martedì 20 aprile 2021

IL "NON DOCUMENTO" SLOVENO SULLA PARTIZIONE DELLA BOSNIA ERZEGOVINA - Articolo di Laris Gaiser eccezionalmente in ESCLUSIVA per i lettori del Limes Club Trieste, da Limes On Line riservato agli abbonati


 La Slovenia avrebbe consegnato al Consiglio Europeo un “non paper” con un piano di ridefinizione dei confini che, se applicato, riaccenderebbe la polveriera nei Balcani.

di Laris Gaiser
20/4/21

I Balcani sono da sempre l’ossimoro della semplicità.


Sono la regione nella quale, a causa della storia, i confini fissi sono stabilmente indefinibili. Il luogo nel quale, a più di un secolo dallo sparo, la pallottola di Gavrilo Princip è ancora vagante.


Secondo le indiscrezioni trapelate sui giornali di Lubiana e Sarajevo, il governo della Slovenia, presieduto da Janez Janša e prossimo al semestre di presidenza dell’Unione europea (luglio-dicembre 2021), a marzo avrebbe consegnato al Consiglio europeo un “non paper” nel quale si esamina la possibilità di rimodellare ancora una volta i confini della regione balcanica.


Nello scenario presentato a Bruxelles, la cui esistenza non è stata smentita da nessuna cancelleria, si analizza l’opportunità di smembrare definitivamente, sulla base di un consenso diplomatico multilaterale, la Bosnia-Erzegovina. E di creare una Grande Albania.


Lo studio ha creato forte scalpore e innervosito numerosi governi del Continente, ma non rappresenta nulla di nuovo. È un’ipotesi che ritorna ciclicamente e che alla fine delle guerre jugoslave era stata scartata in quanto avrebbe sfacciatamente favorito gli aggressori serbi e croati, i cui politici dell’epoca sono stati definiti nelle sentenze del Tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia come fautori di un’impresa criminale congiunta.


La Bosnia-Erzegovina è da sempre una terra contesa fra i popoli limitrofi. Riuscì ad avere una breve indipendenza solo tra il XII ed il XIV secolo, prima di essere annessa all’impero ottomano e successivamente rivendicata dal rivale austroungarico. L’impero asburgico volle farne la colonia modello, tanto che vi impiantò il primo tram elettrico d’Europa e procedette a forti investimenti economici pur di garantirsi il sostegno di una popolazione da sempre ondivaga tra occidente e oriente. Il sogno viennese si frantumò col colpo di pistola che uccise l’erede al trono d’Austria, gettando le nazioni europee nel massacro nazionalista della Grande guerra.


Oggi i Balcani sono ancor più frantumati del 1914 e vivono sotto la scure dei conflitti congelati legati al collasso della Jugoslavia. Prima o poi dovranno trovare sfogo nella revisione di uno stato delle cose che scontenta tutte le parti da più di venti anni.


La Bosnia-Erzegovina, uno degli Stati più inefficienti e corrotti al mondo, rappresenta una bomba a orologeria per la stabilità regionale. Le sue istituzioni si basano sugli accordi di Dayton, ovvero sul trattato di pace che sancì la fine della guerra tra serbi, croati e musulmani nel 1995. Quegli accordi dovevano essere temporanei e garantire il riavvio della convivenza interetnica e la ricostruzione istituzionale. A oltre 25 anni di distanza, continuano a rimanere l’unico caposaldo dell’esistenza di un paese che non ha nemmeno la più elementare consistenza politica, che conta centinaia di ministri, diversi parlamenti, tre capi di Stato e un Alto rappresentante della comunità internazionale con il diritto di veto su ogni decisione. Un sistema complesso sostenuto – in mancanza di un settore economico minimamente dinamico – dagli aiuti internazionali che a loro volta fomentano la corruzione endemica.


La comunità internazionale sa bene che un paese del genere esiste solo fino a quando essa lo appoggia. E sa bene che deve promuovere una soluzione facendo uscire i politici locali dalla loro zona di comfort. Per tale ragione a Bruxelles hanno iniziato a prendere seriamente in esame tutti gli scenari possibili. Anche quello di spezzettare definitivamente la Bosnia-Erzegovina tra Serbia e Croazia, lasciando ai bosgnacchi la libertà di scegliere il loro futuro con un referendum.


Questa soluzione, immaginano i sostenitori della disintegrazione finale, faciliterebbe l’inclusione dell’area nell’Ue, eliminando uno Stato eccessivamente complesso da gestire. Ma nei Balcani non esistono scorciatoie geopolitiche: i problemi non si risolvono; se va bene, si rimodellano. In caso contrario, si moltiplicano.


La Bosnia-Erzegovina è una federazione di culture, etnie, religioni e aspirazioni sociali: un’Unione europea in miniatura. Un’Ue che pretendesse la distruzione della Bosnia-Erzegovina per poter procedere all’allargamento contraddirebbe i suoi stessi principi fondanti, ma soprattutto avallerebbe il fatto che gli Stati, anche a distanza di anni, ottengono quanto le armi conquistano sul campo. Un concetto esattamente agli antipodi delle ragioni intorno alle quali è stata costruita la casa comune europea. Un’Unione Europea che sostenesse la disintegrazione di uno Stato per potersi allargare firmerebbe la propria condanna a morte definitiva.


