sabato 26 gennaio 2019

IL MONDO LEGATO ALLA CINA - Come l’Impero del Centro guarda sé stesso e il globo - Su Limes una nuova cartina che evidenzia Trieste

Carta di Laura Canali
– inedito a colori in esclusiva per gli abbonati a Limesonline -

Nella cartina di Limes, pubblicata on line, vediamo ben evidenziata Trieste.
Nella seconda metà di marzo il presidente Xi Jinping andrà a Roma a parlare principalmente delle Nuove Vie della Seta e del nostro Porto Franco Internazionale.
Probabilmente questo preoccupa gli avversari geopolitici della Cina, in particolare gli USA, che hanno interesse ad ostacolare la formazione di una "testa di ponte" cinese nel cuore dell' Europa. E non è escluso che vengano rivendicate posizioni di privilegio per la NATO, desuete da anni, quanto ai controlli di sicurezza nel Porto Franco Internazionale di Trieste come è stato adombrato anche su 
taluni articoli di riviste internazionali specializzate (clicca QUI).




Anche di questo si parlerà
nel nostro prossimo appuntamento
GIOVEDI' 14 FEBBRAIO

ORE 18
STAZIONE MARITTIMA
TRIESTE

25/01/2019
Come l’Impero del Centro guarda sé stesso e il globo.

La carta inedita a colori della settimana è dedicata all’auto-percezione della Cina sul planisfero e alla sua effettiva proiezione internazionale.

La mappa cartografa il Celeste Impero al centro del mondo, come potenza al contempo terrestre e marittima – un disegno sublimato dalle duplici nuove vie della seta (Bri).

Pechino fa perno su tale narrazione, all’interno e oltre confine, nel percorso di “risorgimento nazionale” culturale e geopolitico declamato dal presidente e uomo forte della Repubblica Popolare Xi Jinping.

Il fine è tornare a esercitare sullo scacchiere internazionale il peso che Pechino crede le spetti per il solo fatto di essere Zhongguo, l’impero al centro del globo dal retaggio millenario.

Da qui la rappresentazione della Repubblica Popolare quale perno del planisfero, in linea con le sue aspirazioni internazionali.

Dal Celeste Impero si irradiano le rotte terresti e marittime (anche tramite l’acquisizione del controllo di porti strategici) che puntano a connettere il resto del mondo a Pechino, attraverso, attorno e oltre l’Eurasia.

Vettori del nuovo attivismo della Cina – imperialistico e predatorio, stando agli Usa – le manovre e le rotte strategiche dell’Impero del Centro hanno difatti il potenziale per plasmare lo scacchiere globale “con caratteristiche cinesi” nei decenni a venire.

Dall’Africa all’Oceania, dal Sudest asiatico all’Indocina, dall’Asia centrale all’Europa, dal Sudamerica all’Artico. Dati la multidimensionalità dei progetti previsti o in corso di realizzazione, numero e geografia dei paesi coinvolti nella Bri e nelle rotte strategiche della Cina.

In gioco c’è anche la primazia globale degli Stati Uniti, impegnati difatti in un’offensiva anti-cinese a tutto tondo volta al contenimento delle ambizioni del Celeste Impero sui fronti economico-tecnologico, militare, di soft power.

Per approfondire: Limes 11/18 Non tutte le Cine sono di Xi.



mercoledì 23 gennaio 2019

LE IMPRESE A CAPITALE TEDESCO A TRIESTE E NELLA REGIONE - Indagine del Centro Studi di Intesa San Paolo -



La direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo per conto della Camera di Commercio Italo-Germanica ha presentato uno studio sulla presenza diretta di capitali tedeschi nel Friuli Venezia Giulia e in Italia.

Si parla solo di investimenti diretti perché in realtà è l’ intero tessuto economico del Nord Est italiano ad essere coinvolto nelle “catena di valore” della Germania. Ad esempio il recente calo delle esportazioni automobilistiche tedesche ha avuto un immediato riflesso sul calo della produzione industriale in queste aree che producono componentistica di vario genere.

Alcune imprese a capitale tedesco sono molto note: oltre all’ Oleodotto TAL che fornisce il 100% del fabbisogno della Baviera si va da Eurocar a Bofrost, da Trieste Trasporti a Saf.

Nell’elenco di 22 aziende che riguarda la regione si contano quatto marchi triestini oltre all’ Oleodotto TAL e alle aziende che operano nell’ ambito del Porto Franco.
Accanto ad Allianz, il colosso assicurativo che ha assorbito il Lloyd Adriatico, c’è appunto l’azienda di trasporto pubblico che opera nella provincia. Trieste Trasporti è partecipata per il 39,93% da Arriva Italia, holding italiana del gruppo Arriva acquistato nel 2010 dalla Deutsche Bahn e che fa parte, con il 60%, anche della Saf, gestore del Tpl in provincia di Udine.
La terza società che emerge dall’indagine è la Huesker, la cui fondazione risale al 1861 a Gescher, città della Renania settentrionale. Attiva in origine nella produzione di tessuti di cotone, la Huesker, con sede a Trieste dal 2002, è oggi leader mondiale nella produzione di geosintetici, tessili industriali e agro-zootecnici.
La quarta è infine Vollers Italia, in città dal 2005, che offre servizi di logistica, con il partner Francesco Parisi, principalmente per il prodotto caffè.
Per quanto riguarda la provincia di Gorizia viene segnalata la Kemica di Savogna d’Isonzo (fabbricazione di lastre, fogli, tubi e profilati in materie plastiche), mentre il resto se lo dividono Udine e Pordenone.
Tra le presenze con fatturato più alto, l’Eurocar Italia (383,2 milioni), localizzata a Udine, e la Bofrost (219,5 milioni), a San Vito al Tagliamento.
Lo studio ha rilevato a livello italiano 1.900 partecipate tedesche operanti in Italia, per un totale di 168.000 addetti e un fatturato complessivo che supera i 72 miliardi (con una crescita del 11% dal 2015 al 2017); la presenza imprenditoriale della Germania si concretizza così in un’incidenza pari al 2,5% sul fatturato totale nazionale.
A livello settoriale, le controllate tedesche in Italia si concentrano nella distribuzione (800 aziende, oltre 42 miliardi di fatturato, 63.000 addetti) e nel manifatturiero (oltre 400 aziende, 19 miliardi di fatturato, 51.000 addetti).
L’incidenza sul fatturato italiano della chimica è per questo pari al 9%, al 6,2% nel farmaceutico e al 4,8% nell’automotive, con una presenza di rilievo anche nella meccanica e nell’elettrotecnica.
A livello regionale, il 50% del fatturato delle aziende a controllo tedesco viene generato in Lombardia.
A seguire il Veneto, con una quota del 18%. «Si parla spesso in maniera critica del rapporto tra i due Paesi e per questo crediamo che sia importante portare all’attenzione dell’opinione pubblica alcuni numeri che, invece, mostrano come gli investimenti tedeschi in Italia si concretizzino in un ecosistema produttivo che genera valore e crescita per tutto il sistema, sottolinea Jörg Buck, consigliere delegato della Camera di Commercio Italo-Germanica». Le imprese tedesche – aggiunge Fabrizio Guelpa, responsabile Industry & Banking Research di Intesa – hanno portato in Italia a benefici anche superiori rispetto a quelli delle grandi multinazionali».



