Come si è arrivati alla rottura tra Catalogna e “Stato spagnolo”
L’indipendentismo catalano ha radici antichissime, ma oggi è un fattore decisivo a causa di quanto accaduto negli ultimi dieci anni. La crisi economica e gli impopolari governi del Partito popolare hanno fatto precipitare i rapporti tra Barcellona e Madrid.
Non del tutto fuori dalla crisi, la Spagna si riscopre plurale e addirittura con l’unità nazionale in pericolo.
La Catalogna scalpita come nemmeno ai tempi della guerra civile e punta diretta all’indipendenza, da sancire con un “Sì” referendario il 1° ottobre.
Nella tenzone tra Barcellona e Madrid i soldi hanno un loro peso, forse più che in altri rapporti conflittuali. Soprattutto per un popolo, come il catalano, che fa del seny, il buon senso, un principio guida fin dai tempi dei conti di Urgell. Il seny è una versione mediterranea del rapporto sostanziale tra l’utilitarismo e il common sense degli inglesi. E dato che di soldi si parla, il fatto che la Catalogna sia la più indebitata delle comunità autonome spagnole ha un suo peso nel litigio attuale.
La storia del debito catalano coincide in certa misura con quella dei rapporti politici con Madrid dell’ultimo decennio e poco più. Barcellona deve oltre 75 miliardi di euro allo Stato centrale. L’affare è serio, ma nessuno dei due campi (pro- e anti-indipendenza) può utilizzarlo a pieno come arma nella disputa sui futuri assetti geopolitici del paese iberico.
Il buco finanziario è il risultato della crisi del 2008 che ha duramente colpito i paesi dell’Europa meridionale. Nel primo decennio del secolo, quando l’economia spagnola cresceva quasi a ritmi asiatici, l’indipendentismo catalano (che ha radici antichissime e di alto lignaggio) poteva contare su uno scarso 20% dei consensi. Oggi, come informano sondaggi più o meno attendibili, attira una metà circa degli intervistati.
All’entrata di tutti i comuni della Catalogna rurale, nell’Ampurdán (Empordà in catalano), svetta l’Estelada, la bandiera con la stella bianca in campo blu e le quattro strisce giallo-rosse. È il vessillo dell’ipotetica repubblica indipendente. In alcuni casi le stelle anziché bianche sono rosse: è la bandiera della Cup, l’indipendentismo di sinistra radicale. Qui una maggioranza consistente della popolazione si sente spagnola come potrebbe sentirsi cinese. “Siamo catalani ed è la volta buona” ripetono in molti, come se si trovassero a un appuntamento con la storia dopo secoli di “una sottomissione culturale e politica al colonialismo castigliano” incarnato da Madrid. È vero, oggi lo Stato centrale spagnolo è paradossalmente più debole che in altre circostanze, mentre i catalani possono andar fieri di una città come Barcellona, in testa a tutte le classifiche che contano nella globalizzazione: innovazione, ricettività turistica, economia digitale, design, integrazione dei migranti, qualità della vita.
I discorsi si concentrano sulla lingua e la cultura “represse da secoli”, sull’identità occitana di un popolo che “nulla ha a che fare con la composizione etnica del mosaico ispanico”. Lingua e cultura sono ormai diritti certi e metabolizzati, il catalano si parla e si scrive in ogni angolo della Catalogna. Nelle scuole il castigliano è insegnato come altra lingua straniera. Televisioni, radio, siti Internet, letteratura, la llengua di Pompeu Fabra è ovunque, anche grazie ai provvedimenti strappati tra il 1996 e il 2000 da Jordi Pujol (all’epoca presidente della Generalitat, oggi in disgrazia per le accuse di corruzione) in estenuanti negoziati con l’allora premier di centro-destra del governo centrale, José-Maria Aznar. Il Partido popular (Pp), non avendo maggioranza assoluta in quella legislatura, doveva contare sull’appoggio esterno dei partiti moderati basco (Pnv) e catalano (Convergència i Unió, di Jordi Pujol). Tra il 1997 e il 1998 Pujol ottenne la competenza assoluta sull’istruzione pubblica. Ciò permise alla Generalitat di introdurre un insegnamento della storia catalanocentrico, radicalmente diverso, se non antagonista, rispetto a quello del resto dello “Stato spagnolo”, come viene ufficialmente definita la Spagna da queste parti.
