lunedì 11 giugno 2018

IL G7 DI TRUMP E LO "SCO" DI PUTIN E XI - due articoli di Limes On Line



1) IL G7 DI TRUMP
Descritto come ennesima riprova dell’irrazionalità di Donald Trump, il mancato sostegno degli Usa al comunicato finale del vertice del G7 in Canada ha una sua lucidità strategica.

L’attuale presidente degli Stati Uniti è impegnato nella battaglia che definirà – assieme a quella assai più ardua sul nucleare nordcoreano in scena in queste ore a Singapore – il suo mandato: riequilibrare il deficit commerciale, su cui verrà giudicato dall’elettorato più prostrato dai costi della globalizzazione.

Benché funzionale a farsi rieleggere, la campagna di Trump non incontra l’aperto sfavore della burocrazia federale – depositaria del compito di mantenere l’impero – poiché complementare a due obiettivi di Washington: arginare i rivali e rimarcare la subalternità degli alleati.

Così i dazi alla Cina servono a rallentare la strategia di quest’ultima di colmare il divario tecnologicoche la separa dalla superpotenza (e sono comunque subordinati all’andamento del dossier nordcoreano). Così le sferzate alla Germania ricordano a Berlino dell’impossibilità di rafforzare la sovranità tedesca sullo spazio europeo. E così quelle al Messico sono spia, non causa, di un allargamento della faglia del Rio Grande dalle radici demografico-strategiche. Nella certezza che con una nazione sorella come il Canadaniente possa essere davvero compromesso nello spazio di una presidenza.

Gli altri partecipanti al G7 della discordia – Angela Merkel su tutti – hanno ormai preso coscienza del fatto che Trump non recita, ma spinge le proprie intemperanze fin nelle discussioni private. Difficile però per gli europei immaginare grosse alternative a rispondere per le rime (contro-dazi), lanciare iniziative cosmetiche (quelle sulla Difesa comune), quando non proprio sottostare alla volontà di Washington per inferiorità di mezzi e incapacità di stabilire il tono del dibattito (vedi il confronto con l’Iran).

La disillusione degli alleati alimenta tuttavia un processo già in corso prima dell’avvento di Trump ma che l’ascesa di quest’ultimo ha accelerato: la decrescente capacità di Washington di porsi naturalmente alla guida di un consistente blocco di nazioni, con l’aspirazione a esserlo del mondo intero.

A rifletterlo è un passaggio del comunicato finale del G7. In cui si parla di “un sistema internazionale basato sulle regole”, non “il sistema” usato di consueto. Tentativo estremo di tedeschi e giapponesi di ottenere la firma degli Stati Uniti, la mutazione linguistica (parziale: l’articolo indeterminativo ricorre due volte nel testo, al pari di quello determinativo) ne riflette una strategica.

L’America non aspira più a essere il sistema, proposito da realizzare con il mero soft power (Clinton) o da imporre con la forza (Bush junior). Gli ultimi – e assai peculiari per la tradizione statunitense – esemplari passati per la Casa Bianca hanno proposto un’America normale, che fa parte del sistema (Obama) o ne ammette una pluralità, con cui negoziare in base ai rapporti di forza (Trump).

Con ciò palesando che se l’impero degli Stati Uniti ha ancora lunga vita, soprattutto per mancanza di autentici concorrenti, la stessa diagnosi non può esser data per certa per l’egemonia americana.

LA CINA DELLA SCO 
di Giorgio Cuscito
Durante il summit dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Qingdao, 9-10 giugno), Xi Jinping ha rinvigorito solo parzialmente il soft power della Cina in Eurasia.
Durante l’evento svoltosi in contemporanea con il G7 canadese, Xi ha enfatizzato la sintonia con la Russia di Vladimir Putin, cui ha consegnato la prima medaglia dell’amicizia della Repubblica Popolare. Il loro viaggio in treno da Pechino a Tianjin è servito a sottolineare l’efficienza dell’alta velocità cinese. Le relazioni politiche ed energetiche sino-russe sono solide (vedi nuovo accordo sul nucleare). Ad ogni modo i proclami sulle sinergie tra nuove vie della seta e unione euroasiatica non devono ingannare: Mosca non sottovaluta il “risorgimento” della confinante Cina e la sua crescente presenza nelle ex repubbliche sovietiche.
Xi ha incontrato il presidente iraniano Hassan Rohani per la prima volta dopo il ritiro degli Usa dall’accordo sul nucleare. Pechino sostiene il patto di Vienna perché spera non solo di mettere in cattiva luce le azioni unilaterali di Washington, ma di consolidare i rapporti con l’Iran quale fondamentale partner energetico e snodo infrastrutturale delle nuove vie della seta.
Il tasto dolente del summit è il rapporto con l’India, unico degli Stati membri della Sco a non aver manifestato ufficialmente il suo appoggio all’iniziativa infrastrutturale a guida cinese nella dichiarazione finale dell’evento. Ciò conferma che la sintonia tra le due potenze annunciata poco tempo fa è solo cosmetica.
Delhi resta contraria alle attività economiche cinesi in Asia, in particolare nei paesi limitrofi quali Pakistan, Nepal, Sri Lanka, Myanmar e Maldive. L’India teme che questi possano un giorno ospitare delle strutture militari della Repubblica Popolare.


Avvenimenti dell' 11 giugno



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