giovedì 23 luglio 2020

IL BILANCIO DEL CONSIGLIO EUROPEO: IL PROBLEMA PIÙ GRANDE DEI FRUGALI NON È L'ITALIA. È LA GERMANIA - Un articolo di Dario Fabbri per Limes On Line



IL BILANCIO DEL CONSIGLIO EUROPEO [di Dario Fabbri]
Il Consiglio Europeo ha raggiunto un’intesa sul rilancio economico dell’Unione, attraverso un fondo collegato al prossimo bilancio comunitario, composto da 390 miliardi di euro in sussidi e 360 miliardi in prestiti convenzionali.
Perché conta: Al di là dei proclami trionfalistici, della retorica di queste ore, l’accordo ha una sottaciuta valenza geopolitica. In sintesi: la Germania ha inteso spendersi per salvare il mercato comune, garantendo con la propria solidità le obbligazioni con cui la commissione finanzierà il fondo di ripresa – recovery f(o)und, secondo la sgrammaticata dizione in voga in Italia, quasi a segnalarne la percepita natura di risorsa piovuta dal cielo.
Per anni Limes ha spiegato che, contrariamente alla vulgata, non solo Berlino non avrebbe cacciato nessuno dall’eurozona, ma si sarebbe prodigata per puntellare i membri più deboli – superata la fase di bluff. Quanto puntualmente accaduto in questi giorni, in particolare in favore del Nord Italia che vive nella teutonica catena del valore. Troppi i benefici per la Germania dall’esistenza dell’euro in termini di esportazioni, di coinvolgimento delle strutture produttive altrui, sebbene la moneta unica fu inizialmente pensata contro di essa.
Il punto è stabilire se, finalmente capace di porsi al centro di uno spazio commerciale, Berlino vorrà trasformare la propria influenza economica in geopolitica. È quanto temono i satelliti della Repubblica Federale, i cosiddetti “frugali” – perché alcuni paradisi fiscali siano detti frugali rimane mistero – impegnati nei secoli a scongiurare d’essere dominati dal soggetto che temporaneamente incarna il nucleo germanico. Di qui, ben oltre le questioni fiscali, le uniche comprese alle nostre latitudini, la principale ragione dell’opposizione di Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Svezia, preoccupate dalla possibilità che la Germania smetta i panni di stordita potenza commerciale per indossare quelli di consapevole potenza geopolitica, con inevitabili conseguenze sul loro margine di manovra. Terrore alleviato in piena notte da Berlino aumentando gli sconti alla contribuzione del bilancio europeo di cui olandesi e soci già beneficiano.
Potenziale nuovo corso teutonico cui guardano con attenzione gli Stati Uniti, ossessionati da qualsiasi velleità berlinese, da qualsiasi scatto in avanti della cancelleria. Preoccupazioni che da tempo hanno guastato le relazioni bilaterali e che nei prossimi anni potrebbero condurre alla definitiva rottura tra i due paesi. Ciò invece non inquieta minimamente l’Italia, incapace di guardare oltre le questioni economicistiche, troppo impegnata a sopravvivere per interrogarsi su cosa può succedere se la Germania torna a essere uno Stato compiuto, se si intesta il destino del continente. Eppure è l’unica potenziale svolta di lungo periodo, assai più rilevante dei prossimi negoziati comunitari su come il nostro paese (e non solo) dovrà spendere i soldi promessi, sepolta nel clamore di queste ore.

martedì 21 luglio 2020

TANTI, FORSE TROPPI SOLDI PER L'ITALIA. E UNA FOTOGRAFIA IMPIETOSA - Un primo articolo di commento sull' accordo sui fondi europei - Fabrizio Maronta su Limes On Line


Pubblicato su LimesOnLine 21/7/20
Date le premesse, il Consiglio Europeo è andato abbastanza bene per l'Italia, abbastanza male per l’Europa unita.

C’è il quanto, che è importante. E c’è il come, che non lo è di meno.