Grande cosa la cultura, belle le bandiere con le quatre barres, “ma cos’è l’autonomia, senza autonomia fiscale?”. Ed è a questo punto che le affermazioni di principio si misurano con il realismo e il calcolo razionale. “Ci conviene pagare per restare nello Stato spagnolo? Quanto ci conviene pagare? Perché i baschi…”.
Già, Euskadi, l’altra provincia ribelle, oggi sorniona e attendista. Tanto compíti e razionali i catalani, quanto teste calde i baschi. La riluttanza di questi ultimi nei confronti dello Stato spagnolo si manifestava in tutte le declinazioni della sovversione politica, dal terrorismo dell’Eta alla guerriglia urbana sistematica e corrosiva della kale borroka. No, la Catalogna non ha conosciuto certe cose, se non in un brevissimo periodo durante la transizione con Terra lliure, un gruppo più che di fuoco di fuocherello. Peraltro scioltosi come neve al sole subito dopo l’approvazione della Costituzione spagnola, nel 1978, e il riconoscimento del concetto di nazionalità attraverso l’articolo 2 e la conseguente creazione delle comunità autonome. Il buon senso quindi diceva che bisognava aspettare e certamente la borghesia catalana, nazionalista o lealista che fosse, non avrebbe mai accettato comportamenti scellerati. Soprattutto non si sarebbe mai sottoposta al sistematico pagamento del pizzo rivoluzionario: “ci mancherebbe altro, già con tutto quello che dobbiamo versare a Madrid per mantenere andalusi ed estremegni, altre tasse proprio no…”.
Però il conflitto armato basco, considerato molto simile a quello nordirlandese, ha portato Madrid a negoziare – anche se mai direttamente con i rappresentanti dell’Eta – concessioni fiscali che i paciosi e pacifici catalani non hanno mai ottenuto. È il concerto economico basco, che permette dal 1981 a Euskadi di trattenere più risorse fiscali di altre comunità e di versare alle casse dello Stato centrale cifre discrezionali. Mentre i catalani pagano le imposte direttamente a Madrid, che poi restituisce a Barcellona circa la metà. La regione mediterranea ha sempre visto questa differenza di trattamento come un’ingiustizia e un implicito premio all’uso illegale della forza, cioè al terrorismo. Pujol era convinto che avrebbe potuto risolvere il problema con il Pp, ma non fu possibile, perché alle elezioni del 2000 Aznar ottenne la maggioranza assoluta. Il Pp non aveva più bisogno di negoziare con baschi e catalani per governare.
I conservatori spagnoli calarono la maschera e riservarono alle nazionalità una politica intransigente e a tratti revanscista. Sulla spinta di un boom che stava cambiando la Spagna, il governo operò arresti e requisizioni ai danni del “entorno de Eta” nei Paesi Baschi, mentre riservò disinteresse e supponenza alle richieste catalane. A Barcellona e dintorni, così come in Biscaglia, Gipuzkoa e in parte della Navarra, molti intravidero nelle politiche di Aznar un atteggiamento irrecuperabile, dettato dal “dna franchista della destra spagnola”: los fachas, els faixestes di ritorno.
Si trattava, insomma, della costante storica della Spagna, con le sue componenti più conservatrici poco inclini ad ascoltare e a cercare di comprendere le realtà locali e nazionali. Infatti, solo in extremis (e forse troppo tardi) il ministro dell’Economia Luis de Guindos, del governo conservatore guidato da Mariano Rajoy, ha offerto di aprire un tavolo negoziale con la Generalitat per discutere di “concessioni sulla questione fiscale” in cambio dell’annullamento del referendum del 1° ottobre. Oggi i catalani godono comunque di vantaggi fiscali molto simili a quelli delle regioni e delle province a statuto speciale italiane, condizioni che Lombardia e Veneto sottoscriverebbero in un baleno.
