venerdì 28 dicembre 2018

LE NUOVE VIE DELLA SETA NEL 2018: MOLTISSIMI OSTACOLI, NESSUNO INSORMONTABILE - Dal 2013 a oggi, solo il 14% dei progetti avviati nell’ambito della Bri ha riscontrato dei problemi - Si parla anche di Trieste in questo articolo di Limes On Line -




Nel 2018 la Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta) ha continuato a espandersi, malgrado l’intrecciarsi di molteplici ostacoli.

Nonostante le vulnerabilità dei partner, la “trappola del debito” e le preoccupazioni dei principali rivali di Pechino, nell’anno che sta per chiudersi il progetto geopolitico della Cina ha fatto passi avanti. Le contromosse di Usa, Europa e Indo-Pacifico. I dubbi dell’Italia.



Tra questi rientrano la guerra commerciale e le frizioni tecnologiche e militari con gli Usa, l’opposizione degli altri rivali di Pechino (Giappone, Australia e India), i timori dell’Europa per la penetrazione economica del Dragone, la crescente preoccupazione internazionale per le implicazioni militari della Bri, l’instabilità geopolitica e finanziaria di alcuni paesi coinvolti nell’iniziativa. La cosiddetta “trappola del debito” preoccupa diversi paesi (vedi Gibuti, Maldive, Sri Lanka, Pakistan) e ha spinto alcuni di loro a rinegoziare o addirittura cancellare i progetti concordati con la Cina.

Questi fattori per ora non compromettono il progetto infrastrutturale lanciato nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping al quale oggi partecipano oltre 65 paesi. Tuttavia, per la prima volta quest’anno Xi ha criticato indirettamente la sua stessa creatura, sottolineando che bisogna “tenere conto degli interessi delle altre parti e attuare progetti che beneficino le popolazioni locali”. Non è escluso che Pechino ricalibri l’iniziativa per impedire che nel lungo periodo subisca una battuta d’arresto. Ripercuotendosi sui progetti geopolitici del terzo leader cinese più potente dopo Mao Zedong e Deng Xiaoping.

Il treno corre, malgrado tutto

Nel 2018, la Repubblica Popolare ha investito 12 miliardi di dollari nella Bri, il 6,4% in più rispetto all’anno precedente. Inoltre, ha firmato progetti per un valore contrattuale di 80 miliardi di dollari (+48% rispetto al 2017). L’interscambio commerciale con i partner dell’iniziativa ha superato gli 860 miliardi di dollari. Le aziende cinesi hanno investito 11 miliardi di dollari in progetti sotto il cappello della Bri e avviato 82 zone di cooperazione economica e commerciale all’estero. Tra le più attive vi sono i colossi logistici Cosco e China Merchants Group. Il primo, che controlla il porto del Pireo, ha da poco preso la gestione di un terminal container ad Abu Dhabi. Il secondo, che quest’anno ha aperto un centro di ricerca a Ravenna, potrebbe a breve investire nel porto di Trieste, anche se vi sono altre aziende cinesi interessate allo scalo marittimo nostrano, inclusa China Merchants.

I paesi che aderiscono alle nuove vie della seta sono aumentati in Eurasia (vedi Grecia e Portogallo) e negli altri continenti. In Asia-Pacifico, Filippine, Papua Nuova Guinea, Samoa, Figi, Niue e Isole Cook hanno firmato il memorandum di partecipazione alla Bri. Ciò ha elevato la soglia di attenzione dell’Australia, che teme la crescente presenza cinese sul suo territorio e nel proprio “giardino di casa”. Ciò spiega perché Canberra abbia recentemente annunciato in accordo con gli Usa il potenziamento della base militare di Manus, in Papua Nuova Guinea.

In America Latina, anche Uruguay, Cile, Trinidad e Tobago, Ecuador e Panamá hanno aderito alla Bri. Quest’ultima ha aperto i rapporti diplomatici con la Cina solo nel giugno 2017, rompendo quelli ufficiali con Taiwan. Lo stesso ha fatto El Salvador ad agosto. Tale dinamica riduce lo spazio diplomatico di Taipei, la cui sovranità è riconosciuta solo da 17 Stati nel mondo – inclusa la Santa Sede, con cui a settembre la Cina ha trovato un accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi nella Repubblica Popolare, mossa dall’intenzione di rafforzare il suo soft power. Pechino vuole riprendersi Taiwan entro il 2049, se possibile (anche se improbabile) con mezzi pacifici.

