mercoledì 27 settembre 2017

COME SI E' ARRIVATI ALLA ROTTURA TRA CATALOGNA E STATO SPAGNOLO - Un articolo di Limes on-line -



Come si è arrivati alla rottura tra Catalogna e “Stato spagnolo”
L’indipendentismo catalano ha radici antichissime, ma oggi è un fattore decisivo a causa di quanto accaduto negli ultimi dieci anni. La crisi economica e gli impopolari governi del Partito popolare hanno fatto precipitare i rapporti tra Barcellona e Madrid.

Non del tutto fuori dalla crisi, la Spagna si riscopre plurale e addirittura con l’unità nazionale in pericolo.

La Catalogna scalpita come nemmeno ai tempi della guerra civile e punta diretta all’indipendenza, da sancire con un “Sì” referendario il 1° ottobre.

Nella tenzone tra Barcellona e Madrid i soldi hanno un loro peso, forse più che in altri rapporti conflittuali. Soprattutto per un popolo, come il catalano, che fa del seny, il buon senso, un principio guida fin dai tempi dei conti di Urgell. Il seny è una versione mediterranea del rapporto sostanziale tra l’utilitarismo e il common sense degli inglesi. E dato che di soldi si parla, il fatto che la Catalogna sia la più indebitata delle comunità autonome spagnole ha un suo peso nel litigio attuale.

La storia del debito catalano coincide in certa misura con quella dei rapporti politici con Madrid dell’ultimo decennio e poco più. Barcellona deve oltre 75 miliardi di euro allo Stato centrale. L’affare è serio, ma nessuno dei due campi (pro- e anti-indipendenza) può utilizzarlo a pieno come arma nella disputa sui futuri assetti geopolitici del paese iberico.

Il buco finanziario è il risultato della crisi del 2008 che ha duramente colpito i paesi dell’Europa meridionale. Nel primo decennio del secolo, quando l’economia spagnola cresceva quasi a ritmi asiatici, l’indipendentismo catalano (che ha radici antichissime e di alto lignaggio) poteva contare su uno scarso 20% dei consensi. Oggi, come informano sondaggi più o meno attendibili, attira una metà circa degli intervistati.

All’entrata di tutti i comuni della Catalogna rurale, nell’Ampurdán (Empordà in catalano), svetta l’Estelada, la bandiera con la stella bianca in campo blu e le quattro strisce giallo-rosse. È il vessillo dell’ipotetica repubblica indipendente. In alcuni casi le stelle anziché bianche sono rosse: è la bandiera della Cup, l’indipendentismo di sinistra radicale. Qui una maggioranza consistente della popolazione si sente spagnola come potrebbe sentirsi cinese. “Siamo catalani ed è la volta buona” ripetono in molti, come se si trovassero a un appuntamento con la storia dopo secoli di “una sottomissione culturale e politica al colonialismo castigliano” incarnato da Madrid. È vero, oggi lo Stato centrale spagnolo è paradossalmente più debole che in altre circostanze, mentre i catalani possono andar fieri di una città come Barcellona, in testa a tutte le classifiche che contano nella globalizzazione: innovazione, ricettività turistica, economia digitale, design, integrazione dei migranti, qualità della vita.

I discorsi si concentrano sulla lingua e la cultura “represse da secoli”, sull’identità occitana di un popolo che “nulla ha a che fare con la composizione etnica del mosaico ispanico”. Lingua e cultura sono ormai diritti certi e metabolizzati, il catalano si parla e si scrive in ogni angolo della Catalogna. Nelle scuole il castigliano è insegnato come altra lingua straniera. Televisioni, radio, siti Internet, letteratura, la llengua di Pompeu Fabra è ovunque, anche grazie ai provvedimenti strappati tra il 1996 e il 2000 da Jordi Pujol (all’epoca presidente della Generalitat, oggi in disgrazia per le accuse di corruzione) in estenuanti negoziati con l’allora premier di centro-destra del governo centrale, José-Maria Aznar. Il Partido popular (Pp), non avendo maggioranza assoluta in quella legislatura, doveva contare sull’appoggio esterno dei partiti moderati basco (Pnv) e catalano (Convergència i Unió, di Jordi Pujol). Tra il 1997 e il 1998 Pujol ottenne la competenza assoluta sull’istruzione pubblica. Ciò permise alla Generalitat di introdurre un insegnamento della storia catalanocentrico, radicalmente diverso, se non antagonista, rispetto a quello del resto dello “Stato spagnolo”, come viene ufficialmente definita la Spagna da queste parti.

Grande cosa la cultura, belle le bandiere con le quatre barres, “ma cos’è l’autonomia, senza autonomia fiscale?”. Ed è a questo punto che le affermazioni di principio si misurano con il realismo e il calcolo razionale. “Ci conviene pagare per restare nello Stato spagnolo? Quanto ci conviene pagare? Perché i baschi…”.

