sabato 29 maggio 2021

CARI ITALIANI, DI VOI NON CI FIDIAMO - Cosa pensano gli USA del Porto di Trieste e degli Italiani. (da Limes rivista di geopolitica)

 


Cosa pensano gli USA del Porto di Trieste:

Ma come vi può essere saltato in mente di offrire ai cinesi il porto di Trieste? Chiedo scusa, ma avete dimenticato che quello scalo di Vienna su cui i rossi di Tito stavano per mettere le mani ve lo abbiamo restituito noi, nel 1954? E non avete la pazienza di studiare il collegamento ferroviario e stradale fra Vicenza (Aviano) e Trieste – ai tempi miei faceva abbastanza schifo, ma non importa – che fa di quel porto UNO SCALO MILITARE, all’intersezione meridionale dell’estrema linea difensiva Baltico- Adriatico?

E cosa pensano degli Italiani in genere:

"Siete un popolo di individualisti, pronti a cambiare casacca alla prima occasione. Ve lo ricorda chi ha perso il nonno sul fronte di Cassino, per liberarvi. Incredibili le vostre aperture ai russi e ai cinesi. Eppure Trieste ve la salvammo noi."

di Americanus pseudonimo di un alto funzionario dei servizi informativi americani.

Pubblicato in: IL TRIANGOLO SÌ - LIMES n°4 - 2021  10/05/2021

1. Ho tra le mani la lettera di nonno a papà, datata Palermo 27 agosto 1943. Quando capita – ormai di rado – che mi debba occupare di Italia, è la mia prima e definitiva fonte: «Mio caro Figlio, non avrei mai immaginato che un paese invaso potesse abbracciare con tanta passione chi entrava armato a casa sua. Un popolo che soffre la miseria più nera, con soldati vestiti di stracci e armati di fucili da museo, ci ha accolto come fossimo i salvatori. (…) Mi piacerebbe fosse così anche quando metteremo finalmente piede nella terra del bisnonno, ma ho il presentimento, conoscendoci, che non sarà esattamente così». 

Nonno Frankie non arrivò mai a Fürth. Colpa del fuoco amico, sul fronte di Cassino. Ma sono certo che sarebbe stata tutt’altra storia. Me lo confermarono i suoi commilitoni della 3a Divisione di Fanteria della Settima Armata, che nell’aprile 1945 dovettero spendere cinque giorni di feroci corpo a corpo per aver ragione dei nazi asserragliati attorno a Norimberga. Un giorno il vecchio generale «Iron Mike» O’ Daniel, che aveva comandato nonno ai tempi dell’Operazione Husky, recitò a me ragazzino la lista dei 130 caduti – e per ognuno aveva una parola – nella battaglia contro un esercito che aveva già perso la guerra. Ma che non voleva perderla «all’italiana». 

Il secondo ricordo legato all’Italia è di quando servivo nell’intelligence militare, in Afghanistan, durante quella stupida guerra. Più le cose andavano male, meno «amici e alleati» erano disposti a condividere con noi la gestione di quell’inferno. Non mi stupii perciò quando il mio omologo italiano – un poco spiritoso ufficialetto sardo – mi bussò alla porta, con aria sorprendentemente arrogante, per comunicarmi che Roma aveva deciso di riportare a casa un certo reparto e non aveva affatto intenzione di sostituirlo. Me lo disse nel suo «inglese» scoppiettante di consonanti, quasi fosse un ordine e non un preannuncio di ritiro. Sorrisi. Poi, guardando altrove, cominciai a carezzare la Colt M1909 del nonno, che tengo sempre poggiata sul tavolo, in bella mostra. Dopo una studiata pausa, osservai: «Ok, per noi è indifferente. Che ci siate o no, non cambia niente». Livido, l’ufficialetto sardo salutò e se ne andò senza chiudere la porta. «Well done, grandpa», sussurrai, e riposi la Colt nella fodera. 