Il nuovo numero di Limes


lunedì 21 gennaio 2019

ORDOLIBERALISMO, TRIONFO E CRISI DELL’IDEOLOGIA TEDESCA - Un articolo fondamentale per capire la Germania odierna - Dall' ultimo numero di Limes -


Più che teoria economica, l’idea ordoliberale è il mito fondativo della Repubblica Federale. Coniugazione del marginalismo con la necessità dello Stato forte e di una società coesa, è assurto a cifra dell’Ue a leadership tedesca. Oggi mostra i suoi limiti.
di Lorenzo Mesini
I risultati elettorali non potevano cambiare la politica economica.
Wolfgang Schäuble (2016)

1. Chiunque intenda interrogarsi non solo sulle ragioni dei successi tedeschi ma anche sulla naturadella crisi che riguarda l’odierno assetto europeo non può fare a meno di riflettere sulla storia della Germania e sul suo rapporto con l’Europa a partire dal 1945.

Tra i diversi fattori che hanno contribuito a definire non solo l’assetto economico ma la stessa politica tedesca, l’ordoliberalismo è stato spesso trascurato nonostante abbia costituito il principale punto di riferimento per la cultura politica tedesca dal dopoguerra a oggi. La definizione del particolare modello economico tedesco dopo la seconda guerra mondiale (l’economia sociale di mercato) ha trovato infatti i suoi princìpi normativi nel pensiero ordoliberale.

Considerare l’ordoliberalismo come un semplice ramo all’interno della variegata tradizione liberaleoccidentale sarebbe alquanto riduttivo. Nel corso della storia tedesca successiva al 1945 l’ordoliberalismo ha costituito non solo la principale corrente di pensiero politico ed economico nella Repubblica Federale ma, insieme all’economia sociale di mercato, ha rappresentato il suo mito fondativo 2.

Elaborato per rispondere alla crisi del sistema economico mondiale dopo la Grande guerra e dopo la crisi del 1929, l’ordoliberalismo si è sviluppato con l’ambizione di garantire ordine e prosperità economica alla Germania. La sua ambizione originaria era quella di definire una «terza via» alternativa sia rispetto al liberalismo classico sia al socialismo.

La risposta ordoliberale alla crisi si incentrava sulla ripresa dei nuclei principali della tradizionemarginalista, per quanto riguarda la teoria economica, e sulla declinazione di un rapporto inedito tra Stato, società e mercato. In questo senso, l’ordoliberalismo ha costituito un ambizioso programma di ricerca interdisciplinare nell’ambito delle scienze sociali, che ha visto la partecipazione di un ampio numero di politici e studiosi, di economisti e giuristi, di sociologi e filosofi.

Tale programma ha trovato nella rivista Ordo, nata nel 1948, il principale e più illustre strumento di elaborazione e diffusione di idee e programmi 3. Il tratto di fondo che accomunava i suoi esponenti è l’essere pensatori dell’ordine: non del generico ordine politico o sociale (tema centrale ricorrente in tutto il pensiero politico moderno) ma dell’ordine virtuoso da instaurare tra Stato, mercato e società al fine di garantire libertà e prosperità.

L’ordine dell’economia ha costituito il tema e il problema di riferimento di tutto l’ordoliberalismo, le cui idee vennero elaborate e discusse soprattutto nel corso degli anni Trenta da un ampio gruppo di studiosi. Un ruolo di primo piano nella definizione delle idee ordoliberali venne svolto da economisti come Leonhard Miksch, Alexander Rüstow, Wilhelm Röpke, Walter Eucken e giuristi come Franz Böhm e Hans Grossmann-Dörth.

Intorno al programma di ricerca elaborato dagli ultimi tre si raccolse un ampio gruppo di lavoro che comprendeva allievi e colleghi, gruppo poi noto con il nome di Scuola di Friburgo. L’analisi ordoliberale si incentrava su una lettura delle cause che erano alla base della crisi del liberalismo pre-bellico, e insieme sulla proposta di un nuovo liberalismo che fosse in grado di coniugare efficienza economica e libertà dopo la crisi del 1929 e l’avvento del nazionalsocialismo.

Sia il comunismo sovietico, con la sua politica di pianificazione, sia il dirigismo nazista costituivano agli occhi degli ordoliberali due risposte scorrette alla crisi, nella misura in cui limitavano la concorrenza (o addirittura la abolivano) e sottraevano al mercato il compito di formare i prezzi.

Contrari sia al dirigismo economico sia al liberalismo classico, gli ordoliberali esprimevano nel dopoguerra l’esigenza di uno Stato forte, capace di garantire per via costituzionale un ordine basato sulla concorrenza contro le minacce rappresentare dai cartelli e dalle grandi concentrazioni monopolistiche.

Compito dello Stato non è solo tutelare un equilibrio economico ottimale, ma promuovere attivamente un mercato nazionale che si avvicini sempre più al regime di concorrenza perfetta. È al mercato concorrenziale che viene affidato il compito di generare il legame e l’inclusione sociale, attraverso la miglior distribuzione possibile delle risorse. L’ordine concorrenziale del mercato è tuttavia un ordine fragile.

Lo Stato deve occuparsi di istituirlo e promuoverlo, poiché non è qualcosa che esiste in natura o il risultato di un ordine spontaneo; contemporaneamente deve difenderlo e tutelarlo dalle molteplici minacce che ne compromettono il funzionamento e il perseguimento dell’equilibrio virtuoso.

Alla chiara ispirazione marginalista che alimenta il pensiero economico ordoliberale, si aggiungeva dunque una forte carica costruttivista, che poneva l’accento sulle funzioni e il ruolo indispensabile di forti istituzioni statali. Questo tratto rappresentava uno degli elementi innovativi dell’ordoliberalismo rispetto alla tradizione liberale classica e ne segnava la distanza rispetto al neoliberalismo austriaco di von Mises e von Hayek.

Con il termine «economia sociale di mercato» (Soziale Marktwirtschaft) coniato da Alfred Müller-Armack, uno dei più attivi consiglieri del ministero dell’Economia federale, si veniva a indicare dunque il modello specifico del capitalismo e della politica economica tedesca nel secondo dopoguerra.

Con «sociale» non si intendeva sottolineare il suo orientamento verso misure di welfare o di ridistribuzione della ricchezza, ma l’idea secondo cui il legame sociale stesso fosse il prodotto del funzionamento del mercato secondo concorrenza. L’inclusione sociale avviene in quest’ottica attraverso l’ingresso dei cittadini nell’ordine concorrenziale del mercato, non sottoponendo il mercato a finalità estrinseche di giustizia sociale.