Dal 2013 a oggi, solo il 14% dei progetti avviati nell’ambito della Bri ha riscontrato dei problemi, secondo la società di consulenza RWR Advisory Group, basata a Washington. La cifra non è poi così grande se si pensa alle dimensioni economiche della Bri e alla varietà dei progetti avviati con questo marchio, diventato sinonimo della politica estera cinese.

Trappola del debito

La Malaysia è stato il primo paese a cancellare un progetto per evitare di accumulare debito nei confronti della Cina. I due paesi dovevano costruire una ferrovia per collegare la Thailandia, il porto malese di Kuantan e quello di Klang (vicino Kuala Lumpur), così da tagliare il paese da costa a costa.

Tale iniziativa serviva a Pechino per ridurre la dipendenza dallo stretto di Malacca che separa l’Oceano Indiano dal Mar Cinese Meridionale. La Cina teme che un giorno gli Usa – i quali dominano i colli di bottiglia marittimi mondiali – possano bloccarlo per impedire il passaggio dei suoi traffici commerciali. Di qui la necessità di individuare rotte alternative. In tale contesto rientrano anche i corridoi che uniscono la Cina rispettivamente al Pakistan e al Myanmar, entrambi soggetti a vulnerabilità securitarie e finanziarie. L’attentato di novembre al consolato cinese di Karachi conferma l’opposizione dei ribelli baluci alla costruzione delle infrastrutture del Dragone in territorio pakistano. Islamabad inoltre deve gestire l’alto livello di debito pubblico, il deficit commerciale e il crollo delle riserve di valuta estera. Per questo prima ha chiesto il sostegno del Fondo monetario internazionale e dell’Arabia Saudita, poi ha ridotto di due miliardi di dollari il budget per lo sviluppo della tratta ferroviaria Karachi-Peshawar, all’inizio fissati a 8,2 miliardi. Anche Myanmar, afflitto dagli scontri tra esercito e gruppi etnici armati e dal rischio della “trappola del debito”, ha ridotto i finanziamenti per l’ampliamento del porto di Naypidaw da 7,3 a 1,3 miliardi di dollari.

La sicurezza della Bri

In futuro, Pechino incrementerà la presenza militare all’estero per tutelare maggiormente le proprie risorse impiegate in teatri instabili, quali Medio Oriente e Africa. Lo conferma il memorandum sull’antiterrorismo firmato a dicembre da Cina, Pakistan e Afghanistan. La costruzione di nuove basi oltre a quella di Gibuti (eretta nel 2017) è in tal senso indispensabile. Per realizzarle, la Cina dovrà superare i timori dei paesi stranieri. Vanuatu, Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka e Maldive hanno infatti smentito la loro possibile collaborazione. Nel 2017 la Cina ha condotto attività di mediazione diplomatica di varia intensità in nove conflitti (sei in più rispetto al 2012), tra cui quelli tra Israele e Palestina, tra Afghanistan, Pakistan e talebani, e in Myanmar tra governo e gruppi etnici armati. Infine la Repubblica Popolare ha incoraggiato i contractors cinesi a collaborare con i suoi colossi economici che operano all’estero.

Nel 2018, Pechino ha rafforzato la repressione nel Xinjiang, espandendo i campi di rieducazione per i presunti estremisti uiguri (musulmani e turcofoni) e di altre etnie. L’obiettivo è “sinizzare” la regione, cioè indurla ad abbracciare usi e costumi degli han per garantirsi la sua fedeltà alla Repubblica Popolare. Il Ningxia (popolato dai musulmani Hui) ha firmato degli accordi antiterrorismo con la regione e Hong Kong vi ha inviato la sua task force per studiarne le tecniche di sorveglianza. È probabile che in futuro i metodi applicati nella “Nuova Frontiera” siano utilizzati anche nel resto della Repubblica Popolare.