Già, Euskadi, l’altra provincia ribelle, oggi sorniona e attendista. Tanto compíti e razionali i catalani, quanto teste calde i baschi. La riluttanza di questi ultimi nei confronti dello Stato spagnolo si manifestava in tutte le declinazioni della sovversione politica, dal terrorismo dell’Eta alla guerriglia urbana sistematica e corrosiva della kale borroka. No, la Catalogna non ha conosciuto certe cose, se non in un brevissimo periodo durante la transizione con Terra lliure, un gruppo più che di fuoco di fuocherello. Peraltro scioltosi come neve al sole subito dopo l’approvazione della Costituzione spagnola, nel 1978, e il riconoscimento del concetto di nazionalità attraverso l’articolo 2 e la conseguente creazione delle comunità autonome. Il buon senso quindi diceva che bisognava aspettare e certamente la borghesia catalana, nazionalista o lealista che fosse, non avrebbe mai accettato comportamenti scellerati. Soprattutto non si sarebbe mai sottoposta al sistematico pagamento del pizzo rivoluzionario: “ci mancherebbe altro, già con tutto quello che dobbiamo versare a Madrid per mantenere andalusi ed estremegni, altre tasse proprio no…”.

Però il conflitto armato basco, considerato molto simile a quello nordirlandese, ha portato Madrid a negoziare – anche se mai direttamente con i rappresentanti dell’Eta – concessioni fiscali che i paciosi e pacifici catalani non hanno mai ottenuto. È il concerto economico basco, che permette dal 1981 a Euskadi di trattenere più risorse fiscali di altre comunità e di versare alle casse dello Stato centrale cifre discrezionali. Mentre i catalani pagano le imposte direttamente a Madrid, che poi restituisce a Barcellona circa la metà. La regione mediterranea ha sempre visto questa differenza di trattamento come un’ingiustizia e un implicito premio all’uso illegale della forza, cioè al terrorismo. Pujol era convinto che avrebbe potuto risolvere il problema con il Pp, ma non fu possibile, perché alle elezioni del 2000 Aznar ottenne la maggioranza assoluta. Il Pp non aveva più bisogno di negoziare con baschi e catalani per governare.

I conservatori spagnoli calarono la maschera e riservarono alle nazionalità una politica intransigente e a tratti revanscista. Sulla spinta di un boom che stava cambiando la Spagna, il governo operò arresti e requisizioni ai danni del “entorno de Eta” nei Paesi Baschi, mentre riservò disinteresse e supponenza alle richieste catalane. A Barcellona e dintorni, così come in Biscaglia, Gipuzkoa e in parte della Navarra, molti intravidero nelle politiche di Aznar un atteggiamento irrecuperabile, dettato dal “dna franchista della destra spagnola”: los fachas, els faixestes di ritorno.

Si trattava, insomma, della costante storica della Spagna, con le sue componenti più conservatrici poco inclini ad ascoltare e a cercare di comprendere le realtà locali e nazionali. Infatti, solo in extremis (e forse troppo tardi) il ministro dell’Economia Luis de Guindos, del governo conservatore guidato da Mariano Rajoy, ha offerto di aprire un tavolo negoziale con la Generalitat per discutere di “concessioni sulla questione fiscale” in cambio dell’annullamento del referendum del 1° ottobre. Oggi i catalani godono comunque di vantaggi fiscali molto simili a quelli delle regioni e delle province a statuto speciale italiane, condizioni che Lombardia e Veneto sottoscriverebbero in un baleno.

La storia non si fa con i “se”. Ma se ci fosse stato al governo il Partito socialista (Psoe), tradizionalmente più aperto alle rivendicazioni locali, le cose sarebbero andate diversamente. Le ultime concessioni fiscali infatti risalgono al 2006, con lo Statut de Catalunya voluto e negoziato dal governo Zapatero. All’epoca in Catalogna governava la coalizione del Tripartit: i socialisti del Psc (costola regionale del Psoe) di Montilla alla guida del Govern con gli alleati indipendentisti storici di Esquerra republicana de Catalunya e i comunisti di Esquerra unida. Zapatero, che aveva assunto come modello istituzionale esemplare quello della seconda repubblica del 1936-’39, intelligentemente riaprì il negoziato sulle nazionalità. La Catalogna ottenne l’Estatut d’autonomia, che ampliò le competenze e soprattutto permise a Barcellona di trattenere il 50% dell’Irpef e dell’Iva e il 58% delle accise.

Ma la Corte costituzionale spagnola bocciò alcuni articoli del nuovo statuto, considerandoli anti-costituzionali. Quello che provocò più polemiche fu il dettato statutario che definiva la Catalogna una “nazione”. L’idea di nació creava per molti una fonte di diritto addizionale, che avrebbe fornito le basi giuridiche per una futura legislazione indipendentista: insomma, l’autodeterminazione. Il termine “nazione”, riferito alla Catalogna, riportava la Spagna ai tempi di quella repubblica guidata da socialisti, forze marxiste di unità proletaria e partiti borghesi liberali di sinistra che venne travolta dalla guerra civile.

La crisi del 2008 fa saltare il tavolo. La Spagna si scopre più debole e molto meno prospera di quanto avesse pensato negli anni precedenti. Molti cittadini, catalani compresi, devono ancora oggi affrontare privazioni e restrizioni del loro livello di vita che mai avrebbero immaginato fino a qualche anno prima. Le agenzie di notazione (rating) e le banche internazionali planano sulla Spagna, senza troppi riguardi per i particolarismi locali.