Questa convinzione comportava non solo l’abbandono del dirigismo economico ma anche una forte diffidenza verso misure redistributive di matrice keynesiana o socialdemocratica. Solo mediante politiche conformi al mercato è possibile perseguire scopi sociali. Le prestazioni sociali, secondo quest’ottica, sono garantite dal funzionamento di un mercato ordinato, che obbedisce alle scelte dei consumatori e che tutela la concorrenza come condizione necessaria per il progresso tecnico e l’aumento della produttività.

Nell’ordoliberalismo sono dunque rintracciabili le coordinate normative che hanno definito l’assettodel capitalismo tedesco, come economia sociale di mercato, e insiemei princìpi di riferimento per la cultura politica ed economica tedesca della classe dirigente tedesca. Tuttavia la vocazione all’export, che ha caratterizzato sempre di più marcatamente il modello economico tedesco, non è direttamente deducibile dal pensiero ordoliberale, sebbene questo nel corso del tempo abbia sostenuto, se non favorito, una rinnovata e aggressiva forma di politica neo-mercantilista. Il mercantilismo rappresenta piuttosto un approccio pratico adottato dalle élite economiche e politiche tedesche nel governo dell’economia nazionale. Si tratta infatti di un approccio alla politica commerciale non specificamente tedesco, che pone l’accento sulla capacità dell’industria nazionale di affermarsi nella competizione sui mercati internazionali. Entro quest’ottica lo Stato diventa uno dei principali sostenitori della competitività delle imprese tedesche e dei loro interessi nella competizione internazionale.

Tra l’ordoliberalismo e il mercantilismo vi sono sia punti di contatto sia elementi divergenti che meritano di essere sottolineati. Entrambi sono favorevoli al libero commercio. Se per quanto riguarda le politiche a tutela della concorrenza gli ordoliberali propendono per la lotta contro i monopoli e la difesa delle piccole-medie imprese in vista del raggiungimento della «concorrenza perfetta», l’approccio mercantilista tende invece a tollerare (o a favorire) le concentrazioni di potere, se queste aiutano le imprese nazionali a diventare attori di rilievo nei mercati internazionali. In tema di politiche industriali gli ordoliberali respingono (almeno in linea di principio) l’intervento statale nel mercato, specie se a favore delle grandi imprese, mentre chi segue un approccio mercantilista è favorevole a politiche mirate a sostegno dell’offerta in favore della competitività dell’industria nazionale. In merito alla politica monetaria, l’ordoliberalismo sostiene una gestione della moneta che ne difenda la stabilità del valore (a tutela dell’efficienza allocativa del sistema dei prezzi), mentre il mercantilismo è favorevole a politiche monetarie deflattive, qualora producano una stretta sui salari nel breve termine. In generale, l’approccio mercantilista valuta la qualità dell’intervento e delle politiche statali in relazione alla capacità di aumentare le quote delle esportazioni sul pil e la competitività dell’industria nazionale nel conquistare nuovi e maggiori spazi nei mercati internazionali. Nonostante le non superficiali divergenze, la gestione della politica economica e internazionale tedesca ha sempre visto nei fatti una mescolanza pragmatica di princìpi ordoliberali e istanze mercantiliste, declinata secondo le necessità dell’industria nazionale e le
sfide dettate dall’evolversi dello scenario economico internazionale.


2. Quanto era tedesco l’ordoliberalismo? In che modo si poneva in rapporto con la tradizione culturale e politica tedesca? L’ordoliberalismo rappresenta una sintesi originale, frutto della rielaborazione di diversi elementi della cultura politico-giuridica tedesca con la teoria economica di matrice marginalista. A livello giuridico, è presente un forte influsso della tradizione cameralistica e dello «Stato di polizia» prussiano, tradizione che aveva fornito agli Stati tedeschi del Settecento la base per la costruzione di solidi sistemi amministrativi. Nella tradizione cameralistica vi era infatti la stessa ambizione ordoliberale di comporre in una sintesi ordinata elementi giuridici (scienza dell’amministrazione) ed economici (scienza della finanza). Ne emergeva l’idea di una società organica, che affondava le sue radici nella tradizione giusnaturalista diffusa nelle università tedesche tra Sei e Settecento. Anche nell’ordoliberalismo vi era l’idea che nessuna sfera che compone la società possa vantare un primato sulle altre e che ognuna di esse assuma significato solo all’interno dell’intero corpo sociale. Organicismo polemico verso quelle teorie che affermano il primato di una sfera particolare sulle altre: il primato della politica e dello Stato sulla società e sull’economia, oppure il primato dell’economia come elemento strutturale (marxismo).
Nella teoria sociale ordoliberale si ritrova inoltre la paura del conflitto e dei suoi possibili esiti rivoluzionari. Timore caratteristico di tutta la storia politica tedesca, a partire dallo scoppio della Rivoluzione francese e dalla politica di riforme illuminate inaugurata come risposta dall’assolutismo prussiano. L’ordoliberalismo esprimeva l’esigenza di una società adeguatamente regolata e amministrata, perché ne fossero smussate e neutralizzate le condizioni di conflittualità (derivanti prevalentemente dalla dialettica tra capitale e lavoro), perché fosse facilitato lo sviluppo delle logiche concorrenziali di mercato e ne fossero rimossi i potenziali ostacoli. L’ordoliberalismo riproponeva, insomma, l’idea di uno sviluppo e di un progresso graduali, regolati e pacifici, idea contraria a ogni lettura conflittuale della storia e della politica. Avanzava l’idea di un ordine necessario, indispensabile a garantire una convivenza pacifica al di fuori del quale ci sono solo diverse forme di caos e di conflitto.
L’organicismo ordoliberale ha tratto inoltre consistente ispirazione dalla tradizione cattolica. L’ordoliberalismo intende difendere, mediante strumenti costituzionali, i diritti individuali e dei corpi sociali contro la crescita del potere dello Stato moderno, visto come mostruoso Leviatano. E insieme condivide i principali assunti della dottrina sociale della Chiesa incentrata sul concetto di sussidiarietà, che vede lo Stato fondato non sulla razionalità utilitaristica degli individui ma su una pluralità di istituzioni sociali anteriori a essi (famiglia, comunità locali, corporazioni, istituzioni religiose). Anche il protestantesimo, per il suo contributo alla definizione di un profilo etico non utilitaristico, ha svolto un ruolo rilevante nella definizione dei princìpi ordoliberali.
Nel complesso vi era nell’ordoliberalismo postbellico la riproposizione, in chiave economica, dell’idea di un Sonderweg nazionale tedesco, di una via speciale da seguire per la ricostruzione della Germania rasa al suolo materialmente e moralmente, una via per la riabilitazione di un paese con un’identità da ridefinire dopo il dramma del nazismo. Sonderweg dai caratteri fondamentalmente nazionali (per quanto non dichiarati esplicitamente tali), l’ordoliberalismo venne sostenuto dalla tradizionale etica del lavoro tedesca e dal ceto politico cristiano-democratico, e perseguito al di là delle limitazioni e delle coazioni che gravavano sulla Germania per via della guerra fredda.