Il Consiglio Europeo fiume di Bruxelles (secondo, per lunghezza, solo a quello di Nizza del 2000) ha prodotto un risultato tutto sommato soddisfacente, considerate le premesse. Ma lo ha fatto al prezzo di un ulteriore approfondimento della faglia tra “cicale” e “formiche” che spacca l’Unione Europea dal 2008. Lascito avvelenato di una crisi del debito e della moneta unica innescata dal disastro dei mutui subprime statunitensi, ma la cui genesi era inscritta in un’unione monetaria nata all’insegna dell’eterogeneità fiscale, economica, culturale. E del ricatto reciproco.

L’accordo raggiunto nelle prime ore del 21 luglio non cambia l’ammontare complessivo del Next generation EU presentato a maggio dalla Commissione europea, confermando in toto i 750 miliardi inizialmente ipotizzati. Tuttavia, ridefinisce il rapporto tra contributi a fondo perduto (grants) e prestiti (loans): 390 miliardi di euro i primi, 360 i secondi. Non lontano da quel pareggio tra prestiti e sussidi cui i cosiddetti “frugali”, capeggiati dall’Olanda, puntavano. Di questi danari, la Resilience and Recovery Facility, cuore del fondo per il rilancio economico allocato direttamente agli Stati membri, ammonterà a 312,5 miliardi. Ridotti sono invece i trasferimenti sotto specie di singoli programmi europei, pari ora a 77,5 miliardi rispetto ai 190 suggeriti dalla Commissione: azzerato lo Eu4Healt (il nuovo programma europeo per la sanità), fortemente ridimensionati il Just Transition Fund e il Fondo agricolo per lo sviluppo rurale. Il volume totale del bilancio europeo resta invariato a 1.074 miliardi, a garanzia delle future erogazioni già concordate prima della pandemia nei negoziati sul periodo di programmazione 2021-27.

Nell’insieme, l’Italia si assicura 209 miliardi: più dei 172,7 indicati nel piano originale della Commissione, sebbene sia aumentata solo la quota di prestiti (da 91 a 127), mentre i contributi a fondo perduto restano invariati rispetto alla bozza originaria. Su questo occorre una prima, importante precisazione.

I soldi sono molti, forse troppi per le limitate capacità di programmazione e spesa di un paese che difficilmente riesce a spendere più di un terzo dei fondi europei a esso destinati, ma vogliamo credere – con un atto di fede – che sulla scia del Covid-19 questa volta sarà diverso. Notevole è anche il salto di qualità imposto dalla Germania (in primis) e dalla Francia al meccanismo di aiuti: la quota “a fondo perduto” rappresenta, di fatto, una forma di mutualizzazione del debito della quale occorre dare atto a Berlino, senza la cui garanzia sovrana le obbligazioni che la Commissione europea emetterà a breve per reperire le necessarie risorse non potrebbero mai e poi mai godere della (auspicata) tripla A.

Tuttavia, è bene non illudersi che il fondo “perduto” sia davvero tale. I titoli emessi dalla Commissione diverranno infatti debito pubblico europeo, che la Ue (la quale vive di contributi nazionali) sarà chiamata a rifondere ai creditori (gli investitori che ne compreranno i titoli) secondo i tempi (dal 2028 al 2058) e i tassi stabiliti. Di questo debito risponderanno i paesi europei in proporzione a quanto versano al bilancio comunitario – l’Italia è terzo contributore netto dopo Germania e Francia – e c’è da scommettere che questa responsabilità non sarà in solido. Cioè che in caso di inadempienza di uno Stato, gli altri non copriranno la sua quota. O, se lo faranno, si rivarranno poi su di esso. Ciò a scongiurare quella Transferunion (di fatto, un fisco federale in cui alcuni paesi coprono debito e disavanzo altrui) aborrita dagli elettorati dell’Europa centro-settentrionale.

In quest’ottica vanno letti due aspetti importanti dell’accordo.
Il primo è la contropartita finanziaria pretesa dai “frugali”, concretizzatasi nell’aumento dei rebates (storni, restituzioni) sulla loro quota nazionale di bilancio comunitario: 322 milioni annui alla Danimarca (rispetto ai 222 milioni della prima proposta),  1,921 miliardi all’Olanda (partiva da 1,576), 565 milioni all’Austria (dai 287 iniziali), 1,069 miliardi alla Svezia (da 823 milioni), mentre i 3,67 miliardi della Germania restano invariati. Non si tratta solo di avere più soldi ora (e in futuro, dato che il criterio di ripartizione resta); si tratta anche di ridurre l’incidenza percentuale della propria quota di contribuzione al bilancio Ue in una prospettiva, lontana ma non remota, di restituzione dei capitali agli investitori dei bond comunitari. Specie se tali investitori dovessero essere (anche) proprie banche, che in tal modo si vedrebbero in parte finanziate dagli altri paesi membri.


