lunedì 6 luglio 2020

PER LE ÉLITE STATUNITENSI, LO SCONTRO CON LA CINA É LA PARTITA DEL SECOLO - LA RICERCA DELLA SCINTILLA - di Lucio CARACCIOLO



Aumentano gli incontri ravvicinati a scopo intimidatorio tra Washington e Pechino. I duellanti stanno creando le condizioni materiali per generare la scintilla che giurano di non volere.


Due gruppi navali della Marina statunitense, guidati dalle portaerei Nimitz e Reagan, sono nel Mar delle Filippine. Nello stesso specchio d’acqua, che per loro è Mar Cinese Meridionale, si esercitano fino a domenica* unità di élite della Marina dell’Esercito popolare di liberazione, la forza navale di Pechino. Altre navi americane incrociano nello Stretto di Formosa, sorvolate con nervosa frequenza da caccia cinesi.

Incontri ravvicinati di rara intensità, a scopo intimidatorio. Il rischio che trascendano in incidenti è per ora limitato. Le linee telefoniche riservate che collegano i leader militari e politici di Washington e di Pechino dovrebbero impedire che uno scontro accidentale produca escalation.

Stante la concentrazione di uomini e mezzi, sarebbe peraltro fantasioso definire incidente una collisione fra i rivali. I duellanti stanno creando le condizioni materiali per generare la scintilla che giurano di non volere.

Allo stesso tempo, poco più a nord nel medesimo quadrante strategico, la Repubblica Popolare ha tracciato definitivamente la sua linea rossa: Hong Kong non sarà mai indipendente, tantomeno democratica. La legge sulla sicurezza nazionale varata da Pechino è entrata in vigore nel Porto Profumato. D’ora in poi chi osi sventolare la bandiera dell’indipendenza verrà arrestato e processato per le spicce. Detto fatto. Il 1° luglio un manifestante è sceso in strada a Hong Kong agitando il vessillo indipendentista e la polizia l’ha subito trasferito in custodia. Ma che accadrà se altri seguiranno? E fino a che punto le forze di sicurezza locali (ergo cinesi), abili finora nell’evitare che le dimostrazioni di massa finissero in strage, saranno disposte a non sparare – e viceversa?

Non è solo la prossimità delle elezioni presidenziali a indurre l’amministrazione Trump ad inasprire lo scontro con Pechino. Certo, si tratta dell’unico dossier che trova consenso anche nel campo di Biden. Ma per le élite strategiche di Washington questa è la partita del secolo. Perderla significa rinunciare al primato mondiale. Nel contesto di caos e polarizzazione socio-politica corrente, la sconfitta potrebbe mettere in questione la sicurezza nazionale.

L’obiettivo è chiaro: abbattere il regime del Partito comunista e frammentare la Cina, riportandola alla condizione di totale inconsistenza geopolitica sperimentata per il secolo del disonore, fra metà Ottocento e metà Novecento.

Xi Jinping è sulla difensiva. Per questo sollecita l’orgoglio patriottico e mobilita le masse nel sacro richiamo alla protezione del territorio nazionale. Perché tale è Hong Kong – “un paese due sistemi” vuole dire un paese, il sistema locale essendo più che provvisorio, in via di revoca – e tali sono i mari cinesi, Meridionale e Orientale. Già nel 2010 Hu Jintao, morbido predecessore dell’attuale leader, aveva elevato quelle acque a spazio nazionale, per il quale la Repubblica Popolare sarebbe stata pronta a combattere. A Pechino sanno bene che quando parlano di «operazioni per la libertà di navigazione» gli americani intendono ricordare al rivale che in caso di guerra la loro flotta è pronta a bloccare gli stretti che in quei mari tracciano le vitali rotte commerciali da e verso la Cina. Per informazioni rivolgersi ai giapponesi (seconda guerra mondiale).

Intanto il Pentagono fa circolare scenari della cosiddetta «guerra litoranea del 2025», volutamente catastrofici. Conflitto limitato, nel quale ovviamente prevarrebbero i cinesi, costringendo gli americani a mollare la presa. Classica mossa da raccolta fondi, come le burocrazie militari usavano un tempo agitando lo spauracchio della superpotenza sovietica. A forza di dipingere scenari di declino e d’impotenza, gli strateghi americani rischiano però di indurre la propria opinione pubblica (forse anche se stessi), a credere che quel tattico catastrofismo sia realtà.

Magari illudendo qualcuno, nei palazzi di Pechino, che sia giunto il momento di raccogliere la sfida. Non fosse che per tenere unito un paese che rischia di sfuggirgli da tutte le parti.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su la Stampa

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