3. L’ordoliberalismo non ha rappresentato l’unico fattore determinante la politica della Repubblica Federale nei suoi primi decenni di esistenza. Collocata al centro delle logiche e degli interessi politici della guerra fredda, la sovranità tedesca era soggetta a forti limitazioni che ne limitavano a priori non solo il campo di azione, ma determinavano in larga parte la sintassi e la grammatica della sua presenza sullo scenario internazionale. Se la possibilità di condurre una politica di potenza era ovviamente preclusa alla Germania federale, l’economia sociale di mercato ha rappresentato tuttavia il mezzo migliore non solo per legittimare il nuovo Stato tedesco ma anche per garantire benessere e una crescita economica tale da fare rientrare la Germania al centro degli equilibri economici europei.
Inserita fino agli anni Settanta nel sistema economico occidentale a trazione statunitense (ordine di Bretton Woods) e di orientamento complessivamente keynesiano (espansivo e inflattivo), l’economia sociale di mercato ha permesso alla Germania di diventare una delle locomotive d’Europa, assicurandole la prosperità necessaria alla costruzione dello Stato sociale pur all’interno di un assetto industriale nazionale orientato all’esportazione e improntato alla moderazione salariale e al relativo contenimento dei consumi interni. Nel complesso, la crescita del pil tedesco fu trainata dalla crescita delle esportazioni sostenute da un insieme di politiche monetarie e fiscali restrittive e da una politica salariale volta a mantenere la crescita dei salari nominali inferiore alla media occidentale. Sul piano della politica interna, il Sonderweg tedesco nell’economia ha rappresentato la base su cui costruire e fare convergere il consenso delle diverse coalizioni politiche tedesche. Sul piano internazionale, invece, ha rappresentato la possibilità per la Germania federale di tornare a essere un attore legittimato e decisivo all’interno degli equilibri europei, diventando il motore d’Europa e improntando ai princìpi ordoliberali il processo di integrazione fino ai nostri giorni.
Entro i limiti citati, Ludwig Erhard, ministro federale per l’Economia durante il cancellierato di Adenauer, si impegnò a seguire i princìpi ordoliberali nella ricostruzione dell’economia tedesca. La creazione nel 1948 del Consiglio economico, composto in larga maggioranza da economisti ordoliberali, rappresentò uno dei primi passi verso l’affermazione dell’economia sociale di mercato. La CDU non ebbe grosse difficoltà ad adottare i princìpi ordoliberali, considerati i numerosi elementi in comune con la cultura politica cattolica. Con la stesura dei princìpi di Düsseldorf (Düsseldorfer Leitsätze), il 15 luglio 1949 la CDU sottolineò davanti all’opinione pubblica il valore programmatico dell’ordoliberalismo 4. Con l’obiettivo di garantire «benessere per tutti», Erhard si impegnò a coniugare i princìpi ordoliberali con le esigenze della ricostruzione tedesca 5. Nel complesso, le politiche ordoliberali del secondo dopoguerra si articolarono perseguendo tre obiettivi: a) regolazione dell’economia di mercato attraverso misure costituzionali; b) lotta severa ai monopoli; c) difesa, attraverso misure monetarie, del sistema dei prezzi (e di conseguenza la difesa della competitività delle esportazioni tedesche). La legge contro i monopoli del 1947, la riforma monetaria del 1948 e l’istituzione della Bundesbank nel 1957, sono tutte misure che, nonostante il deciso appoggio e contributo politico americano, dal punto di vista economico erano perfettamente compatibili con la dottrina ordoliberale. Si veniva così a garantire il decentramento del potere economico, a rivalutare la moneta, ad assicurare il sistema dei prezzi e con esso la concorrenza nel mercato.
L’adesione al Fondo monetario internazionale nel 1952 e l’ingresso nel sistema di cambi fissi di Bretton Woods nel 1953 contribuirono inoltre a inserire nuovamente il capitalismo tedesco nei mercati internazionali. Il sistema dei cambi fissi consentì una sistematica sottovalutazione del marco, che a sua volta sostenne la crescita delle esportazioni e l’accumulazione di riserve in dollari.
La legge contro i cartelli e i monopoli colpiva le grandi concentrazioni industriali che rappresentavano una delle caratteristiche di lungo periodo del capitalismo renano. La politica di Erhard venne ampiamente osteggiata, specialmente dalla BDI (Bundesverband der Deutschen Industrie), la Confindustria tedesca guidata dal presidente Fritz Berg. Ma il neonato quotidiano liberale Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), fondato nel 1949 e comunemente associato agli interessi conservatori dell’industria tedesca, sostenne attivamente l’operato di Erhard sotto la guida del suo primo direttore, Erich Welter, convinto sostenitore dei princìpi ordoliberali 6. La Frankfurter Allgemeine divenne gradualmente un importante e autorevole centro di diffusione dell’ordoliberalismo nella società tedesca, al di fuori dei circoli politici e accademici.
La riforma monetaria varata nel 1948 costituì un autentico pilastro della futura Repubblica Federale, la cui Legge fondamentale (Grundgesetz) venne approvata l’anno successivo (1949). Con tale riforma si sostituì la Reichsmark con la nuova Deutsche Mark, al fine di sottrarre dalla circolazione la quantità di moneta «in eccesso» e ristabilire il potere d’acquisto della nuova moneta, requisito fondamentale per affermare un adeguato standard monetario per gli scambi commerciali. Il debito pubblico del Reich venne svalutato da una riforma che ridusse il valore della Reichsmark a un quindicesimo del suo valore nominale. Il debito pubblico della neonata Repubblica Federale nel 1950 non superava così il 20% del pil 7. La nuova Bundesbank (che venne a sostituire la provvisoria Bank Deutscher Länder nata con la riforma del 1948) presentava invece caratteristiche tutte riconducibili ai princìpi ordoliberali e riassumibili nella sua indipendenza dal governo, per via del suo ruolo fondamentale di controllo della quantità di moneta in circolazione e, in ultima istanza, dell’inflazione.
Il controllo statale o alleato dell’economia non venne completamente superato dalle misure promosse da Erhard, poiché determinati settori (carbone, cemento, acciaio) rimasero per diversi anni ancora sotto controllo dell’amministrazione alleata. Le misure ordoliberali di Erhard tendevano, in ogni caso, a sovrapporsi il meno possibile alla politica di ricostruzione promossa dalle potenze occidentali che occupavano la Germania, politica che culminò nel 1947 con i consistenti aiuti offerti dal Piano Marshall. Non bisogna dimenticare, inoltre, altri due elementi radicati nella società tedesca con cui gli ordoliberali si dovettero confrontare: lo Stato sociale lasciato in eredità alla Germania non solo dal nazismo ma dalla Repubblica di Weimar e dallo stesso Bismarck, e la presenza di una classe operaia qualificata ed efficacemente organizzata. Se questi elementi ostacolarono una traduzione pura dei princìpi ordoliberali nella nuova realtà tedesca, non furono sufficienti a impedirne l’attuazione. Al di là del contrasto dottrinale con le diverse eredità della storia tedesca e, soprattutto, con l’interventismo economico del keynesismo postbellico in Occidente, la Repubblica Federale riuscì a porre le basi per lo sviluppo dell’economia sociale di mercato e a intraprendere uno stabile percorso di crescita che culminò negli anni del trionfo del fordismo, quando Erhard stesso venne eletto cancelliere (1963). La crescita tedesca poneva le basi per il rinnovato impegno politico del paese nel nuovo contesto europeo.
Il ruolo svolto dall’ordoliberalismo nel definire le coordinate del processo di integrazione europea non deve essere trascurato. Processo che in quegli anni portava a termine importanti tappe del suo percorso, come la nascita nel 1957 della Comunità Economica Europea con la firma del Trattato di Roma. Nei confronti dell’approccio neo-funzionalista elaborato da Jean Monnet, gli ordoliberali tedeschi nutrirono inizialmente forti dubbi 8. Erhard diede una valutazione negativa del Piano Schuman sul carbone e l’acciaio, quando questo venne presentato a Adenauer. Vi si leggeva un tentativo di estendere a livello europeo una forma tipicamente francese di dirigismo economico, scorgendovi i rischi connessi a una futura pianificazione dell’economia europea: proprio quello che l’ordoliberalismo criticava e si adoperava accuratamente di evitare. Al suo interno il governo tedesco era diviso tra chi sosteneva posizioni federaliste, favorevoli a un processo di integrazione non solo economica ma anche politica, e chi si richiamava nettamente ai princìpi ordoliberali e rifiutava l’ipotesi di integrazione politica dei federalisti, sostenendo solo la nascita di un mercato europeo integrato nella rete degli scambi commerciali internazionali. I primi contavano tra le proprie file il ministro delle Finanze Franz Etzel, mentre tra i secondi giocò un ruolo importante Alfred Müller-Armack, consulente dal 1952 di Erhard e dal 1958 sottosegretario per gli Affari europei. Nel 1955 si raggiunse un compromesso tra queste due linee presenti nel governo tedesco. Si coniugò infatti l’idea ordoliberale della creazione di un mercato comune di libero scambio con quella di istituire solo determinate aree di collaborazione, insieme a un fondo comune per gli investimenti. Nel 1957, con la firma del Trattato di Roma, se i federalisti europei ottennero la pur rilevante istituzione di politiche comuni (come quelle agricole), gli ordoliberali conseguirono un obiettivo che si sarebbe rivelato ben più importante sul piano strategico: l’integrazione orizzontale di un mercato comune incentrato sul principio di concorrenza e la libera circolazione di merci, persone, servizi, capitali 9.