Il secondo aspetto riguarda la famigerata condizionalità politica, cioè la presenza di regole di condotta per la spesa dei fondi, sanzionabili con il ritiro degli stessi. Dopo tre notti insonni, a vedere la luce è il cosiddetto “super freno di emergenza”: i piani presentati dagli Stati membri saranno approvati dal Consiglio Europeo (cioè dai governi) a maggioranza qualificata, mentre il Comitato economico e finanziario (Cef) – composto dai tecnici dei ministri delle Finanze nazionali – valuterà il rispetto delle tabelle di marcia e degli obiettivi fissati per l’attuazione dei piani. In caso di problemi, anche un singolo paese potrà chiedere di portare la questione sul tavolo del Consiglio europeo (di nuovo, i governi), che avrà tre mesi per decidere. Niente automatismi dunque, ma trattative politiche a oltranza. Senza sconti.

Ma è sul piano strettamente geopolitico che il vertice produce i suoi effetti maggiori.

L’istantanea dell’Europa che emerge dal vertice è impietosa. Olanda, Austria, Svezia e Danimarca, con la tardiva ma convinta aggiunta della Finlandia, integrano il cosiddetto asse dei “frugali”, contrari a qualsiasi forma di mutualizzazione del debito (Tre su cinque hanno un governo socialdemocratico ndr).
Poco importa che il premier olandese Mark Rutte e la finlandese Sanna Marin siano stati in parte costretti a irrigidire le proprie posizioni dalla necessità di non farsi scavalcare a destra dai rispettivi “populisti”, la cui sconfitta alle urne è un plus che si sono ben spesi in sede negoziale. La loro irriducibile opposizione di principio agli aiuti europei ha ulteriormente approfondito il fossato tra Nord e Sud d’Europa, specie con Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, rendendolo nel medio periodo forse incolmabile. Al pari del divario economico che separa queste due parti del Vecchio Continente, alla cui riduzione non concorre di certo il dumping fiscale (concorrenza sleale) che diversi tra i “frugali” continuano imperterriti a praticare, con buona pace altrui.

Parallelamente, il Gruppo di Visegrád composto da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria si è confermato un’aggregazione efficace, quando attivata. I quattro hanno scongiurato qualsiasi condizionalità che vincolasse l’uso degli aiuti concordati al rispetto dello Stato di diritto. Così confermandosi “sovranisti”, per usare la vulgata di moda. Meglio: vedendo una volta di più il bluff di un’Europa solidale e liberale a corrente alternata, in base alle convenienze dei suoi singoli componenti.

Una nota a parte merita il presunto asse franco-tedesco, meglio definibile come vagone francese al traino della corazzata tedesca. Pur scontando un’acrimonia dei “frugali” messa in conto – anzi, spesso usata ad arte – ma forse superiore alle sue stesse aspettative, Angela Merkel è stata il deus ex machina di questo accordo. Figlio della convenienza: quella dell’industria tedesca a non dinamitare un mercato unico da cui trae enormi vantaggi e quella della stessa cancelliera che, con un occhio al voto del 2021, non vuol’essere ricordata come colei che ha presieduto alla disintegrazione della Ue. Ma frutto anche di un europeismo oggi non scontato. Un europeismo interessato, com’è giusto che sia. Dal momento che, dovrebbe essere ormai chiaro, uccidere lo Stato non è il viatico per la fantomatica “buona Europa” di cui a lungo si è vagheggiato.

Qui il discorso piega sull’Italia. Che ha avuto la sfortuna di essere investita per prima e più di altri in Europa dall’onda d’urto epidemica, nonché il demerito di averla affrontata con l’arma spuntata di un Servizio sanitario nazionale per anni metodicamente demolito, come il grosso dei nostri apparati pubblici. Che ha battuto i pugni per “i soldi subito” e discetta ancora se usare o meno il Mes, come se davvero avesse alternative. Che è giunta a Bruxelles unica tra i 27 Stati membri senza aver presentato un compiuto piano di interventi e riforme da finanziare con il Recovery Fund, attirandosi i sospiri tedeschi e le ire dei “frugali”, cui ha reso particolarmente facile il gioco. E che – è una previsione: vale quel che vale – vedrà la sua instabile, ossimorica maggioranza, a partire dal suo volenteroso premier, spendersi per settimane, forse mesi preziosi il risultato di Bruxelles in chiave politico-elettorale.