La Catalogna ha acciacchi finanziari notevoli. Batte cassa a Madrid e vuole più concessioni fiscali per rinvigorire i propri buoni del tesoro. Il governo centrale, di nuovo espressione del Pp, non cede perché ha troppi grattacapi economici. Quello che comincia come un pungolo, uno strumento negoziale, diventa il casus belli per indire un referendum per l’indipendenza. Paradossalmente è un moderato di CiU come Artur Mas, presidente del govenro, a paventare l’extrema ratio. Sembra dire a Madrid: “Attenti che potremmo fare come la Scozia”.

Il governo Rajoy reagisce sdegnato. A Madrid pensano che Mas voglia fare dimenticare al suo elettorato moderato e non amante degli avventurismi i processi per corruzione che hanno travolto il partito e l’intera famiglia Pujol. La Catalogna parallelamente chiede finalmente delle concessioni fiscali. Madrid non sente e non risponde.

Nel 2014 il governo catalano, formato da una grande coalizione indipendentista, quasi sul modello di un’assemblea costituente, guidato da Mas, organizza e vince un referendum pro-indipendentista non vincolante, anche se l’affluenza è inferiore al 50%. Allo stesso tempo chiede a Madrid e alle istituzioni l’autodeterminazione come in Scozia, cioè la possibilità di votare un referendum vincolante nel quadro costituzionale spagnolo per decidere se lasciare la Spagna o restare. Il governo centrale, forte del suo essere uno Stato di diritto con una Costituzione moderna consensualmente accettata da tutte le forze politiche e dalle nazionalità, respinge la richiesta. Anche perché il caso catalano non rientra in quelli in cui il diritto internazionale impone l’autodeterminazione: regimi coloniali, occupazioni straniere e apartheid. La Corte costituzionale respinge inevitabilmente il referendum.

Le due parti ormai non si parlano più, soprattutto dopo che Puigdemont sostituisce Mas alla guida del governo catalano. Barcellona accusa: “Non ci ascoltano, non ci hanno mai ascoltati, è ora di farla finita!”. Quanto basta per ampliare la base del consenso referendario includendo anche settori moderati, tradizionalmente tutt’altro che separatisti.

C’è oltretutto una nuova variabile che Madrid non vuole vedere. Rajoy è l’esecutore perfetto dei compiti a casa assegnati da Angela Merkel. L’allievo modello della cancelliera taglia con zelo più di Mario Monti. Le politiche di austerity colpiscono soprattutto le nuove generazioni, anche in Catalogna. Sono giovani cresciuti e formati nelle scuole riformate ai tempi di Pujol, dunque con un’idea di Catalogna che è altro rispetto alla Spagna. Identificano le cause delle frustrazioni sociali con “le risorse che devono versare per mantenere il resto della Spagna”. Vedono quindi nell’indipendenza la speranza messianica di una prosperità da recuperare senza zavorre. Inoltre i catalani rivendicano cifre alla mano come Madrid abbia smesso da oltre un decennio di investire in lavori pubblici nella loro comunità autonoma, privilegiando grandi opere altrove – soprattutto al Sud, “con i nostri soldi”.

Ecco dunque come l’idea di “incomprensione e cocciutaggine madrilene” distillano l’eccezionalismo catalano, fondatosi su un certo senso di superiorità. Un atteggiamento che esaspera gli spagnoli. Addirittura in comunità autonome che hanno condiviso secoli di storia con la Catalogna, come Valencia e l’Aragona, c’è chi boicotta i prodotti catalani.

In tale contesto bisogna chiedersi se la strategia del governo Rajoyimpeccabile dal punto di vista giuridico, compresi addirittura gli arresti e gli interventi della Guardia Civil, lo sia altrettanto dal punto di vista politico. Forse ci si dimentica troppo spesso che l’epilogo violento non è un aspetto estraneo al processo politico, anzi, ne è parte integrante. Pur nella sua eccezionalità è semplicemente lo sviluppo naturale di una situazione di forze opposte che non trovano una soluzione pacifica. Insomma, è il proseguimento della politica con altri mezzi.

Le basi per le incomprensioni pericolose ci sono tutte. Prendiamo l’esempio di Unai, un nazionalista basco residente a Barcellona da quasi trent’anni, favorevole all’indipendenza catalana. Mentre parla di integrazione dei migranti musulmani passa inevitabilmente al contesto spagnolo, assimilando totalmente chi viene dal Maghreb ad altri spagnoli, e dice ammirato: “Un esempio di integrazione corretto è quello di un andaluso che conosco: si chiama José, ma ora si fa chiamare Josep e parla solo catalano. Ecco, su queste basi ci possiamo intendere”.


domenica 24 settembre 2017

ELEZIONI IN GERMANIA Economia, migranti e AfD: le sfide di Angela Merkel in Germania




Le sfide economiche, demografiche e politiche alla leadership di Angela Merkel.
carta di 

La carta inedita di questa settimana (con testo aggiornato il 24 settembre 2017) è sulla Germania e sulle sfide che ha dovuto affrontare la cancelliera Angela Merkel alle elezioni del 24 settembre 2017.