La storia non si fa con i “se”. Ma se ci fosse stato al governo il Partito socialista (Psoe), tradizionalmente più aperto alle rivendicazioni locali, le cose sarebbero andate diversamente. Le ultime concessioni fiscali infatti risalgono al 2006, con lo Statut de Catalunya voluto e negoziato dal governo Zapatero. All’epoca in Catalogna governava la coalizione del Tripartit: i socialisti del Psc (costola regionale del Psoe) di Montilla alla guida del Govern con gli alleati indipendentisti storici di Esquerra republicana de Catalunya e i comunisti di Esquerra unida. Zapatero, che aveva assunto come modello istituzionale esemplare quello della seconda repubblica del 1936-’39, intelligentemente riaprì il negoziato sulle nazionalità. La Catalogna ottenne l’Estatut d’autonomia, che ampliò le competenze e soprattutto permise a Barcellona di trattenere il 50% dell’Irpef e dell’Iva e il 58% delle accise.
Ma la Corte costituzionale spagnola bocciò alcuni articoli del nuovo statuto, considerandoli anti-costituzionali. Quello che provocò più polemiche fu il dettato statutario che definiva la Catalogna una “nazione”. L’idea di nació creava per molti una fonte di diritto addizionale, che avrebbe fornito le basi giuridiche per una futura legislazione indipendentista: insomma, l’autodeterminazione. Il termine “nazione”, riferito alla Catalogna, riportava la Spagna ai tempi di quella repubblica guidata da socialisti, forze marxiste di unità proletaria e partiti borghesi liberali di sinistra che venne travolta dalla guerra civile.
La crisi del 2008 fa saltare il tavolo. La Spagna si scopre più debole e molto meno prospera di quanto avesse pensato negli anni precedenti. Molti cittadini, catalani compresi, devono ancora oggi affrontare privazioni e restrizioni del loro livello di vita che mai avrebbero immaginato fino a qualche anno prima. Le agenzie di notazione (rating) e le banche internazionali planano sulla Spagna, senza troppi riguardi per i particolarismi locali.
La Catalogna ha acciacchi finanziari notevoli. Batte cassa a Madrid e vuole più concessioni fiscali per rinvigorire i propri buoni del tesoro. Il governo centrale, di nuovo espressione del Pp, non cede perché ha troppi grattacapi economici. Quello che comincia come un pungolo, uno strumento negoziale, diventa il casus belli per indire un referendum per l’indipendenza. Paradossalmente è un moderato di CiU come Artur Mas, presidente del govenro, a paventare l’extrema ratio. Sembra dire a Madrid: “Attenti che potremmo fare come la Scozia”.
Il governo Rajoy reagisce sdegnato. A Madrid pensano che Mas voglia fare dimenticare al suo elettorato moderato e non amante degli avventurismi i processi per corruzione che hanno travolto il partito e l’intera famiglia Pujol. La Catalogna parallelamente chiede finalmente delle concessioni fiscali. Madrid non sente e non risponde.
Nel 2014 il governo catalano, formato da una grande coalizione indipendentista, quasi sul modello di un’assemblea costituente, guidato da Mas, organizza e vince un referendum pro-indipendentista non vincolante, anche se l’affluenza è inferiore al 50%. Allo stesso tempo chiede a Madrid e alle istituzioni l’autodeterminazione come in Scozia, cioè la possibilità di votare un referendum vincolante nel quadro costituzionale spagnolo per decidere se lasciare la Spagna o restare. Il governo centrale, forte del suo essere uno Stato di diritto con una Costituzione moderna consensualmente accettata da tutte le forze politiche e dalle nazionalità, respinge la richiesta. Anche perché il caso catalano non rientra in quelli in cui il diritto internazionale impone l’autodeterminazione: regimi coloniali, occupazioni straniere e apartheid. La Corte costituzionale respinge inevitabilmente il referendum.
Le due parti ormai non si parlano più, soprattutto dopo che Puigdemont sostituisce Mas alla guida del governo catalano. Barcellona accusa: “Non ci ascoltano, non ci hanno mai ascoltati, è ora di farla finita!”. Quanto basta per ampliare la base del consenso referendario includendo anche settori moderati, tradizionalmente tutt’altro che separatisti.