Oggi che una rivista italiana di geopolitica – non so bene cosa sia la geopolitica, ma so di averla fatta nei miei lunghi anni in quello che adesso si usa chiamare (con mio orrore) Deep State – mi chiede di spiegare ai suoi lettori che cosa voglia l’America dall’Italia, la prima cosa che mi viene da rispondere, lisciando quel foglio spiegazzato per decifrare la scrittura di nonno, è: «Nulla che già non abbiamo». La seconda: «Ma gli italiani che accolsero papà a braccia aperte come un liberatore sanno che casa loro gliela abbiamo riconsegnata noi? E che se non ce l’avessimo fatta sarebbero governati dai nipoti del mio prozio, impenitente cofondatore del Partito nazionalsocialista in Baviera, che chissà quante volte avrà diviso il tavolo in birreria con Adolf Hitler? Non lo so. Sono però sicuro che gli avrebbero consegnato le chiavi dell’appartamento con meno entusiasmo ma con lo stesso servilismo». 

Ma veniamo al dunque. Il dunque che può stabilire un ufficiale a riposo, attivo in Italia alla fine della guerra fredda. Quando il vostro magnifico paese, quasi dalla sera alla mattina, precipitò d’un colpo nella gerarchia dei nostri interessi. Dalla strategia al turismo. Non era più spazio di frontiera fra noi e i sovietici, al quale dovevamo impedire di scivolare nel campo avverso. E dove quasi tutti, in pubblico e in privato – quanti rossi compresi! – non facevano che ripeterci quanto ci volessero bene (e giù liste di parenti e amici italoamericani). E quei pochi, ma non pochissimi, che sapevano di quale ramo dell’amministrazione fossimo, ce ne volevano ancora di più. Certamente ci volevano più bene, a noi dell’intelligence militare, di quanto ce ne volessero gli sbirri dell’Fbi che in quegli anni si davano da fare per occupare i nostri spazi, visto che con la fine della guerra fredda sarebbe scoccata la loro ora di gloria (continua ancora, in Italia, mi dicono i ragazzi in servizio che mi capita d’incontrare). 

Dunque vogliamo quel che abbiamo. Che cosa abbiamo? Il controllo militare e di intelligence del territorio, in forma pressoché totale. E quel grado, non eccessivo, di influenza sul potere politico – soprattutto sui poteri informali ma fondamentali che gestiscono di fatto il paese. Quello che voi italiani ci avete consegnato nel 1945 – a proposito, se qualcuno di voi mi spiegasse perché ci dichiaraste guerra, gliene sarei davvero grato – e che non potremmo, nemmeno volendolo, restituirvi. Se non perdendo la terza guerra mondiale. In quel caso si riaffaccerebbero dalle vostre parti quei miei cugini, che ricordano la battaglia di Norimberga soprattutto nella versione del Gauleiter Karl Holz. Non frequento questi parenti, ma da quel che nonno mi diceva di suo fratello, non credo di essermi perso nulla.

In concreto – e vengo, penso, a quella «geopolitica» di cui parlate mentre noi la facciamo – dell’Italia ci interessano tre cose. La posizione (quindi le basi), il papa (quindi l’universale potenza spirituale, e qui forse come cattolico e correligionario del papa emerito sono un poco di parte) e il mito di Roma, che tanto influì sui nostri padri fondatori. 

La posizione. Siete un gigantesco molo piantato in mezzo al Mediterraneo. Sul fronte adriatico, eravate (e un po’ restate, perché quelli non muoiono mai) bastione contro la minaccia russa, oggi soprattutto cinese. Ma come vi può essere saltato in mente di offrire ai cinesi il porto di Trieste? Chiedo scusa, ma avete dimenticato che quello scalo di Vienna su cui i rossi di Tito stavano per mettere le mani ve lo abbiamo restituito noi, nel 1954? E non avete la pazienza di studiare il collegamento ferroviario e stradale fra Vicenza (Aviano) e Trieste – ai tempi miei faceva abbastanza schifo, ma non importa – che fa di quel porto uno scalo militare, all’intersezione meridionale dell’estrema linea difensiva Baltico-Adriatico? E forse dimenticate che una delle più grandi piattaforme di comunicazioni, cioè di intelligence, fuori del territorio nazionale l’abbiamo in Sicilia, a Niscemi, presso lo Stretto che separa Africa ed Europa, da cui passano le rotte fra Atlantico e Indo-Pacifico?