Elezioni vinte dalla sua alleanza cristianodemocratica CDU/CSU, ma che hanno visto la consacrazione di Alternative für Deutschland (AfD), il giovane partito populista di destra guidato da Frauke Petry che con il suo 13,5% (previsto dagli exit poll) entra per la prima volta in parlamento.

Afd aveva già raccolto ottimi risultati alle elezioni regionali del 2016 in Meclemburgo-Pomerania Anteriore (20,8%) e nel parlamento statale di Berlino (14,2%). Dalla sua fondazione a febbraio 2013, AfD ha ottenuto seggi in tutti i Länder in cui si è votato e ha conquistato 7 eurodeputati alle europee del 2014 (dove ha preso il 7%). Alle precedenti elezioni federali del settembre 2013 non era riuscita a portare i suoi candidati nel Bundestag, restando sotto la soglia di sbarramento del 5%.

L’opposizione di AfD ad Angela Merkel ruota attorno a due macrotemiimmigrazione ed economia. Petry contesta alla cancelliera l’apertura ai migranti, asserendo che il paese non è in grado di assorbire un numero spropositato di arrivi.

In realtà, finora il partito ha ottenuto i risultati più lusinghieri nei Länder orientali, come Meclemburgo o Sassonia-Anhalt, dove l’incidenza delle migrazioni di lungo periodo è minore. Sia il peso della forza lavoro straniera sul totale degli occupati che il numero di persone con parenti di origine turca (la comunità di origine estera più numerosa in Germania) sono infatti limitati.

Nei Länder che storicamente hanno conosciuto una maggiore immigrazione – come la Renania Settentrionale, che oltre al record di quasi 1 milione di persone con parenti turchi vanta il primato di richieste d’asilo nel 2016, oltre 54 mila – al momento di raccogliere i dati per questa carta (settembre 2016) la retorica antiaccoglienza di AfD non era ancora stata testata. O aveva raccolto meno proseliti, come rivelano le elezioni nelle città-Stato di Brema e Amburgo.

L’eccezione è il Baden-Württemberg, lo Stato tedesco con più lavoratori stranieri in rapporto al totale degli occupati, nel cui parlamento AfD ha eletto a marzo 23 suoi esponenti, terzo partito dopo Verdi e CDU. Qui, tuttavia, a spostare preferenze può essere stata la congiuntura economica: per il 2016 si stima che il pil del Land crescerà solo dello 0,5%, molto meno rispetto al 3,1% dell’anno precedente.

L’economia è il secondo pilastro della retorica dell’AfD, che nacque come partito anti-euro. La debolezza della moneta unica è per Petry e i suoi sodali lo specchio di una crisi più ampia: quella dell’Unione Europea, accusata dal partito di scarsa democrazia e di impoverire la Germania profonda.
Il risultato storico raggiunto da Afd deve qualcosa anche alle preoccupazioni in tema di sicurezza, aumentate dopo gli attentati jihadisti di cui la Germania è stata vittima nell’ultimo anno.

Testo di Federico Petroni.
Carta inedita di Laura Canali in esclusiva per Limesonline.

venerdì 22 settembre 2017

CATALOGNA E' EUROPA


L’economia della comunità autonoma catalana ha una dimensione prevalentemente europea. 

Fra gli argomenti centrali della questione catalana, riaccesasi in questi giorni in vista del referendum vincolante sull’indipendenza che il govern regionale vorrebbe tenere il 1° ottobre, rientra anche la dimensione economica.

La fazione indipendentista indica la ricchezza e l’interscambio di Barcellona e dintorni – una comunità autonoma dotata di uno dei maggiori pil fra le regioni dell’Ue, con esportazioni aumentate di un terzo dal 2010 – come fattore di sostenibilità di un eventuale Stato.

Tuttavia, il principale partner commerciale della Catalogna è il resto della Spagna, a partire da Aragona e Valencia, regioni culturalmente catalane che però non sono intenzionate a far fronte comune con Barcellona nell’attuale disputa. Fra i soci commerciali esteri predominano membri dell’Unione Europea (la quale assorbe due terzi dell’export catalano) che non hanno motivo di appoggiare l’indipendenza catalana. O perché sono alle prese con rivendicazioni subnazionali (Italia, Regno Unito) o perché vogliono evitare di aprire un nuovo fronte d’instabilità nell’Ue (Francia, Germania).

Inoltre, la maggioranza delle 7086 imprese straniere stanziate nella comunità autonoma è di nazionalità tedesca, francese, olandese o italiana. A Tarragona, polo di livello mondiale della chimica, 11 delle 15 maggiori compagnie estere sono europee, con sei provenienti dalla Germania (Bayer, BASF, Merck, Henkel, Messer, Sandoz).

Tradotto in termini geopolitici: la connessione dell’economia catalana con i paesi del Vecchio continente rischia di tradursi in un’arma di ricatto da parte di questi ultimi nel braccio di ferro fra Barcellona e Madrid.