C’è oltretutto una nuova variabile che Madrid non vuole vedere. Rajoy è l’esecutore perfetto dei compiti a casa assegnati da Angela Merkel. L’allievo modello della cancelliera taglia con zelo più di Mario Monti. Le politiche di austerity colpiscono soprattutto le nuove generazioni, anche in Catalogna. Sono giovani cresciuti e formati nelle scuole riformate ai tempi di Pujol, dunque con un’idea di Catalogna che è altro rispetto alla Spagna. Identificano le cause delle frustrazioni sociali con “le risorse che devono versare per mantenere il resto della Spagna”. Vedono quindi nell’indipendenza la speranza messianica di una prosperità da recuperare senza zavorre. Inoltre i catalani rivendicano cifre alla mano come Madrid abbia smesso da oltre un decennio di investire in lavori pubblici nella loro comunità autonoma, privilegiando grandi opere altrove – soprattutto al Sud, “con i nostri soldi”.
Ecco dunque come l’idea di “incomprensione e cocciutaggine madrilene” distillano l’eccezionalismo catalano, fondatosi su un certo senso di superiorità. Un atteggiamento che esaspera gli spagnoli. Addirittura in comunità autonome che hanno condiviso secoli di storia con la Catalogna, come Valencia e l’Aragona, c’è chi boicotta i prodotti catalani.
In tale contesto bisogna chiedersi se la strategia del governo Rajoy, impeccabile dal punto di vista giuridico, compresi addirittura gli arresti e gli interventi della Guardia Civil, lo sia altrettanto dal punto di vista politico. Forse ci si dimentica troppo spesso che l’epilogo violento non è un aspetto estraneo al processo politico, anzi, ne è parte integrante. Pur nella sua eccezionalità è semplicemente lo sviluppo naturale di una situazione di forze opposte che non trovano una soluzione pacifica. Insomma, è il proseguimento della politica con altri mezzi.
Le basi per le incomprensioni pericolose ci sono tutte. Prendiamo l’esempio di Unai, un nazionalista basco residente a Barcellona da quasi trent’anni, favorevole all’indipendenza catalana. Mentre parla di integrazione dei migranti musulmani passa inevitabilmente al contesto spagnolo, assimilando totalmente chi viene dal Maghreb ad altri spagnoli, e dice ammirato: “Un esempio di integrazione corretto è quello di un andaluso che conosco: si chiama José, ma ora si fa chiamare Josep e parla solo catalano. Ecco, su queste basi ci possiamo intendere”.
L’indipendentismo catalano ha radici antichissime, ma oggi è un fattore decisivo a causa di quanto accaduto negli ultimi dieci anni. La crisi economica e gli impopolari governi del Partito popolare hanno fatto precipitare i rapporti tra Barcellona e Madrid.
Non del tutto fuori dalla crisi, la Spagna si riscopre plurale e addirittura con l’unità nazionale in pericolo.
La Catalogna scalpita come nemmeno ai tempi della guerra civile e punta diretta all’indipendenza, da sancire con un “Sì” referendario il 1° ottobre.
Nella tenzone tra Barcellona e Madrid i soldi hanno un loro peso, forse più che in altri rapporti conflittuali. Soprattutto per un popolo, come il catalano, che fa del seny, il buon senso, un principio guida fin dai tempi dei conti di Urgell. Il seny è una versione mediterranea del rapporto sostanziale tra l’utilitarismo e il common sense degli inglesi. E dato che di soldi si parla, il fatto che la Catalogna sia la più indebitata delle comunità autonome spagnole ha un suo peso nel litigio attuale.
La storia del debito catalano coincide in certa misura con quella dei rapporti politici con Madrid dell’ultimo decennio e poco più. Barcellona deve oltre 75 miliardi di euro allo Stato centrale. L’affare è serio, ma nessuno dei due campi (pro- e anti-indipendenza) può utilizzarlo a pieno come arma nella disputa sui futuri assetti geopolitici del paese iberico.
Il buco finanziario è il risultato della crisi del 2008 che ha duramente colpito i paesi dell’Europa meridionale. Nel primo decennio del secolo, quando l’economia spagnola cresceva quasi a ritmi asiatici, l’indipendentismo catalano (che ha radici antichissime e di alto lignaggio) poteva contare su uno scarso 20% dei consensi. Oggi, come informano sondaggi più o meno attendibili, attira una metà circa degli intervistati.