4. Parallelamente all’approfondimento del processo di integrazione europeo, è avvenuta la ridefinizione dell’assetto dell’economia tedesca in relazione alle nuove esigenze dettate dal nuovo scenario economico internazionale. Gli anni Novanta hanno rappresentato un periodo di transizione, oltre che di crisi, per l’economia sociale di mercato. Dopo la riunificazione del paese, la rivalutazione del marco fu infatti accompagnata dalla crescita sostenuta della disoccupazione (giunta quasi al 12% nel 2005) e da una timida crescita del pil (con un tasso medio dell’1,3% tra il 1995 e il 2005). Sul versante interno la Germania unita si trovò dunque a fare i conti con gli squilibri socio-economici derivanti dalle modalità con cui la riunificazione venne condotta; sul versante esterno, invece, l’economia tedesca si trovò inserita nella globalizzazione, affermatasi definitivamente con la fine della guerra fredda e preparata dalla svolta neoliberista delle principali economie occidentali. Nel complesso, la gestione degli equilibri interni al paese e della politica economica in chiave strettamente ordoliberale ha lasciato gradualmente il posto negli ultimi vent’anni a un pragmatico mix di politiche neoliberali (più in linea con il mainstream economico anglosassone negli anni del Washington Consensus) e di misure neomercantiliste più adeguate a sostenere l’industria nazionale nell’ambito della globalizzazione. Oltre a sostenere l’affermazione del primato industriale della Germania nello scenario europeo (primato che ha reso la Germania un attore di primo piano nello scenario geoeconomico mondiale, in posizione oggettivamente avversa agli Usa), questa combinazione di neoliberalismo e mercantilismo ha finito per aggravare gli squilibri socio-economici già presenti tra i diversi paesi europei. La crescita economica tedesca trainata dalla combinazione di crescenti esportazioni nette, moderazione salariale e contenimento della domanda interna, non ha rappresentato infatti un processo equilibrato, né sul versante interno né su quello europeo. L’accumulazione di consistenti surplus commerciali non si è infatti tradotta in un aumento degli investimenti in Germania, così come l’aumento della produttività del lavoro non si è tradotto in un corrispondente aumento dei salari. Le retribuzioni per addetto tra il 1996 e il 2016 sono cresciute dell’1,7% l’anno, contro la media Ocse del 3%. La quota di risparmio nazionale rispetto al pil è passata dal 22% del 1998-2002 al 28% nel 2007, mentre la quota di investimenti fissi è rimasta attorno al 19% del pil 10. La moderazione salariale e gli scarsi investimenti hanno compresso la domanda interna, che a sua volta ha limitato la domanda tedesca di prodotti e servizi provenienti dagli altri paesi europei.

