mercoledì 7 novembre 2018

IL PETROLIO DELL'IRAN, L'ESENZIONE DEGLI USA E IL POSTO DELL'ITALIA - PERCHE' L' ITALIA E' STATA ESENTATA DALL' APPLICARE SANZIONI ALL' IRAN - articolo di Lucio Caracciolo, direttore di Limes

Il premier italiano Giuseppe Conte in visita alla Casa Bianca dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, luglio 2018. 


La decisione di Washington non è un regalo, ma una ricompensa per le scelte che Roma ha preso o dovrà prendere su Tap, Muos, F-35. Questo a livello tattico. Poi c’è il livello strategico.


L’esenzione per sei mesi dall’embargo sulle importazioni di petrolio iraniano non è un regalo di Trump all’Italia.

Primo, perché per un presidente che ragiona e agisce da uomo d’affari, nulla è gratis.

Secondo, perché in cambio di questo riguardo – che noi condividiamo con paesi della taglia di Cina e India, massimi acquirenti di idrocarburi persiani – gli Stati Uniti si aspettano contropartite molto concrete. In termini specifici, l’acquisto senza tante storie dei caccia F-35 e la preservazione del Muos, sistema satellitare avanzato ad alta frequenza e banda stretta installato in Sicilia, fondamentale per le comunicazioni militari Usa nel Mediterraneo, che parte del Movimento 5 Stelle vorrebbe smantellare.

Terzo, perché la temporanea tolleranza sul fronte iraniano è collegata alla decisione di Roma di dar via libera al gasdotto Tap, segnale della volontà italiana di diversificare le importazioni di gas, fortemente dipendenti dalla Russia.

Ma la mossa di Washington ha un significato geopolitico più ampio. L’amministrazione Trump apprezza lo smarcamento di Roma dall’ortodossia europeista, approva la sua retorica nazionalista. Quanto più ci allontaniamo da Berlino (e per quel molto poco che vale, da Bruxelles) tanto meglio. L’idea franco-tedesco-britannica di allestire sotto egida Ue un sistema che permetta di aggirare le sanzioni e condurre “legittimi affari” con l’Iran, continuando ad acquistarne petrolio e gas, probabilmente finirà nel nulla. Ma ad occhi americani è l’ennesima riprova che degli “alleati” europei non ci si può davvero fidare.

I considerevoli acquisti di titoli di Stato italiani da parte di alcuni fra i massimi fondi americani, avviati poco dopo l’avvento del governo Lega-M5S, non sono scattati solo per via degli algoritmi (semi)automatici ma anche per sostenere l’Italia nella sfida con la Germania e con le “formiche” del Nord Europa. Allo stesso tempo, Washington è consapevole che se l’Italia facesse bancarotta il rischio non riguarderebbe solo l’Eurozona ma il sistema finanziario mondiale. Risultato: la migliore Europa possibile è quella che resta faticosamente in bilico, dipendente dall’impero a stelle e strisce, senza avvitarsi nella spirale definitiva.

La crisi italiana conferma il potere oggettivo di ricatto di cui Roma dispone e che i nostri governi avevano finora deciso di non sfruttare, illudendosi che si potesse essere insieme filo-americani ed europeisti (leggi: filo-tedeschi). Come se la priorità geopolitica che obbliga gli Stati Uniti a stroncare l’affermarsi di qualsiasi centro di potenza in Eurasia fosse adattabile, magari revocabile, a seconda del colore politico dell’inquilino della Casa Bianca.

La peculiarissima coalizione tra rivali che da giugno guida l’Italia sta tentando, tra mille contraddizioni, di sfruttare la forza della sua debolezza. Forse senza rendersene perfettamente conto. Ecco il paradosso di un paese alla disperata ricerca di fondi che mentre si scontra con Germania e Francia apre contemporaneamente a Stati Uniti, Cina e Russia. Operazione di alta acrobazia.

Piaccia o meno, noi siamo da oltre settant’anni nella sfera d’influenza americana. Immaginare che Washington si disinteressi della crescente, pervasiva presenza cinese in Italia, non solo con le nuove vie della seta, è illusione. Lo stesso vale, in misura minore, per le sinergie russo-italiane, che fanno dello Stivale il migliore amico di Mosca in Europa, il più vocale assertore – in questo caso fin dal governo Renzi – del superamento delle sanzioni alla Russia.

Certo, le alleanze non sono quelle di una volta. Ai tempi della guerra fredda, se Roma avesse stretto rapporti così intimi con Mosca e Pechino sarebbe stata annichilita da devastante rappresaglia. La superpotenza a stelle e strisce non è onnipotente, i suoi poteri tutt’altro che unanimi, le sue priorità strategiche in Asia, non in Europa.

Ma dove siano le linee rosse che non potremmo valicare senza essere sanzionati dal nostro “protettore”, nessuno sa. Forse nemmeno Trump. Certamente non i litigiosi nocchieri che mentre si disputano il timone vorrebbero tenere a galla la barca italiana, zigzagando fra uno scoglio e l’altro.



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