All’entrata di tutti i comuni della Catalogna rurale, nell’Ampurdán (Empordà in catalano), svetta l’Estelada, la bandiera con la stella bianca in campo blu e le quattro strisce giallo-rosse. È il vessillo dell’ipotetica repubblica indipendente. In alcuni casi le stelle anziché bianche sono rosse: è la bandiera della Cup, l’indipendentismo di sinistra radicale. Qui una maggioranza consistente della popolazione si sente spagnola come potrebbe sentirsi cinese. “Siamo catalani ed è la volta buona” ripetono in molti, come se si trovassero a un appuntamento con la storia dopo secoli di “una sottomissione culturale e politica al colonialismo castigliano” incarnato da Madrid. È vero, oggi lo Stato centrale spagnolo è paradossalmente più debole che in altre circostanze, mentre i catalani possono andar fieri di una città come Barcellona, in testa a tutte le classifiche che contano nella globalizzazione: innovazione, ricettività turistica, economia digitale, design, integrazione dei migranti, qualità della vita.
I discorsi si concentrano sulla lingua e la cultura “represse da secoli”, sull’identità occitana di un popolo che “nulla ha a che fare con la composizione etnica del mosaico ispanico”. Lingua e cultura sono ormai diritti certi e metabolizzati, il catalano si parla e si scrive in ogni angolo della Catalogna. Nelle scuole il castigliano è insegnato come altra lingua straniera. Televisioni, radio, siti Internet, letteratura, la llengua di Pompeu Fabra è ovunque, anche grazie ai provvedimenti strappati tra il 1996 e il 2000 da Jordi Pujol (all’epoca presidente della Generalitat, oggi in disgrazia per le accuse di corruzione) in estenuanti negoziati con l’allora premier di centro-destra del governo centrale, José-Maria Aznar. Il Partido popular (Pp), non avendo maggioranza assoluta in quella legislatura, doveva contare sull’appoggio esterno dei partiti moderati basco (Pnv) e catalano (Convergència i Unió, di Jordi Pujol). Tra il 1997 e il 1998 Pujol ottenne la competenza assoluta sull’istruzione pubblica. Ciò permise alla Generalitat di introdurre un insegnamento della storia catalanocentrico, radicalmente diverso, se non antagonista, rispetto a quello del resto dello “Stato spagnolo”, come viene ufficialmente definita la Spagna da queste parti.
Grande cosa la cultura, belle le bandiere con le quatre barres, “ma cos’è l’autonomia, senza autonomia fiscale?”. Ed è a questo punto che le affermazioni di principio si misurano con il realismo e il calcolo razionale. “Ci conviene pagare per restare nello Stato spagnolo? Quanto ci conviene pagare? Perché i baschi…”.
Già, Euskadi, l’altra provincia ribelle, oggi sorniona e attendista. Tanto compíti e razionali i catalani, quanto teste calde i baschi. La riluttanza di questi ultimi nei confronti dello Stato spagnolo si manifestava in tutte le declinazioni della sovversione politica, dal terrorismo dell’Eta alla guerriglia urbana sistematica e corrosiva della kale borroka. No, la Catalogna non ha conosciuto certe cose, se non in un brevissimo periodo durante la transizione con Terra lliure, un gruppo più che di fuoco di fuocherello. Peraltro scioltosi come neve al sole subito dopo l’approvazione della Costituzione spagnola, nel 1978, e il riconoscimento del concetto di nazionalità attraverso l’articolo 2 e la conseguente creazione delle comunità autonome. Il buon senso quindi diceva che bisognava aspettare e certamente la borghesia catalana, nazionalista o lealista che fosse, non avrebbe mai accettato comportamenti scellerati. Soprattutto non si sarebbe mai sottoposta al sistematico pagamento del pizzo rivoluzionario: “ci mancherebbe altro, già con tutto quello che dobbiamo versare a Madrid per mantenere andalusi ed estremegni, altre tasse proprio no…”.
Però il conflitto armato basco, considerato molto simile a quello nordirlandese, ha portato Madrid a negoziare – anche se mai direttamente con i rappresentanti dell’Eta – concessioni fiscali che i paciosi e pacifici catalani non hanno mai ottenuto. È il concerto economico basco, che permette dal 1981 a Euskadi di trattenere più risorse fiscali di altre comunità e di versare alle casse dello Stato centrale cifre discrezionali. Mentre i catalani pagano le imposte direttamente a Madrid, che poi restituisce a Barcellona circa la metà. La regione mediterranea ha sempre visto questa differenza di trattamento come un’ingiustizia e un implicito premio all’uso illegale della forza, cioè al terrorismo. Pujol era convinto che avrebbe potuto risolvere il problema con il Pp, ma non fu possibile, perché alle elezioni del 2000 Aznar ottenne la maggioranza assoluta. Il Pp non aveva più bisogno di negoziare con baschi e catalani per governare.