A testimoniare la continentalità dei commerci catalani è pure il fatto che, pur disponendo di importanti porti come Barcellona e Tarragona, la maggioranza relativa (circa il 50%) delle merci da e verso la comunità autonoma viaggia non per mare, ma su strada. La catena pirenaica permette un solo asse viario verso il resto d’Europa: la E-15, che dal suolo francese si dirama verso Parigi, Londra, la Renania, la Svizzera e il Nord Italia.

Testo di Federico Petroni.
Carta inedita di Laura Canali in esclusiva su Limesonline.

giovedì 21 settembre 2017

CATALOGNA: REFERENDUM; IL MINISTRO DEGLI ESTERI CATALANO: "VOTEREMO"- Articolo e videointervista da Affari Internazionali

Barcellona, ieri dopo gli arresti

Riportiamo da Affari Internazionali (QUI) l' articolo e l' intervista al Ministro degli Esteri Catalano

Catalogna: referendum; il ministro degli Esteri, “Voteremo”

20 Set 2017 Isabella Ciotti
Hanno requisito i volantini che informavano sul voto, indagato i sindaci disposti ad aprire i seggi, bloccato l’invio delle lettere di convocazione degli scrutatori. Infine, con un blitz negli uffici del governo regionale, hanno arrestato decine di alti funzionari coinvolti nell’organizzazione della consultazione.  Dalla Guardia Civil alla Procura, dai ministeri alle Poste, gli organi e le società dello Stato spagnolo stanno lavorando per tenere i catalani lontani dalle cabine elettorali. Ma il loro ‘ministro’ degli Esteri Raül Romeva i Rueda (le virgolette sono d’obbligo, non essendo stato autorizzato da Madrid a utilizzare questa qualifica) non ha dubbi: “Al referendum per l’autodeterminazione del 1° ottobre i catalani voteranno”.
Si dice che gli abitanti della Catalogna siano i tedeschi di Spagna; e Romeva corrisponde a questo profilo. A Roma per una conferenza della delegazione catalana in Italia, si sorprende del ritardo con cui comincia l’evento. Per gli italiani è routine, e anche per gli spagnoli. “Ma non per i catalani”, precisa.
E, a margine del convegno, condivide i suoi pronostici con chi – impressionato dall’alternarsi di offensive e controffensive tra Barcellona e Madrid – legittimamente si chiede cosa accadrà a Barcellona, Girona, Cambrils e nelle tante altre città della Catalogna fra dieci giorni. Se il referendum si farà e come – tra prevedibili divieti e altrettanto prevedibili proteste – o se non si terrà affatto, e con quali conseguenze. Insomma, se il sogno indipendentista catalano, già tormentato da bruschi risvegli negli ultimi anni, tornerà allo stato di vaga illusione.

Di certo gli aspiranti secessionisti non si sono risparmiati: memori del fallimento del referendum del 2014, hanno preparato gli spagnoli con continui avvertimenti, approvato la loro legge sul referendum, ignorato la sospensione decisa dalla Corte costituzionale ed emanato una seconda legge che già regola la secessione dalla Spagna. Ora che il dado è tratto, non resta che stare a vedere.

