo periodo per attività logistiche.

Tutti gradiscono molto lo status di Porto Franco di Trieste perché è uno strumento che usano ampiamente con successo in patria sia in Cina (vedi la gigantesca Free Zone di Shanghai e non solo) sia a Dubai.
Tutti questi operatori hanno forte interesse non solo allo shipping ma anche alle ricadute industriali e produttive nel retro porto, cosa che hanno ben collaudato nelle Free Zones in patria e nel mondo.

Non c è contrapposizione fra porto ed industria, ma solo fra buon porto e cattiva industria.

Resta il problema del collegamento ferroviario della nuova Piattaforma Logistica e del Molo VIII  e della necessaria nuova stazione di Servola che dovrebbe sorgere al posto dell’ “Area a Caldo” della Ferriera, fonte del più pesante inquinamento della città.

Giovedì scorso c'è stato un incontro tra L’ Autorità Portuale e Arvedi, proprietario della Ferriera, che ha dato inizio alle trattative anche su questo punto indispensabile per consentire la formazione di treni di 750 metri, che sono il nuovo standard europeo che sarà effettivo con l'apertura dei trafori del Semmering e della Koralpe, e che rappresenta la vera soluzione del problema dell’ inquinamento della Ferriera.

Ecco l' articolo di Manzin sul Piccolo:

Orban abbandona Capodistria «Accordi col Porto di Trieste»
L’Ungheria non parteciperà con i previsti 300 milioni di euro alla realizzazione del raddoppio della linea ferroviaria tra lo scalo del Litorale sloveno e Divaccia


Mauro Manzin / LUBIANA

Clamoroso “colpo basso” al governo della Slovenia. A mollare il pesante ko è il premier ungherese Viktor Orban il quale venerdì scorso durante l’incontro della diaspora magiara ha affermato che Budapest non darà un euro alla Slovenia per la realizzazione del raddoppio della traccia ferroviaria tra Capodistria e Divaccia, infrastruttura considerata strategica e imprescindibile per lo sviluppo dello scalo del Litorale da parte dell’esecutivo. Nel piano finanziario di realizzazione del raddoppio, peraltro molto lacunoso e oggetto del referendum sull’opera poi bocciato dal corpo elettorale per mancato quorum, la Slovenia aveva da anni dato quasi per certo e dopo molti abboccamenti con l’esecutivo di Budapest, l’arrivo di 300 milioni di euro. Certo non risolutivi ma comunque una fetta importante per portare a termine un’infrastruttura da quasi due miliardi di euro. Orban è stato chiarissimo e il ko ha messo al tappeto Lubiana perché il premier magiaro ha giustificato la decisione del suo governo in quanto l’Ungheria è interessata al dialogo con il porto di Trieste. E proprio domani il presidente della Port Authority del capoluogo del Friuli Venezia Giulia e vicepresidente dei porti europei Zeno D’Agostino sarà proprio a Budapest. Non si dovrebbe parlare di accordi ma è fin troppo chiaro che i “fuori onda” non mancheranno di toccare questo argomento. Orban ha affermato che le trattative partiranno con il Porto di Trieste, che dà in concessione a lungo termine alla logistica le proprie infrastrutture, e riguarderanno proprio la possibilità di collaborare nel settore logistico con i necessari investimenti da parte delle aziende ungheresi. Il ministro delle Infrastrutture della Slovenia Alenka Bratušek ha comunque più volte sostenuto che il Paese è in grado di portare a termine l’opera di raddoppio della linea ferroviaria Capodistria-Divaccia anche da sola, anche se non sarebbe contraria alla cooperazione dei Paesi contermini se questa dimostrerà di portare al progetto un valore aggiunto. Proprio di recente Lubiana ha tolto la qualifica di segreto alla documentazione esistente sui contatti avuti tra la Slovenia e l’Ungheria relativamente proprio alla cooperazione nel realizzare l’infrastruttura. «Non abbiamo ancora messo il punto nella collaborazione con l’Ungheria - ha detto di recente Bratušek - ma saremo noi che porremo i termini a Budapest o a chiunque altro per la cooperazione stessa». Il ministro ha aggiunto di essere pronta a sondare l’interesse di altri Paesi contermini che in una lettera avevano epresso un certo interesse. A tale riguardo, ha concluso sempre Bratušek, sarà presa una decisione ufficiale del governo entro la fine dell’anno. I media sloveni si “consolano” scrivendo che Orban non andrà a investire al Porto di Fiume nella “poco amica Croazia”. Insomma, è ko tecnico. —

Il progetto ora in difficoltà di linea ferroviaria ad alta velocità Pireo-Budapest


mercoledì 7 novembre 2018

IL PETROLIO DELL'IRAN, L'ESENZIONE DEGLI USA E IL POSTO DELL'ITALIA - PERCHE' L' ITALIA E' STATA ESENTATA DALL' APPLICARE SANZIONI ALL' IRAN - articolo di Lucio Caracciolo, direttore di Limes

Il premier italiano Giuseppe Conte in visita alla Casa Bianca dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, luglio 2018. 