Il non paper vorrebbe stabilizzare l’area anche attraverso la formazione di una Grande Albania, per mezzo della fusione di Tirana con il Kosovo e parte della Macedonia. Skopje diverrebbe così un’altra vittima eccellente del piano presentato da Lubiana, come se non bastassero già le umiliazioni cui Bruxelles l’ha sottoposta negli ultimi anni pretendendone il cambio di nome, il cambio della Costituzione e la più totale capitolazione davanti alle pretese storiche di Bulgaria e Grecia.


Gli albanesi, che hanno conquistato nei decenni il Kosovo con la politica demografica e con le armi, sono l’unico popolo al mondo ad avere due Stati e pretese su un terzo. La loro unificazione rappresenterebbe il coronamento di un cammino che negli Stati Uniti troverebbe certamente accoglienza, dato l’aperto sostegno di Washington ai clan albanesi della regione (in chiave anti-serba) fin dagli anni Novanta del secolo scorso.


Soprattutto appare un’idea gradita senza alcuna remora dall’attuale inquilino della Casa Bianca. Joe Biden non ha mai lesinato fatiche pur di fornire sostegno finanziario e militare agli albanesi durante i conflitti della ex-Jugoslavia. Le varie ramificazioni del popolo albanese hanno sempre negato la volontà di congiungersi, ma si tratta di un leitmotiv tanto politicamente necessario quanto poco credibile. Questo in attesa che anche le élite kosovare passino sotto le forche caudine dei tribunali internazionali per le atrocità commesse durante la guerra contro la Serbia.


Lo studio presentato dalla Slovenia mostra la necessità di definire situazioni che quasi certamente alimenteranno nuovi conflitti armati e di fornire una cornice più ampia per la soluzione del problema kosovaro. A quel punto uno scambio territoriale tra Belgrado e Pristina diverrebbe un problema di secondo piano e, soprattutto, la Serbia sarebbe territorialmente compensata dalle acquisizioni in Bosnia-Erzegovina.


Il definitivo distacco del Kosovo dalla Serbia, nonché la presa d’atto dell’ineluttabilità delle conquiste militari, sarebbero la combinazione preferita da Vladimir Putin. Il presidente della Russia ha sfruttato il precedente legale creato dagli Usa in Kosovo per riannettere la Crimea sulla base di un referendum e vorrebbe al più presto chiudere anche le contese nel Donbas.


Il documento è però lacunoso riguardo la sorte dei bosgnacchi e di altre dieci minoranze residenti in Bosnia-Erzegovina. Come quella dei macedoni, alla mercé di bulgari e greci, o quella dei montenegrini, troppo poco de-serbizzati per esser definiti nazione. Ma soprattutto è incompleto nell’analizzare le inevitabili tensioni che verrebbero a crearsi tra una Serbia territorialmente rinvigorita, una Grande Albania da sempre spauracchio di Belgrado e una Grande Croazia.


Il piano sloveno di stabilizzazione dei Balcani, basato sulla conferma delle tradizioni nazionaliste – ossia la negazione del principio di convivenza multietnica e religiosa – soddisferebbe Putin e qualche burocrate bisognoso di semplificazioni a Washington. Per il resto creerebbe solo nuove eccezioni e disfunzionalità balcaniche.


In una visione più ampia, la fuoriuscita della proposta slovena potrebbe essere d’aiuto alla definizione di un incontro tra Biden e Putin. Da organizzarsi magari proprio in Slovenia, sulla falsariga di quanto avvenne nel 2001 quando George W. Bush e Putin scelsero il piccolo paese centroeuropeo per il primo vero avvicinamento tra Mosca e Washington dalla fine della guerra fredda.


Il presidente della Repubblica della Slovenia Borut Pahor si è recato personalmente a Sarajevo a marzo per verificare con i membri della presidenza della Bosnia-Erzegovina la loro disponibilità a un’eventuale eutanasia dello Stato. Per convincerli, li avrebbe informati del desiderio di Bruxelles di veder risolto il caso. Se si esclude il desiderio di Pahor – politico relativamente giovane – di trovare uno spazio di manovra che gli permetta di assurgere a qualche prestigiosa poltrona internazionale allo scadere del mandato nel 2022, il suo mandato esplorativo e la definizione del non paper da parte del governo sloveno rispondono più a logiche esterne che di interesse nazionale.


Lubiana non ha alcun interesse a ritrovarsi con un vicino meridionale più grande e psicologicamente rinvigorito dopo decenni di purgatorio politico impostogli dall’Occidente per colpe legate ai massacri delle guerre di dissoluzione della Federazione Jugoslava. L’unica ragione sensata per tale azione di favore potrebbe risiedere in un accordo segreto con Zagabria per ottenere il libero accesso alle acque internazionali. Un accesso che i croati negano da sempre ma che sarebbe ben poca cosa in confronto all’ingrandimento favorito dai buoni uffici della Slovenia.


Qualsiasi soluzione si trovi, i Balcani rimarranno il luogo in cui le tensioni saranno sempre numericamente sufficienti per dare alle grandi potenze la possibilità di manipolare le furie regionali. Per ora sarebbe auspicabile che l’Unione Europea – potenza normativa e non certamente geopolitica – continui il suo allargamento stabilizzante.


Almeno finché darà una speranza di pace a una Bosnia-Erzegovina vogliosa di uscire dal suicidio politico autoindotto. Magari optando per una soluzione cantonale tout court, come sostenuto fortemente negli ultimi anni dal professor Franjo Topic. E facendo delle proprie diversità una ricchezza.


Pubblicato il 20/4/2021 su Limes On-Line riservato agli abbonati.




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