Il papa. Noi cattolici americani siamo una corposa minoranza, ma sempre minoranza, mai troppo rappresentata nelle sfere del potere. Anche perché siamo americani prima, cattolici poi. Ricordo quando in famiglia – siamo quasi tutti militari, e siamo così fieri di aver servito la patria per generazioni – ci si raccontava di come in quanto cattolici fossimo guardati con un certo sospetto da alcuni comandanti. Pensavano che potessimo dar retta al papa su questioni che con la fede non c’entrano nulla, come il dovere di difendere l’America. Ma per noi – eccoci di nuovo alla geopolitica (o sbaglio?), la Chiesa di Roma era anzitutto Chiesa occidentale, solo dopo universale. E per questo eravamo, siamo e resteremo a Roma, anche con un papa argentino mezzo Perón e mezzo Che Guevara. E che ci detesta, ricambiato, e Dio sa quanto ne soffro.

Il mito di Roma. Ho letto sui banchi di scuola di quanto Washington e Jefferson, Madison e Hamilton o perfino quel mezzo francese di Benjamin Franklin si ispirassero al modello romano, alla repubblica ma anche all’impero, che poi sempre repubblica era. E per quella breve stagione di passaggio da un millennio all’altro in cui ci sembrava di essere soli in vetta al mondo – poi ci vennero le vertigini, e oggi ne sentiamo gli effetti – ci sentivamo la Nuova Roma. Purtroppo non ho potuto studiare il latino, che mio nonno masticava perché ai suoi tempi nei curricula delle migliori accademie era materia d’insegnamento. Eppure quante volte mi sono scoperto passeggiando fra le rovine di Roma, a tendere i sensi quasi potessi ancora ascoltare le voci di Bruto o di Cesare, di Augusto o di Virgilio. E quanto avrei voluto che gli eterni testimoni della Roma Antica mi spiegassero a che punto della parabola fosse la potenza della Nuova!

2. Ma torniamo a noi. Perché da qualche tempo sentiamo di non essere più soli in Italia. I nostri nemici di quasi sempre e di oggi, ma soprattutto di domani – insomma russi e cinesi – hanno messo gli occhi su di voi. Noi non possiamo permetterci il lusso di perdere l’Italia. O solo di concedere che diventi un caotico condominio le cui stanze dovremmo spartire con altri. Magari anche con quei cugini di Baviera. 

È questo il punto. È ormai chiaro che un paese al contempo così sgangherato e attraente sia diventato il ventre molle del nostro spazio di influenza, il luogo in cui si inseriscono – o vorrebbero inserirsi – i nostri principali sfidanti, compresa quella Germania che dopo la seconda guerra mondiale si vuole pressoché innocua. Noi siamo presi da molte altre questioni, sparse per il mondo, geograficamente distanti da quello che chiamano lo Stivale. Ma non possiamo abbassare la guardia in Europa, continente tuttora decisivo per ogni sogno di potenza, perla della nostra epopea, luogo d’origine di gran parte dei miei concittadini. 

Soprattutto in Italia, nazione bisognosa, sensibile alle lusinghe altrui, non soltanto economiche. Per questo abbiamo assistito con preoccupazione – ancorché nascosta – agli eventi degli ultimi anni. 

Mi riferisco alla firma apposta nel 2019 dal vostro governo sul memorandum per le nuove vie della seta. Per voi un semplice accordo commerciale, per noi il segnale d’uno scarrellamento, più o meno ingenuo, verso un campo ostile. Adesione mascherata a una globalizzazione alternativa alla nostra, cui si è aggiunta la possibilità di cedere a Pechino il controllo di infrastrutture sensibili. Insomma, che Roma fosse pronta a vendersi ai cinesi per un pugno di denari – peraltro una frazione della cifra sognata dall’opinione pubblica – mi fa rabbrividire. Come giustificare tanta disponibilità a trattare con il nostro principale nemico? Siete evidentemente immemori del fatto che fummo noi a restituirvi la libertà. 

Soltanto la conoscenza del vostro approccio alle cose del mondo, notoriamente leggero, ha stemperato la delusione – non foste italiani dovremmo parlare di alto tradimento. Eppure resta un campanello d’allarme. 