I conservatori spagnoli calarono la maschera e riservarono alle nazionalità una politica intransigente e a tratti revanscista. Sulla spinta di un boom che stava cambiando la Spagna, il governo operò arresti e requisizioni ai danni del “entorno de Eta” nei Paesi Baschi, mentre riservò disinteresse e supponenza alle richieste catalane. A Barcellona e dintorni, così come in Biscaglia, Gipuzkoa e in parte della Navarra, molti intravidero nelle politiche di Aznar un atteggiamento irrecuperabile, dettato dal “dna franchista della destra spagnola”: los fachas, els faixestes di ritorno.
Si trattava, insomma, della costante storica della Spagna, con le sue componenti più conservatrici poco inclini ad ascoltare e a cercare di comprendere le realtà locali e nazionali. Infatti, solo in extremis (e forse troppo tardi) il ministro dell’Economia Luis de Guindos, del governo conservatore guidato da Mariano Rajoy, ha offerto di aprire un tavolo negoziale con la Generalitat per discutere di “concessioni sulla questione fiscale” in cambio dell’annullamento del referendum del 1° ottobre. Oggi i catalani godono comunque di vantaggi fiscali molto simili a quelli delle regioni e delle province a statuto speciale italiane, condizioni che Lombardia e Veneto sottoscriverebbero in un baleno.
La storia non si fa con i “se”. Ma se ci fosse stato al governo il Partito socialista (Psoe), tradizionalmente più aperto alle rivendicazioni locali, le cose sarebbero andate diversamente. Le ultime concessioni fiscali infatti risalgono al 2006, con lo Statut de Catalunya voluto e negoziato dal governo Zapatero. All’epoca in Catalogna governava la coalizione del Tripartit: i socialisti del Psc (costola regionale del Psoe) di Montilla alla guida del Govern con gli alleati indipendentisti storici di Esquerra republicana de Catalunya e i comunisti di Esquerra unida. Zapatero, che aveva assunto come modello istituzionale esemplare quello della seconda repubblica del 1936-’39, intelligentemente riaprì il negoziato sulle nazionalità. La Catalogna ottenne l’Estatut d’autonomia, che ampliò le competenze e soprattutto permise a Barcellona di trattenere il 50% dell’Irpef e dell’Iva e il 58% delle accise.
Ma la Corte costituzionale spagnola bocciò alcuni articoli del nuovo statuto, considerandoli anti-costituzionali. Quello che provocò più polemiche fu il dettato statutario che definiva la Catalogna una “nazione”. L’idea di nació creava per molti una fonte di diritto addizionale, che avrebbe fornito le basi giuridiche per una futura legislazione indipendentista: insomma, l’autodeterminazione. Il termine “nazione”, riferito alla Catalogna, riportava la Spagna ai tempi di quella repubblica guidata da socialisti, forze marxiste di unità proletaria e partiti borghesi liberali di sinistra che venne travolta dalla guerra civile.
La crisi del 2008 fa saltare il tavolo. La Spagna si scopre più debole e molto meno prospera di quanto avesse pensato negli anni precedenti. Molti cittadini, catalani compresi, devono ancora oggi affrontare privazioni e restrizioni del loro livello di vita che mai avrebbero immaginato fino a qualche anno prima. Le agenzie di notazione (rating) e le banche internazionali planano sulla Spagna, senza troppi riguardi per i particolarismi locali.
La Catalogna ha acciacchi finanziari notevoli. Batte cassa a Madrid e vuole più concessioni fiscali per rinvigorire i propri buoni del tesoro. Il governo centrale, di nuovo espressione del Pp, non cede perché ha troppi grattacapi economici. Quello che comincia come un pungolo, uno strumento negoziale, diventa il casus belli per indire un referendum per l’indipendenza. Paradossalmente è un moderato di CiU come Artur Mas, presidente del govenro, a paventare l’extrema ratio. Sembra dire a Madrid: “Attenti che potremmo fare come la Scozia”.