5. Non più inserito all’interno del sistema di Bretton Woods e del contesto bipolare della guerra fredda, l’ordoliberalismo ha finito per identificarsi sempre meno con il Sonderweg tedesco degli anni della ricostruzione per fornire invece i princìpi su cui si fonda l’Unione Europea, con le sue regole di controllo e governo del mercato comune e della zona euro. Da principio ordinatore interno alla Germania, l’ordoliberalismo si è trasformato in un insieme di vincoli europei e princìpi di governance di fatto funzionali all’affermazione degli interessi dell’economia nazionale tedesca trainata dalle esportazioni. Vincoli che comportano l’imposizione di austerità e deflazione salariale ai paesi europei indebitati, da cui in ogni caso dipendono buona parte delle stesse esportazioni tedesche. E così, oltre a garantire l’ordine necessario allo sviluppo economico europeo, l’ordoliberalismo resta uno dei principali elementi a tutela degli interessi geoeconomici e neomercantilisti della Germania, un insieme di regole e tecniche di controllo del mercato e della moneta comune che fino a oggi ha di fatto ostacolato la risoluzione della crisi dell’assetto europeo.
Con l’inizio del quarto ma già accidentato mandato di Angela Merkel nel panorama politico tedesco nessuna forza politica appare seriamente interessata a mettere esplicitamente in discussione i princìpi ordoliberali su cui si fondano le istituzioni e la governance economica dell’Unione Europea, tanto meno la costituzione economica della Germania. La stessa Alternative für Deutschland, al di là dei toni minacciosi e illiberali del suo programma, non sembra mostrare alcun reale interesse a modificare quelle regole e quegli assetti che costituiscono di fatto uno dei principali vettori di affermazione dei forti interessi geoeconomici tedeschi. Sebbene i princìpi ordoliberali classici siano stati gradualmente sostituiti nella conduzione della politica economica e commerciale da un insieme di più generiche misure neoliberali e mercantiliste a sostegno dell’economia nazionale, l’ordoliberalismo continua tutt’ora a mantenere un alto valore simbolico nell’immaginario collettivo e nell’élite tedesca. Padre del «miracolo economico» postbellico, l’ordoliberalismo ha resistito alla crisi come uno, se non il principale, dei miti fondativi della Germania federale.
Il valore mitico dell’ordoliberalismo non è stato nemmeno scalfito dalla prospettiva di un’imminente Merkel-Dämmerung e dalla crisi più generale dei tradizionali partiti conservatori, accusati di aver intrapreso una pericolosa deriva di sinistra che li avrebbe allontanati da ampi segmenti del proprio elettorato. Con l’esigenza di ripensare l’agenda e l’identità conservatrice tedesca in relazione ai mutamenti del quadro politico nazionale e internazionale, si è giunti a riproporre le virtù del modello ordoliberale. Alexander Dobrindt, capogruppo della CDU/CSU al Bundestag ed ex ministro dei Trasporti (2013-17), ha affermato l’esigenza di una svolta politica «conservatrice e borghese», evocando esplicitamente lo spettro weimariano della Rivoluzione conservatrice 11. Per difendere i tradizionali valori cristiani e il tessuto della società tedesca, Dobrindt ha ribadito l’importanza di uno «Stato forte» capace di occupare una posizione autonoma sia rispetto alla destra nazionalista sia rispetto ai diversi soggetti politici di sinistra. Se nel 1932 lo «Stato forte» aveva rappresentato per i fondatori dell’ordoliberalismo (specialmente per Alexander Rüstow e Walter Eucken) la chiave di volta di una possibile strategia per superare la crisi finale di Weimar, oggi lo «Stato forte» viene rievocato come baricentro, istanza ordinatrice della società tedesca e difensore dei suoi valori borghesi e conservatori. Insomma, la figura politica centrale del pensiero ordoliberale, lo «Stato forte», è rientrata nuovamente in scena come principale candidato a garantire libertà, sicurezza e stabilità per tutta la Germania.
La resistenza del modello ordoliberale non deve tuttavia essere intesa come un segno di forza della classe dirigente tedesca e della sua cultura politica. La semplice e lineare riproposizione dell’ordoliberalismo da parte dei conservatori tedeschi rischia infatti di ridursi a un esercizio nostalgico o velleitario e, soprattutto, di risultare inadeguato davanti alle sfide del presente. I mutamenti e le esigenze che la Germania e l’Europa oggi devono affrontare non sono quelle dell’èra Adenauer e tantomeno quelle degli anni Trenta, quando nacque l’ordoliberalismo, al di là delle analogie che schiere di giornalisti e commentatori politici a digiuno di buoni libri di storia credono di trovare con il presente. Come ha osservato recentemente Georg Diez su Foreign Affairs, la crisi dei conservatori tedeschi non riguarda solo il crepuscolo di Angela Merkel e la gestione della sua eredità politica ma più in generale il venir meno della capacità di direzione geopolitica dell’Ueda parte del paese più forte d’Europa 12. Messa in discussione dall’ascesa aggressiva di una nuova destra, la crisi dell’identità e dell’agenda politica conservatrice rischia di aprire un pericoloso vuoto geopolitico nel cuore dell’Europa, proprio nel momento in cui questa si trova ad affrontare sfide inedite e sente l’esigenza di profonde riforme.
La crisi tedesca finisce inevitabilmente per interessare tutto il continente. L’assenza di una visione strategica circa il futuro della Germania nell’attuale contesto non potrà tuttavia essere colmata con la semplice riproposizione delle doti miracolose dell’ordoliberalismo e delle sue politiche di austerità. Ridefinire la propria identità non significa solo capire chi si vuole essere ma anche cosa si vuole fare concretamente. I conservatori tedeschi oggi devono affrontare questa decisione. Decisione al cui onere è impossibile sottrarsi. Anche una mancata scelta rappresenterebbe infatti un’opzione precisa: la prosecuzione e la difesa dello status quo, con tutti i rischi e i problemi a esso connessi. Una scelta che potrebbe costare cara all’Europa del futuro.

Note:
1. Cfr. A. Tooze, Lo schianto. 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo, Milano 2018, Mondadori, pp. 574-575.
2. Cfr. D. Haselbach, Autoritärer Liberalismus und soziale Marktwirtschaft: Gesellschaft und Politik im Ordoliberalismus, Baden-Baden 1991, Nomos; R. Ptak, Vom Ordoliberalismus zur sozialen-Mark­t­wirtschaft. Stationen des Neoliberalismus in Deutschland, Wiesbaden 2004, Springer Fachmedien.
3. La rivista Ordo è tutt’ora in vita e i suoi indici sono consultabili online fino al 1998 su goo.gl/BQJGx5
4. Il testo dei Düsseldorfer Leitsätze über Wirtschaftspolitik, Landwirtschaftspolitik, Sozialpolitik, Wohnungsbau è consultabile sul sito della Konrad Adenauer Stiftung, goo.gl/vaGr1d
5. L. Erhard, Wohlstand für alle, Düsseldorf 1957, Econ-Verlag; tr. it. parziale a cura di G. Gentili, Benessere per tutti, Milano 1957, Garzanti.
6. Sulla vicenda si rimanda a goo.gl/rKeirU
7. Cfr. A. Bolaffi, P. Ciocca, Germania/Europa. Due punti di vista sulle opportunità e i rischi dell’egemonia tedesca, Roma 2017, Donzelli, p. 175.
8. Sulla vicenda si vedano A. Wilkens (a cura di), Interessen Verbinden. Jean Monnet und die europäische Integration der Bundesrepublik Deutschlands, Bonn 1999, Bouvier Verlag, pp. 73-140; G. D’Ottavio, L’Europa dei tedeschi. La Repubblica Federale di Germania e l’integrazione europea (1949-1966), Bologna 2012, Il Mulino.
9. Come sostenne Erhard in occasione della conferenza di Messina nel 1955, i soli organi comunitari avrebbero dovuto svolgere esclusivamente funzioni di sorveglianza e garanzia del principio di concorrenza e della libertà all’interno del mercato comune. Cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Roma 2013, DeriveApprodi, p. 359.
10. Cfr. A. Bolaffi, P. Ciocca, op. cit., p. 166.
11. Cfr. goo.gl/Xgbza7. Sulla Rivoluzione conservatrice negli anni di Weimar si rimanda al classico S. Breuer, La rivoluzione conservatrice. Il pensiero della Destra nella Germania di Weimar, Roma 1996, Donzelli.