Demandando magari a non ben precisati “tecnici” la definizione di quella politica economica cui affidare, anche con i quattrini europei, la miracolosa rinascita del paese.




sabato 18 luglio 2020

UNA VIA D'ACQUA TRA MAR BALTICO E MAR NERO - I canali navigabili della waterway E40 tra Polonia, Bielorussia e Ucraina - Investitori olandesi stanno esplorando la possibilità di collegare la E40 alla E70, via d’acqua che collega Rotterdam alla Polonia

Un’infrastruttura pensata anche in funzione antirussa.

La carta inedita a colori della settimana è sul progetto infrastrutturale della via d’acqua E40 tra Polonia, Bielorussia e Ucraina, contraltare eurorientale al grandioso piano russo di portare la città di Mosca ai mari.

La E40 dovrebbe collegare il Mar Baltico e il Mar Nero sfruttando il corso della Vistola fino a Varsavia e quello del fiume Bug fino a Brest (in Bielorussia), scavando un canale fino a Pinsk, immettendosi nel Pryp’jat’ e dal confine con l’Ucraina in poi discendendo il Dnepr sino all’estuario meridionale, per un tracciato di circa 2 mila chilometri.

La E40 non è inserita nei progetti dell’Iniziativa dei Tre Mari (Trimarium), consorzio tra i 12 membri orientali dell’Unione Europea ideato proprio per aumentare i collegamenti infrastrutturali energetici e viari tra questi paesi. Il motivo è essenzialmente che Ucraina e Bielorussia non fanno parte dell’Ue e l’unico membro che ne trarrebbe beneficio sarebbe la Polonia. Tuttavia, il risvolto geopolitico che la caratterizza la rende pienamente in linea con la strategia che sottende il Trimarium. Poiché esattamente come quest’ultimo, anch’essa nasce per sganciare gli ex satelliti dell’Urss dalla dipendenza russa.

Il progetto risale a fine anni Novanta; fu inserito nel Partenariato orientale dell’Ue e persino celebrato nei francobolli ucraini. Per anni è rimasto inattivo, finché nel 2019 qualcosa è tornato a muoversi.

La Bielorussia ha riaperto il dialogo, una delle tante mosse di Minsk per ridurre l’influenza della Russia. Kiev ha dirottato verso la costruzione di canali fondi destinati alle autostrade. Varsavia ha iniziato a cercare sui mercati i 20 miliardi di dollari che si stima servano per il canale del Bug. Sono stati contattati istituti di credito tedeschi e cinesi. La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e la Banca europea per gli investimenti hanno segnalato un iniziale interesse e alcuni investitori olandesi stanno esplorando la possibilità di collegare la E40 alla E70, via d’acqua che collega Rotterdam alla Polonia attraversando la piana settentrionale europea. In questo modo i neerlandesi rafforzerebbero il loro ruolo di porta d’accesso delle rotte fluviali interne al Vecchio Continente.

A ingolosire gli strateghi è anche la possibilità di condurre navi da guerra dal Baltico nel cuore dell’Europa, aggirando i Dardanelli e la relativa convenzione di Montreux che vieta di schierare flotte oltre un certo lasso di tempo nel Mar Nero. Il sogno sarebbe di avvicinare il contenimento navale al confine della Russia, relativizzando il suo controllo pressoché totale sul bacino eusino. Non si considera tuttavia la vicinanza all’imbocco della E40 di Kaliningrad, avamposto di Mosca sul Baltico armato fino ai denti.

Oltre agli aspetti finanziari, tre sono gli ostacoli di fronte alla E40. Il primo è l’impatto ambientale dell’opera, che attraverserebbe alcuni siti protetti e che ha fatto sollevare l’opposizione di diversi attivisti. Il secondo è Chernobyl, che sorge lungo il percorso tra il confine bielorusso e Kiev. La contaminazione attorno all’ex centrale nucleare sovietica esplosa nel 1986 è ancora elevatissima, come dimostra l’allarme dei mesi scorsi per gli incendi nei pressi del sito. Il terzo è la portualità fluviale, complessivamente assai sottosviluppata.

