lunedì 16 luglio 2018

PERCHÉ LA FRANCIA ATTACCA FINCANTIERI - Le diverse sensibilità di Macron e Salvini non c’entrano nulla. Un articolo di Alessandrfo Aresu per LimesOnLine


Perché la Francia attacca Fincantieri
Il ruolo dell’azienda cantieristica resta al centro delle tensioni tra Roma e Parigi. Le diverse sensibilità di Macron e Salvini non c’entrano nulla.

Nel dibattito per le elezioni presidenziali francesi del 2017, mentre Marine Le Pen lo incalzava con l’accusa di “aver venduto i cantieri dell’Atlantico agli italiani”, Emmanuel Macron rispondeva dichiarandosi estraneo all’operazione e promettendo di difendere in ogni modo gli interessi di Parigi

Il principio pacta sunt servanda, nella prospettiva transalpina, è ovviamente subordinato rispetto alla strategia. Le azioni successive del 2017 hanno confermato la volontà francese di ottenere un accordo in grado di mettere in difficoltà – nel concreto, in minoranza – gli italiani, sgraditi in quanto avversari geopolitici rispetto ai precedenti proprietari coreani finiti in bancarotta. Si spiegano così le notizie, riportate da La Tribune  e amplificate dalla stampa italiana, sui dossier elaborati contro Fincantieri da Adit, società di intelligence economica partecipata dallo Stato francese.

Gli obiettivi ultimi della condotta di Parigi vanno al di là delle diverse sensibilità tra Macron e Salvini.

La strategia per rendere l’Italia subordinata, pur partendo da una posizione di svantaggio, poggia su tre presupposti. Il primo e cruciale elemento è il lungo termine, esplicito nell’accordo: la quota dell’1% in prestito dallo Stato francese che garantisce la maggioranza assoluta di Stx a Fincantieri potrà essere restituita nel 2029 e richiede la verifica di adempimenti nel corso del tempo. In questo monitoraggio, la storica instabilità e litigiosità italiana andrà raffrontata alla forza delle istituzioni francesi.   

Il secondo punto riguarda lo sviluppo della difesa europea: nel corso dei prossimi anni, l’obiettivo francese è inserire l’operazione nel calderone complessivo di questa partita, dove la supremazia militare e nucleare possano garantire il comando di Parigi, salvo improbabili (e sgradite a Washington) fughe della Germania dalla dimensione post-storica in cui abita. A ciò potrà affiancarsi in futuro una mossa francese su Leonardo, in particolare in caso di instabilità di un gruppo che non ha ancora trovato una sua chiara identità.  Il terzo punto, implicito nella prospettiva decennale, è che i francesi non avranno a che fare con Giuseppe Bono per tutta la durata dell’accordo.

Bono, in Fincantieri dal 2002, rappresenta un’eredità positiva della grande impresa partecipata dallo Stato. Si tratta di quell’autonomia manageriale che ha costruito capacità di lungo corso, attraverso mandati molto lunghi in grado di rispondere a un mercato in rapida evoluzione (si pensi, nel suo settore, proprio alla Corea del Sud e alla Cina) al riparo dalla volatilità politica. Nel caso di Telecom, la polverizzazione della nidiata di manager di Ernesto Pascale, figura centrale per la storia delle comunicazioni in Europa e purtroppo dimenticata, è stata una delle cause del declino. Nel caso di Eni ed Enel, parte del successo sta proprio nella capacità di costruire classe dirigente e di realizzare successioni interne. Senza queste caratteristiche essenziali, una grande impresa non può funzionare in uno scacchiere geopolitico.

L’Italia, non avendo una produzione formale di riserve e leve manageriali, corre sempre il rischio di cadere su questo punto e così di indebolire l’interesse nazionale. Secondo Giulio Sapelli, “Giuseppe Bono fa paura ai francesi”; perciò viene attaccato, in termini strumentali e personali. Bono ha lavorato bene, anche grazie a scelte lungimiranti delle istituzioni come la legge navale, per costruire un’azienda italiana scomoda perché “predatore e non preda”. In ogni caso, questo manager di lungo corso non guiderà il gruppo fino al 2029.

La prova del nove dell’interesse nazionale italiano sarà quindi l’unità di intenti in questi anni decisivi, al di là del colore politico, tanto nel presidio delle commesse quanto nella difesa del lavoro di Bono e della sua squadra.


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