Il governo Rajoy reagisce sdegnato. A Madrid pensano che Mas voglia fare dimenticare al suo elettorato moderato e non amante degli avventurismi i processi per corruzione che hanno travolto il partito e l’intera famiglia Pujol. La Catalogna parallelamente chiede finalmente delle concessioni fiscali. Madrid non sente e non risponde.
Nel 2014 il governo catalano, formato da una grande coalizione indipendentista, quasi sul modello di un’assemblea costituente, guidato da Mas, organizza e vince un referendum pro-indipendentista non vincolante, anche se l’affluenza è inferiore al 50%. Allo stesso tempo chiede a Madrid e alle istituzioni l’autodeterminazione come in Scozia, cioè la possibilità di votare un referendum vincolante nel quadro costituzionale spagnolo per decidere se lasciare la Spagna o restare. Il governo centrale, forte del suo essere uno Stato di diritto con una Costituzione moderna consensualmente accettata da tutte le forze politiche e dalle nazionalità, respinge la richiesta. Anche perché il caso catalano non rientra in quelli in cui il diritto internazionale impone l’autodeterminazione: regimi coloniali, occupazioni straniere e apartheid. La Corte costituzionale respinge inevitabilmente il referendum.
Le due parti ormai non si parlano più, soprattutto dopo che Puigdemont sostituisce Mas alla guida del governo catalano. Barcellona accusa: “Non ci ascoltano, non ci hanno mai ascoltati, è ora di farla finita!”. Quanto basta per ampliare la base del consenso referendario includendo anche settori moderati, tradizionalmente tutt’altro che separatisti.
C’è oltretutto una nuova variabile che Madrid non vuole vedere. Rajoy è l’esecutore perfetto dei compiti a casa assegnati da Angela Merkel. L’allievo modello della cancelliera taglia con zelo più di Mario Monti. Le politiche di austerity colpiscono soprattutto le nuove generazioni, anche in Catalogna. Sono giovani cresciuti e formati nelle scuole riformate ai tempi di Pujol, dunque con un’idea di Catalogna che è altro rispetto alla Spagna. Identificano le cause delle frustrazioni sociali con “le risorse che devono versare per mantenere il resto della Spagna”. Vedono quindi nell’indipendenza la speranza messianica di una prosperità da recuperare senza zavorre. Inoltre i catalani rivendicano cifre alla mano come Madrid abbia smesso da oltre un decennio di investire in lavori pubblici nella loro comunità autonoma, privilegiando grandi opere altrove – soprattutto al Sud, “con i nostri soldi”.
Ecco dunque come l’idea di “incomprensione e cocciutaggine madrilene” distillano l’eccezionalismo catalano, fondatosi su un certo senso di superiorità. Un atteggiamento che esaspera gli spagnoli. Addirittura in comunità autonome che hanno condiviso secoli di storia con la Catalogna, come Valencia e l’Aragona, c’è chi boicotta i prodotti catalani.
In tale contesto bisogna chiedersi se la strategia del governo Rajoy, impeccabile dal punto di vista giuridico, compresi addirittura gli arresti e gli interventi della Guardia Civil, lo sia altrettanto dal punto di vista politico. Forse ci si dimentica troppo spesso che l’epilogo violento non è un aspetto estraneo al processo politico, anzi, ne è parte integrante. Pur nella sua eccezionalità è semplicemente lo sviluppo naturale di una situazione di forze opposte che non trovano una soluzione pacifica. Insomma, è il proseguimento della politica con altri mezzi.
Le basi per le incomprensioni pericolose ci sono tutte. Prendiamo l’esempio di Unai, un nazionalista basco residente a Barcellona da quasi trent’anni, favorevole all’indipendenza catalana. Mentre parla di integrazione dei migranti musulmani passa inevitabilmente al contesto spagnolo, assimilando totalmente chi viene dal Maghreb ad altri spagnoli, e dice ammirato: “Un esempio di integrazione corretto è quello di un andaluso che conosco: si chiama José, ma ora si fa chiamare Josep e parla solo catalano. Ecco, su queste basi ci possiamo intendere”.
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