3. Lo stesso vale per la Russia. Nel corso della storia l’Italia ha conservato relazioni fin troppo amichevoli con Mosca, ma un ulteriore sviluppo negativo si è registrato di recente. Nel 2020, durante la prima ondata dell’epidemia, abbiamo seguìto con notevole emozione l’approdo a Pratica di Mare di centinaia di militari russi. Sotto i nostri occhi il Belpaese accoglieva una potenza che combattiamo da decenni, al di là della guerra fredda. Le immagini dei soldati del Cremlino che attraversavano la Penisola – dal Lazio fino alla Lombardia – per offrire il loro presunto aiuto alla popolazione assalita dal virus mi ha confermato quanto labile sia la condizione dell’Italia. Mi è tornato alla mente il periodo trascorso tra Roma e Milano, pochi mesi dopo la resa dei sovietici. 


Allora la Russia aveva perso ogni potere di influenza. Perfino l’Italia, che negli anni precedenti mostrava una popolazione per metà comunista, pareva immune dalla sua fascinazione, finalmente consapevole di appartenere soltanto al fronte occidentale.

Certo, in questo periodo noi americani manchiamo di solidarietà – l’amministrazione federale si sta dedicando quasi esclusivamente alla salute dei nostri cittadini – ma scambiare l’interessato intervento del Cremlino per sincera partecipazione ci ha lasciato perplessi. Fino a consigliare l’attuale Casa Bianca di colpire Mosca con nuove sanzioni per smascherarne le surrettizie intenzioni, per ricordare agli alleati – italiani compresi – la vera natura dell’Orso slavo. 

A dirla tutta, potremmo imputare all’Italia anche d’aver abbracciato il trumpiano tentativo di dimostrare che le interferenze russe nelle elezioni presidenziali statunitensi fossero un’invenzione degli apparati, ovvero del mio ufficio. Allora Palazzo Chigi sfruttò il doloso atteggiamento del newyorkese per rilanciare la propria russofilia, senza curarsi dei nostri avvertimenti. Ma comprendiamo che l’occasione è stata fornita da un nostro impresentabile concittadino, dunque dobbiamo riconoscervi attenuanti speciali.

4. Addirittura più complicato è il dossier tedesco. Da molti anni la sopravvivenza economica dell’Italia dipende dalla terra dei miei avi, con la vostra manifattura esistente dentro la catena del valore teutonica. Sicché conviene interrogarsi sulla futura collocazione dello Stivale, adesso che Berlino prova a salvare l’Eurozona offrendo ai mercati la propria solidità finanziaria, mentre continua a flirtare con cinesi e russi, soggetti indiscutibilmente autoritari, nonostante i nostri richiami. 

Premetto: siamo lieti che la Repubblica Federale, dopo decenni di incomprensibile austerità, abbia deciso di spendersi per i suoi vicini, soprattutto per l’Italia. Ma sarebbe ingenuo non chiedersi quale sarà il prossimo passo. 

Forse la Germania difetta di acume geopolitico – mio nonno raccontava di un paese fatalmente incline all’autolesionismo – né pare mossa da una concreta brama di potenza, tuttavia si erge da tempo a perno del continente. Probabilmente siamo ossessionati dai tedeschi, sindrome causata dall’aver combattuto due guerre mondiali e (parzialmente) una guerra fredda contro di loro, oltre che dall’origine germanica della maggioranza degli americani, ma nel corso della storia la Germania ha spesso realizzato svolte inaspettate. Oggi una nuova metamorfosi berlinese trascinerebbe con sé l’Italia, tra l’inconsapevolezza dei suoi abitanti. Cosa potrebbe accadere se la cancelleria provasse a tramutare in strategica la sua sfera di influenza economica? Che effetto avrebbe sul continente e sulla Penisola? Cosa potrebbe chiedere in cambio per aver difeso la moneta che condividete? 

Sarebbe imperdonabile non contemplare una tale evoluzione che,
 unita ai movimenti delle altre potenze lungo lo Stivale, renderebbe l’Italia perfino meno affidabile del passato. Vero, l’avvento di Mario Draghi sta provocando la riscoperta di un ostentato atlantismo, con tanto di segnali avversi lanciati a cinesi e russi. Su tutti: l’utilizzo del golden power per preservare alcune strategiche aziende italiane e una maggiore attenzione alle infiltrazioni dell’intelligence moscovita. Ma abbiamo imparato da tempo quanto sia rischioso fidarci di voi.