Molto promettente a livello strategico, problematica nella sua realizzazione, la E40 è un buon esempio del limbo in cui si trovano i progetti infrastrutturali nell’Europa di mezzo. Il cosiddetto cordone sanitario, composto dai paesi a ridosso della frontiera con la Russia che la dovrebbero contenere, è animato da molte ambizioni. Ma senza il decisivo sostegno politico e finanziario degli americani si fatica a concretizzare i sogni più sfrenati.

Testo di Federico Petroni.
Inedito a colori di Laura Canali in esclusiva su Limesonline.

lunedì 6 luglio 2020

PER LE ÉLITE STATUNITENSI, LO SCONTRO CON LA CINA É LA PARTITA DEL SECOLO - LA RICERCA DELLA SCINTILLA - di Lucio CARACCIOLO



Aumentano gli incontri ravvicinati a scopo intimidatorio tra Washington e Pechino. I duellanti stanno creando le condizioni materiali per generare la scintilla che giurano di non volere.


Due gruppi navali della Marina statunitense, guidati dalle portaerei Nimitz e Reagan, sono nel Mar delle Filippine. Nello stesso specchio d’acqua, che per loro è Mar Cinese Meridionale, si esercitano fino a domenica* unità di élite della Marina dell’Esercito popolare di liberazione, la forza navale di Pechino. Altre navi americane incrociano nello Stretto di Formosa, sorvolate con nervosa frequenza da caccia cinesi.

Incontri ravvicinati di rara intensità, a scopo intimidatorio. Il rischio che trascendano in incidenti è per ora limitato. Le linee telefoniche riservate che collegano i leader militari e politici di Washington e di Pechino dovrebbero impedire che uno scontro accidentale produca escalation.

Stante la concentrazione di uomini e mezzi, sarebbe peraltro fantasioso definire incidente una collisione fra i rivali. I duellanti stanno creando le condizioni materiali per generare la scintilla che giurano di non volere.

Allo stesso tempo, poco più a nord nel medesimo quadrante strategico, la Repubblica Popolare ha tracciato definitivamente la sua linea rossa: Hong Kong non sarà mai indipendente, tantomeno democratica. La legge sulla sicurezza nazionale varata da Pechino è entrata in vigore nel Porto Profumato. D’ora in poi chi osi sventolare la bandiera dell’indipendenza verrà arrestato e processato per le spicce. Detto fatto. Il 1° luglio un manifestante è sceso in strada a Hong Kong agitando il vessillo indipendentista e la polizia l’ha subito trasferito in custodia. Ma che accadrà se altri seguiranno? E fino a che punto le forze di sicurezza locali (ergo cinesi), abili finora nell’evitare che le dimostrazioni di massa finissero in strage, saranno disposte a non sparare – e viceversa?

Non è solo la prossimità delle elezioni presidenziali a indurre l’amministrazione Trump ad inasprire lo scontro con Pechino. Certo, si tratta dell’unico dossier che trova consenso anche nel campo di Biden. Ma per le élite strategiche di Washington questa è la partita del secolo. Perderla significa rinunciare al primato mondiale. Nel contesto di caos e polarizzazione socio-politica corrente, la sconfitta potrebbe mettere in questione la sicurezza nazionale.

L’obiettivo è chiaro: abbattere il regime del Partito comunista e frammentare la Cina, riportandola alla condizione di totale inconsistenza geopolitica sperimentata per il secolo del disonore, fra metà Ottocento e metà Novecento.

Xi Jinping è sulla difensiva. Per questo sollecita l’orgoglio patriottico e mobilita le masse nel sacro richiamo alla protezione del territorio nazionale. Perché tale è Hong Kong – “un paese due sistemi” vuole dire un paese, il sistema locale essendo più che provvisorio, in via di revoca – e tali sono i mari cinesi, Meridionale e Orientale. Già nel 2010 Hu Jintao, morbido predecessore dell’attuale leader, aveva elevato quelle acque a spazio nazionale, per il quale la Repubblica Popolare sarebbe stata pronta a combattere. A Pechino sanno bene che quando parlano di «operazioni per la libertà di navigazione» gli americani intendono ricordare al rivale che in caso di guerra la loro flotta è pronta a bloccare gli stretti che in quei mari tracciano le vitali rotte commerciali da e verso la Cina. Per informazioni rivolgersi ai giapponesi (seconda guerra mondiale).