intervista al ministro degli esteri catalano

Ministro Romeva i Rueda, che cosa accadrà il 1°ottobre?Voteremo. Siamo convinti che questa sia l’unica soluzione ai nostri problemi attuali. Non ci sono alternative, la democrazia non può averne.
Crede davvero che riuscirete a votare, nonostante le misure del governo spagnolo?Prima di tutto guardiamo a cosa il governo sta facendo: sta requisendo manifesti, volantini, impedendo il dibattito. Sta mettendo in discussione diritti fondamentali come la libertà politica, d’espressione, di voto, di associazione. E così non fa che rafforzare la mobilitazione, perché ogni provvedimento per impedire il referendum si traduce in una risposta ancor più massiccia da parte del popolo catalano. Per questo dico che riusciremo a votare, perché se ce lo impediranno saremo in tanti a protestare. La determinazione, la volontà della gente c’è, e non si può aggirare.
Si aspettava una reazione del genere da parte di Madrid?Non è una sorpresa per me – le strutture statali sono un’eredità del franchismo e lo riflettono –. Semmai lo è stata per altri, anche in Europa. La questione catalana va vista proprio come un’opportunità per migliorare la democrazia in Spagna e, se posso dirlo, anche nell’Ue. Le nostre istanze dimostrano che c’è un problema strutturale, che va preso seriamente.
Come ‘ministro’ degli Esteri si aspettava un maggiore appoggio da parte di altri capi di Stato e di governo?Non lo abbiamo mai chiesto: la nostra priorità era riuscire a spiegare le nostre ragioni, che cosa faremo il 1° ottobre e perché. Non conta che ci siano dichiarazioni pubbliche a nostro favore, ma che si parli di una questione che riguarda valori condivisi. Non chiediamo un riconoscimento, ma l’ascolto, perché altrimenti le conseguenze di questo processo saranno poi difficili da gestire. E – se ci sono domande – l’opportunità di rispondere.
Se la Catalogna riuscisse davvero – in un modo o nell’altro – a ottenere l’indipendenza, uscirebbe anche dall’Unione europea. E se volesse poi aderirvi, la Spagna potrebbe opporre il veto al suo ingresso.L’articolo 49 del Trattato sull’Unione europea stabilisce le condizioni per entrare nell’Ue, così come l’articolo 50 individua quelle per uscirne. Ma in nessun articolo si parla di come diventare uno Stato membro avendo già fatto parte dell’Unione. Ci sono 7 milioni e mezzo di cittadini catalani che sono anche cittadini europei, 6mila aziende europee con sede in Catalogna, 17 milioni di turisti che vengono qui ogni anno: non c’è ragione per pensare che i Paesi membri – inclusa la stessa Spagna – vogliano escluderci. E noi saremo aperti a negoziare il nostro ingresso. Ma non darei per scontata nessuna ipotesi, né quella di una nostra adesione – subordinata appunto a dei negoziati – né quella di una Catalogna fuori dall’Ue, perché quello che ci riguarda non è uno scenario previsto dai Trattati.
C’è un articolo della Costituzione spagnola, il n. 155 (affine al nostro art. 117 sul rapporto Stato-Regioni, ndr), che dà diritto al governo di “adottare le misure necessarie perché un’Autonomia rispetti i suoi obblighi, qualora stia attentando all’interesse generale del Paese”. Pensa che Madrid lo applicherà?Non possiamo saperlo. Ma qualcosa in questo senso è già stato fatto. Il “commissariamento” dei fondi catalani è stato deciso con le stesse motivazioni – e cioè “a difesa dell’interesse generale e a garanzia dei servizi pubblici” -, ma attraverso l’emanazione di decreto, procedura ben più semplice di quella richiesta per l’applicazione dell’articolo 155.
Avevate chiesto a Madrid di dialogare con voi. Arrivati a questo punto, valutereste ancora proposte alternative alla secessione, magari una riforma dello Statuto?Siamo sempre disposti a negoziare. Ma, in primo luogo, non possiamo sedere al tavolo da soli e in secondo luogo manca una proposta. Avevamo invitato il governo spagnolo a farne una, che non è mai arrivata, mentre le nostre sono sempre state ignorate. L’unica proposta accettabile per le persone, ad oggi, è votare.

domenica 17 settembre 2017

IL CONFLITTO TRA SLOVENIA E CROAZIA PER LA "BAIA DI PIRANO" RIGUARDA L' ACCESSO ALLE ACQUE INTERNAZIONALI ED HA CONSEGUENZE ANCHE SU TRIESTE - IL RIFIUTO CROATO DI APPLICARE LA SENTENZA ARBITRALE DELLA CORTE DELL' AJA -

 https://drive.google.com/file/d/0B8ImzMl2gpVwVjRsR2dTVlgzSzQ/view?usp=sharing

Sono di questi giorni le notizie di un acuirsi del conflitto tra Slovenia e Croazia riguardo i confini nella Baia di Pirano, addirittura con allusioni da ambo le parti a possibili usi della forza militare (clicca QUI).
La questione non è banale perché riguarda l’ accesso diretto alle acque internazionali del porto di Koper-Capodistria e se vogliamo anche del Porto Franco Internazionale di Trieste.
Queste nostre terre non trovano pace da quando il sorgere successivo di Stati Nazione ha smembrato il "Litorale Austriaco  - 
Österreichisch-illirisches küstenland creando innumerevoli problemi confinari e di navigazione.
Vediamo di esaminare la vicenda che, vista la vicinanza e gli specchi di mare interessati, ha implicazioni anche per Trieste.

Lo scorso 29 giugno la 
Corte permanente di arbitrato (CPA) del L’Aja si è pronunciata riguardo al “Caso nº 2012-04”, ossia l’arbitrato tra la Croazia e la Slovenia.

SCARICA QUI LA SENTENZA COMPLETA


 La disputa riguardo ai confini tra i due paesi iniziò con la loro indipendenza dalla Jugoslavia nel giugno del 1991. L’argomento più spinoso riguardava il confine marittimo tra i due stati. La sentenza è stata molto vantaggiosa per la Slovenia, ma ripercorriamo le varie tappe di questo contenzioso.
La cosiddetta “questione confinaria” (mejni spor in sloveno) dura da più di un quarto di secolo. Durante tutto questo tempo ci sono stati vari tentativi per risolverla, anche in sedi internazionali, ma tutte le occasioni si sono rivelate finora insufficienti. Il primo passo verso un confine “ufficiale” tra Slovenia e Croazia fu fatto dalla Commissione Badinter, ossia “La commissione arbitrale della conferenza sulla Jugoslavia“, che era presieduta dal giurista francese Robert Badinter. Dal 1991 al 1993 la Commisione formulò 15 consigli sui più grandi temi giuridici che si erano creati con la dissoluzione della Jugoslavia. Tra le altre, propose anche il riconoscimento internazionale dell’indipendenza della Slovenia, cosa che la Comunità europea fece il 15 gennaio del 1992.
Pochi giorni prima, l’11 gennaio, la Commissione aveva deciso che i confini tra gli stati indipendenti dovevano essere quelli delle vecchie repubbliche jugoslave. Badinter scrisse che i confini tra “gli stati indipendenti non devono essere cambiati, tranne che con accordi conclusi volontariamente” e che “tranne in caso di diverso accordo, i vecchi confini diventano confini che vengono tutelati dal diritto internazionale”.
Dopo due mesi, il 18 marzo del 1992, fu creato il gruppo di lavoro specializzato per il problema del confine tra Croazia e Slovenia. Il capo della commissione croata per i confini statali, specializzato in diritto marittimo, Davorin Rudolf, fece sapere alle agenzie di stampa slovene che la Croazia non aveva nessuna pretesa territoriale nei confronti della Slovenia.
La Commissione individuò come uno dei punti di partenza per il futuro lavoro 53 separazioni catastali, maggiori di 50 metri. Successivamente preparò la proposta per la risoluzione dei confini terrestri e marittimi.
La definizione dei confini marittimi rappresentava e rappresenta tuttora il più annoso dei problemi, poiché prima della caduta della Jugoslavia non ne esistevano tra le repubbliche della SFRJ e dunque neanche tra Croazia e Slovenia. Il parlamento sloveno approvò nel 1993 un memorandum sul golfo di Pirano, che prescriveva il suo completo mantenimento con l’accesso al mare aperto. La Croazia invece, dal canto suo insisteva nella sua posizione, sottolineando che la linea di confine dovesse passare attraverso la metà del golfo.