Nonno Frankie mi ha insegnato che gli italiani sono sempre disposti a cambiare casacca, anche in modo repentino. La postura del Belpaese non può ritenersi definitiva, anche quando pare scolpita nella pietra. Troppo mutevole è la vostra natura. Siete eccezionali individualisti capaci di trascendere ogni collocazione, di smentire ogni definizione. Così la vostra complessa posizione geografica finisce per innescare improvvisi scatti in avanti, pericolosi flirt, rovinosi rinnegamenti. 

Specie nella congiuntura attuale, segnata dal galoppante declino economico, dalla necessità di agganciarsi a un treno altrui per rimanere in vita, dalla volontà di offrirvi al miglior offerente senza contemplare le inevitabili conseguenze geopolitiche, ritenute tollerabili in un clima da ultima spiaggia. 

Realtà che ci impone di restare vigili, anche adesso che, impegnati su molteplici fronti, vorremmo occuparci d’altro. Niente di più pericoloso di una nazione tanto affascinante quanto disperata, posta al centro del Mediterraneo, appesa al cuore d’Europa. Probabilmente stavolta non saremo chiamati a combattere la tirannia tra la Sicilia e le Alpi, né lo Stivale tornerà a informare la nostra politica estera. 

Ma intendiamo conservare quanto l’Italia ci offre sul piano strategico. Patrimonio conquistato da mio nonno e dai suoi commilitoni con straordinario sacrificio, da difendere contro vecchi e nuovi antagonisti, mentre guardiamo altrove. 

(traduzione di Guido Ancelotti)


martedì 20 aprile 2021

IL "NON DOCUMENTO" SLOVENO SULLA PARTIZIONE DELLA BOSNIA ERZEGOVINA - Articolo di Laris Gaiser eccezionalmente in ESCLUSIVA per i lettori del Limes Club Trieste, da Limes On Line riservato agli abbonati


 La Slovenia avrebbe consegnato al Consiglio Europeo un “non paper” con un piano di ridefinizione dei confini che, se applicato, riaccenderebbe la polveriera nei Balcani.

di Laris Gaiser
20/4/21

I Balcani sono da sempre l’ossimoro della semplicità.


Sono la regione nella quale, a causa della storia, i confini fissi sono stabilmente indefinibili. Il luogo nel quale, a più di un secolo dallo sparo, la pallottola di Gavrilo Princip è ancora vagante.


Secondo le indiscrezioni trapelate sui giornali di Lubiana e Sarajevo, il governo della Slovenia, presieduto da Janez Janša e prossimo al semestre di presidenza dell’Unione europea (luglio-dicembre 2021), a marzo avrebbe consegnato al Consiglio europeo un “non paper” nel quale si esamina la possibilità di rimodellare ancora una volta i confini della regione balcanica.


Nello scenario presentato a Bruxelles, la cui esistenza non è stata smentita da nessuna cancelleria, si analizza l’opportunità di smembrare definitivamente, sulla base di un consenso diplomatico multilaterale, la Bosnia-Erzegovina. E di creare una Grande Albania.


Lo studio ha creato forte scalpore e innervosito numerosi governi del Continente, ma non rappresenta nulla di nuovo. È un’ipotesi che ritorna ciclicamente e che alla fine delle guerre jugoslave era stata scartata in quanto avrebbe sfacciatamente favorito gli aggressori serbi e croati, i cui politici dell’epoca sono stati definiti nelle sentenze del Tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia come fautori di un’impresa criminale congiunta.


La Bosnia-Erzegovina è da sempre una terra contesa fra i popoli limitrofi. Riuscì ad avere una breve indipendenza solo tra il XII ed il XIV secolo, prima di essere annessa all’impero ottomano e successivamente rivendicata dal rivale austroungarico. L’impero asburgico volle farne la colonia modello, tanto che vi impiantò il primo tram elettrico d’Europa e procedette a forti investimenti economici pur di garantirsi il sostegno di una popolazione da sempre ondivaga tra occidente e oriente. Il sogno viennese si frantumò col colpo di pistola che uccise l’erede al trono d’Austria, gettando le nazioni europee nel massacro nazionalista della Grande guerra.