Pubblicato sul numero di Limes di gennaio 2019: "Essere Germania"

domenica 13 gennaio 2019

OCCIDENTE ADDIO: LA RUSSIA HA SCELTO LA CINA - Conversazione con Sergej Karaganov, presidente del Consiglio di difesa e politica estera russo e preside della School of International Economics and Foreign Affairs presso la National Research University di Mosca - Da Limes on Line a cura di Orietta Moscatelli un articolo da meditare anche per il futuro di Trieste da sempre snodo stra Oriente ed Europa -


Conversazione con Sergej Karaganov, presidente del Consiglio di difesa e politica estera russo e preside della School of International Economics and Foreign Affairs presso la National Research University-Higher School of Economics di Mosca.
a cura di 


LIMESOggi in Russia si parla di svolta verso est come fatto compiuto. È davvero così?
KARAGANOV Tutto è cominciato dieci anni fa. In realtà se ne parlava anche prima, ma l’inizio della fase attuale, che vede concretizzata la svolta verso est della Russia, risale al 2008, quando una serie di studi dimostrò che reindirizzarci verso oriente sarebbe convenuto molto alla Russia. E che non bisognava perdere tempo, eravamo già in ritardo rispetto alla possibilità di imporci, riorganizzarsi su un’arena internazionale del tutto nuova e molto più proficua. Non è stato facile far assimilare questo concetto alla nostra burocrazia, alla nostra élite, in buona parte orientata verso l’Europa. Lo era stata per tre secoli. Inoltre, al di là dell’approccio storico, negli anni Novanta la classe dirigente era diventata molto più dipendente dal punto di vista economico e anche spirituale dall’Europa. Non solo erano stati esportati capitali in Europa, ma l’élite aveva puntato sull’Europa, sull’avvicinamento all’Europa: una scommessa che si era rivelata fallimentare, ma era difficile ammetterlo.

LIMES Quando inizia, concretamente, la svolta verso est?
KARAGANOV Nel 2011, quando Putin inizia a parlarne pubblicamente. Già nel 2012-13 c’è un movimento in questo senso, viene creato un ministero per lo Sviluppo del lontano Oriente (Minvostokrazvitija). Il ragionamento alla base di questo «movimento verso est» riguardava i nuovi mercati su cui posizionarsi e implicava lanciare un processo di sviluppo della Siberia e del lontano Oriente, regioni che più di tutte avevano sofferto negli anni Novanta. Questo mentre si stava capendo che l’Europa era in stagnazione e non poteva alimentare sviluppo. Una presa di coscienza associata peraltro al sospetto che sul versante occidentale sarebbero sorti problemi. Le complicazioni politiche arrivarono dopo, come elemento di second’ordine, anche di terzo, nel senso che il percorso verso oriente della Russia assunse carattere geopolitico solo nel 2013, quando fu chiaro che le relazioni con l’Occidente stavano seriamente peggiorando. Fatte queste premesse, possiamo dire che il movimento verso est ottiene nel 2014 un forte impulso, si rafforza nella dimensione sia geopolitica sia economica con l’arrivo delle sanzioni occidentali e delle relative controsanzioni russe. Tutti fattori che si traducono in una spinta verso altri mercati, esteri e interni. Quattro anni dopo la svolta è compiuta, ma allo stesso tempo il processo è ancora in corso.

LIMES Lei sostiene che la Russia è un paese geneticamente autoritario. Quanto ha pesato questo aspetto nella presa di distanza dall’Europa?
KARAGANOV Affermare che la Russia ha l’autoritarismo nei suoi geni non significa che la Russia abbia una vocazione di potenza autoritaria, che questo paese abbia una natura del tutto autoritaria. Anzi, ci sono forti elementi di democrazia nello sviluppo istituzionale russo, anche nella politica attuale. Possiamo dire che siamo più autoritari perché un territorio come quello della Federazione Russa prima è stato frutto di conquiste, poi è diventato necessario conservarlo, cosa che ha richiesto in passato una gestione centralizzata, necessaria ancora oggi, anche se in minor misura. La tendenza autoritaria del potere russo si è rafforzata dal 2012-13 e in buona misura questo è accaduto perché i nostri vicini di casa europei hanno deciso di darsi al messianismo, hanno cominciato a promuovere in Russia valori morali e religiosi che io definirei posteuropei o anche antieuropei. Solo che la Russia è un paese europeo e noi ci siamo ritrovati a difendere valori europei, mentre gli amici europei facevano pressioni per valori che noi non consideravamo affatto europei. Si è aggiunto quindi un fattore ideologico a contribuire all’allontanamento.
LIMES Il riposizionamento verso oriente è stato dunque una scelta obbligata?
KARAGANOV No, nessuna scelta obbligata. È stato concepito quando i rapporti con l’Occidente erano del tutto difendibili. Pietro il Grande aveva puntato praticamente tutto sullo sviluppo di un percorso europeo per il suo paese, mentre oggi non ci sono illusioni in questo senso. La Russia non è Asia, ma non è neppure Europa. È un paese con molti elementi di cultura europea, vicina a modelli economici di tipo europeo, ma in parte ha una mentalità asiatica e un atteggiamento asiatico verso il potere. Io gli orientali cerco di capirli, ma non li capisco, soprattutto la Cina: ci servirebbero eserciti di orientalisti. In generale si tratta di culture davvero differenti dalla nostra e dico «nostra» perché io sono di cultura europea. Anche se, di nuovo, nella cultura russa ci sono comunque elementi asiatici. Tuttavia, in Oriente vedo il futuro. È molto semplice. Lì tutto è in movimento, tutto cresce e quando torni a casa in Europa ti sembra di essere tornato nella tua vecchia casa abbandonata, in rovina. Ma una casa bellissima. L’Oriente oggi è più pragmatico, meno legato a dogmi e, per quanto possa sembrare strano, ha un atteggiamento molto più aperto e liberale nei confronti dei partner. In Asia sono molto meno inclini a utilizzare le sanzioni per scopi politici. A ovest invece si fa un crescente uso di sanzioni, non solo contro la Russia. L’Occidente ha perso la capacità di prevalere in modo militare e le sanzioni hanno preso il posto di questa opzione.