La Slovenia reclamava anche il possesso di 113 ettari di terreni a sud del fiume Dragogna, appellandosi al confine dei comuni catastali. La Croazia invece sosteneva che questo scorresse attraverso il vecchio letto del fiume, come era stato deciso con il Memorandum del 1947. Il fiume Dragogna scorse attraverso il vecchio letto fino agli anni cinquanta, quando fu dirottato nel meridionale canale Svetega Odorika, che sbocca nel golfo di Pirano. Il canale faceva da confine il 25 giugno 1991, data di indipendenza delle due repubbliche.
Nel 1995 i due stati si riconobbero a vicenda la legittimità delle richieste di mantenimento dello status quo del 25 giugno 1991 riguardo ai controversi territori terrestri. Nell’aprile del 1997 firmarono un accordo sul traffico transfrontaliero e sulla collaborazione reciproca, che facilitava il transito del confine per gli abitanti delle zone di frontiera, e decisero che la zona di confine terrestre dovesse comprendere il raggio di 10 km all’interno di ogni stato.
Il parlamento croato (Il Sabor) formulò nell’aprile del 1999 una dichiarazione sullo stato dei rapporti tra la Croazia e la Slovenia, che obbligava il governo croato ad esigere che il confine sul golfo di Pirano passasse esattamente a metà del golfo. Poche settimane più tardi i due governi decisero congiuntamente di nominare come mediatore sulla questione l’ex ministro della difesa statunitense William Perry, che avrebbe formulato un suo parere non vincolante per le parti. Purtroppo anche questo tentativo di mediazione fallì.
Nel 2001 la questione sembrava volgere al termine, infatti i due primi ministri Janez Drnovšek per la Slovenia e Ivica Račan per la Croazia firmarono un accordo congiunto sui confini. Il cosiddetto Accordo Drnovšek-Račan, che poneva finalmente fine al problema e risolveva le controversie sui confini sia marittimi che terrestri (garantendo tra l’altro alla Slovenia il passaggio al mare aperto attraverso un speciale corridoio, la cosiddetta “ciminiera”), non fu però ratificato dal parlamento croato. Così anche questo tentativo fu un buco nell’acqua.
Si dovette aspettare altri sei lunghi anni per qualche nuovo passo in avanti, che arrivò il 26 agosto 2007 con l’accordo di Bled tra Janez Janša ed Ivo Sanader, i quali decisero all’unisono di risolvere la questione confinaria una volta per tutte per via giuridica. La Slovenia propose la Corte permanente di arbitrato del L’Aja oppure di istituire una corte arbitraria ad hoc. Fu istituita una commissione mista di giuristi di notoria competenza, croati e sloveni, che avrebbero dovuto preparare una proposta per un tale accordo. Ma non si arrivò mai ad un compromesso.
Nel 2009 il commissario europeo per l’allargamento Olli Rehn tentò finalmente di risolvere l’annosa questione confinaria tra Slovenia e Croazia, che si trovava nel bel mezzo delle trattative per l’adesione all’Unione europea, proponendo una mediazione, che fu respinta dai croati. In seguito propose un arbitrato, che fu accolto dalla Slovenia con alcune remore, ma di nuovo non dalla Croazia.
Il 22 aprile 2009 Rehn divulgò una prima bozza di accordo, la cosiddetta Prima proposta Rehn (Prvi Rehnov predlog), che fu accolta positivamente dalla Croazia, mentre la Slovenia propose alcune modifiche. La Seconda proposta Rehn fu presentata nel giugno del 2009 con le modifiche proposte dalla Slovenia, con le quali la Croazia non era d’accordo e decise così di ritirarsi da future trattative.
Nonostante il nuovo tentativo fallito, nel luglio del 2009 ci fu un incontro al castello Trakošćan tra i due primi ministri Borut Pahor e Jadranka Kosor che decisero di proseguire con le trattative. La Slovenia ritirò il veto alle trattative di adesione della Croazia all’Ue. Si decise di proseguire le trattative sulla base della Seconda proposta Rehn.
Il 4 novembre 2009 si giunse alla firma dell’accordo di arbitrato, che fu firmato a Stoccolma da Pahor, dalla Kosor e dal premier svedese e allora presidente del Consiglio europeo Fredrik Reinfeldt. L’accordo entrò in vigore il 29 novembre 2010. Il 25 giugno 2011 le due repubbliche lo registrarono congiuntamente presso il Segretariato generale delle Nazioni Unite (conformemente all’articolo 102 della Carta). I due stati si impegnarono a rispettare il verdetto della Cpa del L’Aja.
Tutto sembrò filare liscio fino al 22 luglio 2015, quando il quotidiano serbo Kurir e il quotidiano croato Večernji list pubblicarono la notizia e successivamente anche le registrazioni audio delle telefonate tra l’agente del governo sloveno Simona Drenik e l’arbitro Jernej Sekolec. Il 23 luglio Sekolec si dimise dal ruolo di arbitro e la Cpa chiese alla Slovenia di sostituirlo. La Croazia chiese di sospendere il processo a seguito delle intercettazioni telefoniche, mentre la Commissione europea le chiese di continuarlo e annunciò che esso sarebbe continuato anche in assenza di Zagabria. Il 31 luglio la Croazia abbandonò l’accordo di arbitrato. La Cpa affermò che le intercettazioni telefoniche e le pressioni slovene all’arbitro Sekolec non giustificavano una decisione simile: sembrava che la Croazia aspettasse proprio la pretesa giusta per abbandonare il processo che stava seguendo il suo naturale corso, a vantaggio della Slovenia.
Il 29 giugno 2017 il presidente del tribunale Gilbert Guillaume ha letto il verdetto, stabilendo che il confine tra Slovenia e Croazia segue il corso del Dragogna e finisce nel mezzo del canale Svetega Odorial. Assegnando così alla Slovenia tre quarti del golfo di Pirano e un corridoio che le consente l’accesso alle acque internazionali.
La Croazia ha dichiarato da subito di non voler rispettare la sentenza. Il premier croato Andrej Plenković dell’Accadizeta (HDZ), commentando l’invito della Commissione europea alle due repubbliche ad attuare la decisione della Corte, ha affermato che l’Unione europea dovrebbe restare nella sua giurisdizione, che non include il problema del confine tra Slovenia e Croazia.
La sentenza della Corte dell’ Aja affronta anche la questione dei confini del Territorio Libero di Trieste in cui la Baia di Pirano è compresa ex  articoli 4 e 22 del Trattato di Pace del 1947.
Lo fa al punto 30 a pag. 8  del verdetto:
30. In 1954, the FTT (Free Territory of Triest - TLT - ndr) was dissolved, pursuant to a Memorandum of Understanding between the Governments of Italy, the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland, the United States of America and Yugoslavia regarding the Free Territory of Trieste (“London Memorandum”). 30 Most of Zone A of the FTT was thereby transferred to Italy, while the remainder of the FTT was integrated into the FPRY.31 The district of Koper was attributed to Slovenia and the district of Buje to Croatia. This was done in conformity with the FPRY’s “Act of 25 October 1954 on the Applicability of the Constitution, Laws and other Federal Legal Regulations on the Territory, onto which the Civil Administration of the FPRY was extended by Means of an International Agreement”. 32 After these major modifications, the territories of Slovenia and Croatia essentially remained unchanged until independence.”