Oggi i Balcani sono ancor più frantumati del 1914 e vivono sotto la scure dei conflitti congelati legati al collasso della Jugoslavia. Prima o poi dovranno trovare sfogo nella revisione di uno stato delle cose che scontenta tutte le parti da più di venti anni.


La Bosnia-Erzegovina, uno degli Stati più inefficienti e corrotti al mondo, rappresenta una bomba a orologeria per la stabilità regionale. Le sue istituzioni si basano sugli accordi di Dayton, ovvero sul trattato di pace che sancì la fine della guerra tra serbi, croati e musulmani nel 1995. Quegli accordi dovevano essere temporanei e garantire il riavvio della convivenza interetnica e la ricostruzione istituzionale. A oltre 25 anni di distanza, continuano a rimanere l’unico caposaldo dell’esistenza di un paese che non ha nemmeno la più elementare consistenza politica, che conta centinaia di ministri, diversi parlamenti, tre capi di Stato e un Alto rappresentante della comunità internazionale con il diritto di veto su ogni decisione. Un sistema complesso sostenuto – in mancanza di un settore economico minimamente dinamico – dagli aiuti internazionali che a loro volta fomentano la corruzione endemica.


La comunità internazionale sa bene che un paese del genere esiste solo fino a quando essa lo appoggia. E sa bene che deve promuovere una soluzione facendo uscire i politici locali dalla loro zona di comfort. Per tale ragione a Bruxelles hanno iniziato a prendere seriamente in esame tutti gli scenari possibili. Anche quello di spezzettare definitivamente la Bosnia-Erzegovina tra Serbia e Croazia, lasciando ai bosgnacchi la libertà di scegliere il loro futuro con un referendum.


Questa soluzione, immaginano i sostenitori della disintegrazione finale, faciliterebbe l’inclusione dell’area nell’Ue, eliminando uno Stato eccessivamente complesso da gestire. Ma nei Balcani non esistono scorciatoie geopolitiche: i problemi non si risolvono; se va bene, si rimodellano. In caso contrario, si moltiplicano.


La Bosnia-Erzegovina è una federazione di culture, etnie, religioni e aspirazioni sociali: un’Unione europea in miniatura. Un’Ue che pretendesse la distruzione della Bosnia-Erzegovina per poter procedere all’allargamento contraddirebbe i suoi stessi principi fondanti, ma soprattutto avallerebbe il fatto che gli Stati, anche a distanza di anni, ottengono quanto le armi conquistano sul campo. Un concetto esattamente agli antipodi delle ragioni intorno alle quali è stata costruita la casa comune europea. Un’Unione Europea che sostenesse la disintegrazione di uno Stato per potersi allargare firmerebbe la propria condanna a morte definitiva.


Il non paper vorrebbe stabilizzare l’area anche attraverso la formazione di una Grande Albania, per mezzo della fusione di Tirana con il Kosovo e parte della Macedonia. Skopje diverrebbe così un’altra vittima eccellente del piano presentato da Lubiana, come se non bastassero già le umiliazioni cui Bruxelles l’ha sottoposta negli ultimi anni pretendendone il cambio di nome, il cambio della Costituzione e la più totale capitolazione davanti alle pretese storiche di Bulgaria e Grecia.


Gli albanesi, che hanno conquistato nei decenni il Kosovo con la politica demografica e con le armi, sono l’unico popolo al mondo ad avere due Stati e pretese su un terzo. La loro unificazione rappresenterebbe il coronamento di un cammino che negli Stati Uniti troverebbe certamente accoglienza, dato l’aperto sostegno di Washington ai clan albanesi della regione (in chiave anti-serba) fin dagli anni Novanta del secolo scorso.


Soprattutto appare un’idea gradita senza alcuna remora dall’attuale inquilino della Casa Bianca. Joe Biden non ha mai lesinato fatiche pur di fornire sostegno finanziario e militare agli albanesi durante i conflitti della ex-Jugoslavia. Le varie ramificazioni del popolo albanese hanno sempre negato la volontà di congiungersi, ma si tratta di un leitmotiv tanto politicamente necessario quanto poco credibile. Questo in attesa che anche le élite kosovare passino sotto le forche caudine dei tribunali internazionali per le atrocità commesse durante la guerra contro la Serbia.