LIMES Cosa risponde a chi sostiene che se la Russia un giorno verrà attaccata da qualcuno quel qualcuno sarà la Cina?
KARAGANOV Stupidaggini, assolutamente. Negli ultimi cinque secoli noi siamo sempre stati attaccati da ovest, e ci siamo abituati. Se vogliamo tracciare prospettive di lungo corso, certo, tutto è possibile, ma è per questo che la Russia sviluppa Forze armate potenti, semplicemente perché a nessuno venga in mente di aggredirci. Non c’è comunque nulla di simile all’orizzonte, proprio no. Poi, chi ricorda la dominazione mongola per evocare spettri nel futuro non si rende conto che l’Orda ha funzionato da vaccino storico, contribuendo a formare il carattere nazionale e la tradizione politica della Russia. Penso che proprio quei due secoli e mezzo di semidipendenza siano alla base dell’aspirazione russa – così chiara, così forte – alla propria sovranità. Forse proprio per questo in seguito noi siamo stati in grado di sconfiggere tutti i conquistatori europei. Purtroppo in Occidente non hanno mai compreso e non hanno tentato di comprendere la nostra genetica aspirazione alla sovranità, alla libertà di scegliere.

LIMES E come commenta la teoria di un futuro, inevitabile avvicinamento tra Russia e Usa in funzione anticinese?
KARAGANOV È il sogno degli americani e dell’entourage di Trump, ma non siamo stupidi: tra dieci anni, se la Cina si comporterà da potenza egemonica, si uniranno tutti e anche noi ci mobiliteremo per bilanciare, se servirà pure in modo radicale, includendo l’India, la Turchia, potenze regionali. Ora c’è un’azione soft di bilanciamento, diciamo un bilanciamento amichevole. Chi pensa che gli Usa possano prendere il posto della Cina nel rapporto con la Russia di geopolitica non capisce proprio nulla. Gli Usa si stanno ripiegando su sé stessi, noi con la Cina abbiamo più di 4 mila chilometri di confine. E dovremmo litigare con la Cina per amore degli Usa? Certo, molto dipende dalla politica cinese: se cercherà di porsi come forza egemone, nella tradizione dell’Impero del Centro, allora un qualche tipo di avvicinamento con l’Occidente è ipotizzabile. Forse per altre vie. Nel senso che gli Usa tra sette, dieci anni si renderanno conto di avere perso lo status di potenza egemonica, nonché il primato militare. Questo li farà molto allarmare. E forse riusciranno a risolvere i loro problemi interni, quelli che li hanno portati a gonfiare questa idea di minaccia russa. Magari diventeranno un paese più normale. Forse non saremo mai amici, ma una collaborazione costruttiva è possibile. Noi lo vogliamo, anche in questo momento. Pensiamo che relazioni come quelle attuali non facciano i nostri interessi, siano negative. Anche con l’Europa nel tempo vogliamo arrivare a un altro tipo di relazioni, ma a tal fine anche l’Europa deve passare attraverso una sua fase rivoluzionaria e diventare più realista. L’Europa deve capire che i valori sono una grande cosa, ma che molti di questi valori promossi dall’élite europea in parte dell’Europa vengono percepiti con orrore.

LIMES Il partenariato tra Russia e Cina può evolvere verso una vera e propria alleanza?
KARAGANOV Tra Cina e Russia al momento c’è un’alleanza de facto, non de iure. La politica russa sta introiettando questo fatto, come fattore politico ed economico. E credo di poter dire che i cinesi fanno anche più affidamento su di noi, in particolare per quanto concerne la sicurezza. Ma un’alleanza de iure non è possibile, perché né Russia né Cina possono accettare un criterio di parità. Questo aspetto è forte in Cina, che si nutre di una sua specifica cultura, e per la Russia è fondante l’aspirazione alla sovranità: impossibile concedere a chicchessia il diritto di dare disposizioni su base paritaria. Invece il partenariato con la Cina si fonda su una relazione di complementarità, basata sul dinamismo economico cinese e sulla potenza militare di un paese che certo è più piccolo e ha una popolazione molto meno significativa di quella dell’Urss, ma d’altra parte non ha più il fardello delle altre repubbliche sovietiche e dei satelliti socialisti da finanziare. Ora la Russia può permettersi di avere un esercito di dimensioni ridotte ma efficiente, con un quinto della spesa rispetto ai tempi sovietici. Lo abbiamo visto in Siria.

LIMES Cosa prevede per le relazioni con l’Europa, con l’Occidente?
KARAGANOV Credo che la Russia rafforzerà la sua posizione nei confronti dell’Occidente, cosa peraltro in parte già avvenuta. Per 10-15 anni l’Occidente, l’Europa ci hanno guardati come l’allievo difficile, ora il rapporto si è invertito. È un bel problema. I russi si comportano con gli europei come si fa con l’ultimo della classe: quando dice qualcosa al massimo si può ridere, non certo ascoltarlo. I rapporti sono cambiati davvero, in modo radicale. L’Occidente ha commesso un errore strategico all’inizio degli anni Novanta, quando ha deciso di non integrare la Russia, che in quel momento era pronta a entrare nella squadra europea, come parte che avrebbe conservato la sua sovranità. Se l’Occidente avesse acconsentito, oggi il mondo sarebbe diverso. L’Occidente non avrebbe perso la superiorità militare, base della sua potenza in passato. Ma sembra che questo sia un esito definitivo, non c’è via di ritorno.
Tuttavia, in linea di massima noi mettiamo in conto che una volta completata la svolta a est potremo tornare a volgere lo sguardo a occidente. Proprio su questo si basa il concetto della Grande Eurasia, che la Russia appoggia. Una concezione che ingloba anche l’Europa, tramite la creazione di un grande spazio unico, economico e di sicurezza, non più da Lisbona a Vladivostok, ma da Shanghai e Giacarta a Lisbona.
Tutto cambierà, anche la Russia cambierà e credo ci sarà un’evoluzione democratica. Quindi, probabilmente, tra 10-15 anni ci incontreremo di nuovo con l’Europa, solo che l’Europa non sarà più quell’area di democrazia che è stata negli ultimi decenni. L’Europa che ha vissuto sul guanciale della sicurezza fornita dagli Usa e dall’Urss pensava che le cose sarebbero continuate così per sempre e invece si ritroverà a dover competere in un contesto in cui l’Occidente non è più egemonico. Dovrà gestirsi in modo diverso. E vi dirò: molti europei di spicco con cui ho parlato sono assolutamente d’accordo con me.

LIMES Come sarà, secondo lei, il mondo tra dieci anni?
KARAGANOV Sono pressoché certo che tra dieci anni nel mondo ci saranno due centri economico-geopolitici: la Grande America e la Grande Eurasia. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’emergere di un centro geoeconomico in Eurasia, sullo sfondo della nuova guerra fredda. Un centro che si sta strutturando attorno a Russia e Cina e che non va visto come una semplice alleanza difensiva, ma piuttosto come un nuovo polo di sviluppo che vuole e può diventare un’alternativa al centro euroatlantico. Per la Russia è inevitabile ritagliarsi il proprio spazio nella grande Eurasia. Al cui centro, certamente, ci sarà la Cina.