Cioè afferma che il Memorandum di Londra del 1954 ha di fatto “dissolto” il Territorio Libero di Trieste previsto dal Trattato di Pace del 1947.
E che da allora i confini tra Slovenia e Croazia sono rimasti identici fino alla dissoluzione della Yugoslavia.
Di conseguenza riguardo detti confini è applicabile il principio di “Uti possidetis
recepito nella Convenzione di Vienna del 1978 sui Trattati (punto 256 pag.79 della sentenza).
Non siamo giuristi e malgrado questa sentenza non venga rispettata dalla Croazia, che non intende però contestarla sul punto riguardante il TLT, ed abbia creato polemiche anche a Trieste riguardo le affermazioni sulla dissoluzione del TLT conseguente al Memorandum di Londra interpretato come atto definitivo e non solo provvisorio ("sistemazione provvisoria" quale lo stesso Stato Italiano ufficialmente la considerava fino al Trattato di Osimo del 1975 o semplice "amministrazione" civile come scritto nel Memorandum), non possiamo che rilevare che questo è l’ orientamento prevalente dell’ autorevole Tribunale dell’ Aja e che questa sentenza costituisce un precedente.

Sia corretta giuridicamente o meno, sia conforme alla verità storica o meno, questa sentenza indica evidentemente quale sia l’ attuale interpretazione prevalente in ambito internazionale, conseguenza degli attuali equilibri geopolitici, contro la quale andrebbero inevitabilmente a scontrarsi eventuali istanze simili.


Paolo Deganutti



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