Lo studio presentato dalla Slovenia mostra la necessità di definire situazioni che quasi certamente alimenteranno nuovi conflitti armati e di fornire una cornice più ampia per la soluzione del problema kosovaro. A quel punto uno scambio territoriale tra Belgrado e Pristina diverrebbe un problema di secondo piano e, soprattutto, la Serbia sarebbe territorialmente compensata dalle acquisizioni in Bosnia-Erzegovina.


Il definitivo distacco del Kosovo dalla Serbia, nonché la presa d’atto dell’ineluttabilità delle conquiste militari, sarebbero la combinazione preferita da Vladimir Putin. Il presidente della Russia ha sfruttato il precedente legale creato dagli Usa in Kosovo per riannettere la Crimea sulla base di un referendum e vorrebbe al più presto chiudere anche le contese nel Donbas.


Il documento è però lacunoso riguardo la sorte dei bosgnacchi e di altre dieci minoranze residenti in Bosnia-Erzegovina. Come quella dei macedoni, alla mercé di bulgari e greci, o quella dei montenegrini, troppo poco de-serbizzati per esser definiti nazione. Ma soprattutto è incompleto nell’analizzare le inevitabili tensioni che verrebbero a crearsi tra una Serbia territorialmente rinvigorita, una Grande Albania da sempre spauracchio di Belgrado e una Grande Croazia.


Il piano sloveno di stabilizzazione dei Balcani, basato sulla conferma delle tradizioni nazionaliste – ossia la negazione del principio di convivenza multietnica e religiosa – soddisferebbe Putin e qualche burocrate bisognoso di semplificazioni a Washington. Per il resto creerebbe solo nuove eccezioni e disfunzionalità balcaniche.


In una visione più ampia, la fuoriuscita della proposta slovena potrebbe essere d’aiuto alla definizione di un incontro tra Biden e Putin. Da organizzarsi magari proprio in Slovenia, sulla falsariga di quanto avvenne nel 2001 quando George W. Bush e Putin scelsero il piccolo paese centroeuropeo per il primo vero avvicinamento tra Mosca e Washington dalla fine della guerra fredda.


Il presidente della Repubblica della Slovenia Borut Pahor si è recato personalmente a Sarajevo a marzo per verificare con i membri della presidenza della Bosnia-Erzegovina la loro disponibilità a un’eventuale eutanasia dello Stato. Per convincerli, li avrebbe informati del desiderio di Bruxelles di veder risolto il caso. Se si esclude il desiderio di Pahor – politico relativamente giovane – di trovare uno spazio di manovra che gli permetta di assurgere a qualche prestigiosa poltrona internazionale allo scadere del mandato nel 2022, il suo mandato esplorativo e la definizione del non paper da parte del governo sloveno rispondono più a logiche esterne che di interesse nazionale.


Lubiana non ha alcun interesse a ritrovarsi con un vicino meridionale più grande e psicologicamente rinvigorito dopo decenni di purgatorio politico impostogli dall’Occidente per colpe legate ai massacri delle guerre di dissoluzione della Federazione Jugoslava. L’unica ragione sensata per tale azione di favore potrebbe risiedere in un accordo segreto con Zagabria per ottenere il libero accesso alle acque internazionali. Un accesso che i croati negano da sempre ma che sarebbe ben poca cosa in confronto all’ingrandimento favorito dai buoni uffici della Slovenia.


Qualsiasi soluzione si trovi, i Balcani rimarranno il luogo in cui le tensioni saranno sempre numericamente sufficienti per dare alle grandi potenze la possibilità di manipolare le furie regionali. Per ora sarebbe auspicabile che l’Unione Europea – potenza normativa e non certamente geopolitica – continui il suo allargamento stabilizzante.


Almeno finché darà una speranza di pace a una Bosnia-Erzegovina vogliosa di uscire dal suicidio politico autoindotto. Magari optando per una soluzione cantonale tout court, come sostenuto fortemente negli ultimi anni dal professor Franjo Topic. E facendo delle proprie diversità una ricchezza.