La decisione di Washington non è un regalo, ma una ricompensa per le scelte che Roma ha preso o dovrà prendere su Tap, Muos, F-35. Questo a livello tattico. Poi c’è il livello strategico.


L’esenzione per sei mesi dall’embargo sulle importazioni di petrolio iraniano non è un regalo di Trump all’Italia.

Primo, perché per un presidente che ragiona e agisce da uomo d’affari, nulla è gratis.

Secondo, perché in cambio di questo riguardo – che noi condividiamo con paesi della taglia di Cina e India, massimi acquirenti di idrocarburi persiani – gli Stati Uniti si aspettano contropartite molto concrete. In termini specifici, l’acquisto senza tante storie dei caccia F-35 e la preservazione del Muos, sistema satellitare avanzato ad alta frequenza e banda stretta installato in Sicilia, fondamentale per le comunicazioni militari Usa nel Mediterraneo, che parte del Movimento 5 Stelle vorrebbe smantellare.

Terzo, perché la temporanea tolleranza sul fronte iraniano è collegata alla decisione di Roma di dar via libera al gasdotto Tap, segnale della volontà italiana di diversificare le importazioni di gas, fortemente dipendenti dalla Russia.

Ma la mossa di Washington ha un significato geopolitico più ampio. L’amministrazione Trump apprezza lo smarcamento di Roma dall’ortodossia europeista, approva la sua retorica nazionalista. Quanto più ci allontaniamo da Berlino (e per quel molto poco che vale, da Bruxelles) tanto meglio. L’idea franco-tedesco-britannica di allestire sotto egida Ue un sistema che permetta di aggirare le sanzioni e condurre “legittimi affari” con l’Iran, continuando ad acquistarne petrolio e gas, probabilmente finirà nel nulla. Ma ad occhi americani è l’ennesima riprova che degli “alleati” europei non ci si può davvero fidare.

I considerevoli acquisti di titoli di Stato italiani da parte di alcuni fra i massimi fondi americani, avviati poco dopo l’avvento del governo Lega-M5S, non sono scattati solo per via degli algoritmi (semi)automatici ma anche per sostenere l’Italia nella sfida con la Germania e con le “formiche” del Nord Europa. Allo stesso tempo, Washington è consapevole che se l’Italia facesse bancarotta il rischio non riguarderebbe solo l’Eurozona ma il sistema finanziario mondiale. Risultato: la migliore Europa possibile è quella che resta faticosamente in bilico, dipendente dall’impero a stelle e strisce, senza avvitarsi nella spirale definitiva.

La crisi italiana conferma il potere oggettivo di ricatto di cui Roma dispone e che i nostri governi avevano finora deciso di non sfruttare, illudendosi che si potesse essere insieme filo-americani ed europeisti (leggi: filo-tedeschi). Come se la priorità geopolitica che obbliga gli Stati Uniti a stroncare l’affermarsi di qualsiasi centro di potenza in Eurasia fosse adattabile, magari revocabile, a seconda del colore politico dell’inquilino della Casa Bianca.

La peculiarissima coalizione tra rivali che da giugno guida l’Italia sta tentando, tra mille contraddizioni, di sfruttare la forza della sua debolezza. Forse senza rendersene perfettamente conto. Ecco il paradosso di un paese alla disperata ricerca di fondi che mentre si scontra con Germania e Francia apre contemporaneamente a Stati Uniti, Cina e Russia. Operazione di alta acrobazia.

Piaccia o meno, noi siamo da oltre settant’anni nella sfera d’influenza americana. Immaginare che Washington si disinteressi della crescente, pervasiva presenza cinese in Italia, non solo con le nuove vie della seta, è illusione. Lo stesso vale, in misura minore, per le sinergie russo-italiane, che fanno dello Stivale il migliore amico di Mosca in Europa, il più vocale assertore – in questo caso fin dal governo Renzi – del superamento delle sanzioni alla Russia.

Certo, le alleanze non sono quelle di una volta. Ai tempi della guerra fredda, se Roma avesse stretto rapporti così intimi con Mosca e Pechino sarebbe stata annichilita da devastante rappresaglia. La superpotenza a stelle e strisce non è onnipotente, i suoi poteri tutt’altro che unanimi, le sue priorità strategiche in Asia, non in Europa.

Ma dove siano le linee rosse che non potremmo valicare senza essere sanzionati dal nostro “protettore”, nessuno sa. Forse nemmeno Trump. Certamente non i litigiosi nocchieri che mentre si disputano il timone vorrebbero tenere a galla la barca italiana, zigzagando fra uno scoglio e l’altro.