Le mosse dei rivali

La tregua commerciale non porrà fine alle frizioni tecnologiche e militari sino-statunitensi. Per conto degli Usa, a dicembre il Canada ha fermato Meng Wanzhou, manager di Huawei e figlia del fondatore. Soprattutto, Washington, Ottawa e i governi degli altri Five eyes (Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda) hanno respinto la possibilità che Huawei costruisca le loro reti 5G. Probabilmente temono che Pechino possa servirsene per spiarli. La rilevanza della partita tecnologica era emersa già a maggio 2018, quando Washington ha messo in ginocchio l’azienda cinese Zte (accusata di aver trasferito beni e tecnologia a Iran e Corea del Nord), vietando alle compagnie a stelle e strisce di venderle componenti tecnologici fino al 2025. Il colosso cinese ha ripreso le attività a luglio, dopo aver pagato una multa di 1,4 miliardi di dollari.

Gli Usa hanno anche proposto ai paesi dell’Asia-Pacifico un piano d’investimento infrastrutturale anti-Bri, che prevede solo 113 milioni di dollari di investimenti e 60 miliardi da prestare ad aziende private per progetti all’estero. Cifre che non possono competere con quelle profuse in questi anni dalla Repubblica Popolare. Washington vuole coinvolgere in tali piani anche Giappone, Australia (dotati di rispettivi piani infrastrutturali regionali) e India per contenere l’ascesa economica e militare del Dragone. Malgrado la loro repulsione strategica per il progetto cinese, i tre paesi non negano la loro partecipazione tout court, come dimostrato dall’adesione dello Stato australiano di Victoria e dai progetti di collaborazione sino-nipponici.

Difficilmente la strategia di contenimento anti-cinese potrà avere successo fino a quando la Repubblica Popolare avrà il sostegno della Russia. La collaborazione infrastrutturale, energetica e militare – vedi le esercitazioni di Vostok 2018 – tra Pechino e Mosca è stata agevolata dalle frizioni rispettivamente registrate dalle due potenze eurasiatiche e gli Stati Uniti. Non è chiaro fino a quando durerà la collaborazione sino-russa, ma la crescente presenza cinese in Asia Centrale e nell’Artico potrebbe danneggiare le strategie di Mosca nel lungo periodo. Limes affronterà questo argomento nel 2019.

I paesi dell’Unione Europea vogliono continuare a fare affari con la Cina senza favorirne gli investimenti predatori. Soprattutto in Europa centrorientale, attraverso cui dovrebbero transitare le merci approdate al Porto del Pireo. Per questo Bruxelles ha gettato le basi di un progetto infrastrutturale antitetico alla Bri per collegare la Cina al Vecchio Continente. Questo promette maggiore trasparenza e standard qualitativi più elevati, cioè gli ambiti in cui le nuove vie della seta sarebbero carenti secondo l’Ue. Durante la prima esposizione internazionale per le importazioni della Cina (Ciie) svoltasi a Shanghai a novembre, è emerso il disappunto europeo per le mancate riforme economiche cinesi. Paesi come Germania e Francia sperano che Xi ponga in atto le misure più volte annunciate per aprire ulteriormente il mercato della Repubblica Popolare al mondo.

Malgrado le perplessità di Bruxelles, nel 2018 l’Italia ha stretto ulteriormente i rapporti con la Cina, ma durante il Ciie non ha firmato il memorandum di adesione alle nuove vie della seta come ci si aspettava. Roma potrebbe aver rimandato l’adesione per non irritare l’Ue e gli Usa. La firma del memorandum implicherebbe infatti l’appoggio simbolico all’iniziativa cinese, che nessun paese del G7 ha dato sinora. Non è escluso che Roma sottoscriva il documento durante il secondo forum Bri, che si terrà a Pechino il prossimo aprile.

La Cina potrebbe servirsi dell’evento per aggiustare il tiro dell’iniziativa in base ai risultati e ai problemi riscontrati nel 2018. In caso contrario, la mera celebrazione della globalizzazione con caratteristiche cinesi potrebbe suscitare l’insoddisfazione dei paesi partner e avvantaggiare i suoi rivali.

Potete approfondire questi argomenti nel numero di Limes intitolato “Non tutte le Cine sono di Xi“.


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