Pubblicato il 20/4/2021 su Limes On-Line riservato agli abbonati.




venerdì 8 gennaio 2021

L'AMERICA IN TEMPESTA È UN PROBLEMA ANCHE PER ALLEATI E NEMICI - Articolo di Lucio Caracciolo sulla situazione degli USA

Tra qualche anno, forse, rivali e soci in via d’emancipazione degli Stati Uniti rimpiangeranno i tempi in cui dovevano tacere, ubbidire e godersi la vita

di Lucio Caracciolo

 

L’assalto al Congresso e il caos in cui s’inscrive alimentano la percezione che il Numero Uno sia troppo impegnato con sé stesso per pensare al mondo. Conclusione affrettata. Resta che il danno reputazionale subìto dal paese che va (andava?) orgoglioso del suo marchio democratico è profondo e non rapidamente sanabile. Né è chiaro chi sia in questo momento il comandante in capo: il presidente in carica, il vicepresidente che si comporta come se il presidente fosse lui o la cacofonica somma algebrica delle istituzioni strategiche e di sicurezza, colte con la guardia bassa durante le ore dell’assalto al Congresso?

L’avvento di Biden, il 20 gennaio, non sarà l’inizio di un nuovo capitolo. Sarà l’inizio del tentativo di chiudere quello in corso. Ovvero di liquidare definitivamente Trump. Soprattutto, di sedare i trumpisti in rivolta. Con le cattive, se necessario. Impresa ardua. Oggi in America i modi e i costumi su cui si è finora retta la nazione, da cui derivano le regole del gioco politico-istituzionale e la bilancia dei poteri domestici, non funzionano più in automatico. Urge inventare e imporre nuove regole, a cominciare da quelle che (non) stabiliscono come eleggere il presidente. Fra quattro anni, un altro collasso come l’attuale potrebbe rivelarsi esiziale.

Altrimenti prevarranno i separatismi interni, con parti del territorio e della società emancipati dal controllo del governo federale, che si radicalizzeranno coltivando le proprie religioni del complotto. E addestrando le proprie milizie.

Quando la potenza leader del pianeta è in confusione, il problema ci riguarda tutti. E preoccupa, a diverso titolo e in varia misura, sia i soci che i nemici dell’impero americano. Certo, Pechino, Mosca e Teheran hanno accolto con gioia maligna il disastro del 6 gennaio e godono del fatto che oggi per Washington sia piuttosto arduo impartire lezioni di democrazia ed efficienza istituzionale al resto del pianeta.

Ma a mente fredda, non sapere chi tenga non solo simbolicamente in mano il timone della superpotenza è un problema anche, forse soprattutto, per loro. Né si può escludere che per ricompattare la nazione e rinsaldare il primato nel mondo alcuni poteri americani siano pronti a scatenare una guerra, possibilmente breve e vittoriosa, che punisca almeno uno fra i tre supernemici. Di sicuro l’imprevedibilità degli Stati Uniti destabilizza il sistema delle cosiddette relazioni internazionali, già in entropia.

La potenza di ogni impero si misura dalla salute del centro, da cui dipende quella delle periferie.Non viceversa. In parole povere, il nostro paese e gli altri satelliti dell’informale impero a stelle e striscesono esposti alle onde d’urto sollevate dalla disputa fra i poteri americani. Specie per i soci più deboli e dipendenti, fra cui noi, si tratta di avventurarsi con i propri mezzi lungo sentieri inesplorati. E imparare a convivere con un capocordata stanco di occuparsi di tutti, in particolare degli alleati meno affidabili e potenti. Quanto ai soci più autorevoli e ambiziosi, è l’occasione per riequilibrare in parte il rapporto con la superpotenza.

Vale soprattutto per Germania e Francia. La prima reazione di Angela Merkel, che si è poco merkelianamente dichiarata “arrabbiata e triste”, esprime la frustrazione di un ex satellite strettamente sorvegliato perché sospettato di intelligenza col nemico cinese – vedi accordo sugli investimenti Ue-(leggi: Germania)-Cina – o russo (Nord Stream 2). Fra qualche anno, forse, scopriremo negli attuali soci in via di emancipazione dal controllo americano una lancinante nostalgia per i tempi in cui dovevano tacere, ubbidire e godersi la vita sotto l’ombrello a stelle e strisce.

Articolo originariamente pubblicato l’8 gennaio 2021 su La Stampa