Intanto il Pentagono fa circolare scenari della cosiddetta «guerra litoranea del 2025», volutamente catastrofici. Conflitto limitato, nel quale ovviamente prevarrebbero i cinesi, costringendo gli americani a mollare la presa. Classica mossa da raccolta fondi, come le burocrazie militari usavano un tempo agitando lo spauracchio della superpotenza sovietica. A forza di dipingere scenari di declino e d’impotenza, gli strateghi americani rischiano però di indurre la propria opinione pubblica (forse anche se stessi), a credere che quel tattico catastrofismo sia realtà.

Magari illudendo qualcuno, nei palazzi di Pechino, che sia giunto il momento di raccogliere la sfida. Non fosse che per tenere unito un paese che rischia di sfuggirgli da tutte le parti.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su la Stampa

domenica 5 luglio 2020

LO PSEUDOIMPERO DELLA GERMANIA E LA POSIZIONE STRATEGICA DI TRIESTE - Cartina e articolo di Limes

IN ARANCIONE LA MITTELEUROPA

La sfera d’influenza geoeconomica di Berlino

Dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale – al termine della quale il paese stesso è stato diviso fino al crollo del muro di Berlino – la Germania ha esplicitamente rinunciato a una proiezione geopolitica basata sulla forza.

La stessa architettura comunitaria, con il mercato unico e poi con l’euro, serviva a tenere agganciati i tedeschi all’Occidente e a imbrigliare Berlino per impedirle di riemergere come egemone continentale.

Ma il peso specifico della Germania e la debolezza degli altri Stati europei, emersa con la crisi del 2008-9, le hanno riattribuito un ruolo di primo piano.

Oggi, Berlino può essere intesa come una potenza geoeconomica, circondata di satelliti che partecipano alla filiera della produzione industriale tedesca, offrono mercati per assorbire il suo cospicuo surplus commerciale e intrattengono con essa fitte relazioni finanziarie.

Questa sfera d’influenza abbraccia la Mitteleuropa (Svizzera, Austria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia e Croazia), le sue appendici olandesi e altoatesine, oltre alle regioni e ai paesi legati da una stretta interdipendenza economica (Nord Italia, Catalogna, Belgio, Danimarca, Svezia e Finlandia).

Non c’è solo l’economia: anche la lingua crea legami nell’estero vicino. Il tedesco è idioma ufficiale in tre paesi (Austria e Svizzera, oltre ovviamente alla Germania) ed è insegnato ad almeno il 25% degli studenti nelle scuole di Danimarca, Belgio, Paesi Bassi, Polonia, Estonia, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Ungheria, Croazia e Slovenia.

Questi fattori giocheranno un ruolo cruciale, se davvero nei prossimi mesi verrà formalizzata l’Unione Europea a più velocità sulla scia di quanto auspica Angela Merkel. Il processo di riorganizzazione dell’architettura comunitaria potrebbe creare nuovi sottoinsiemi di Stati.

Il risultato più immediato sarebbe un più netto limes fra Europa del Nord e del Sud.

La posizione di Trieste

Limes o linea di faglia geopolitica tra Europa del Nord e del Sud su cui è situata Trieste, nata e cresciuta intorno ad un Porto Franco Internazionale che tuttora lavora per il 90% con l’ entroterra mitteleuropeo e solo per il 10% con l’ Italia e che tramite lo strategico Oleodotto SIOT  fornisce il 40% del fabbisogno petrolifero della Germania (il 100% della Baviera e del Baden-Württemberg), il 90% dell’Austria e oltre il 30% della Repubblica Ceca.

Il Porto Franco di Trieste diventerà sempre più importante per l’ Europa e la Germania stessa mano a mano che si paleseranno i due grandi problemi dei porti del Nord: la congestione crescente soprattutto del traffico ferroviario e la difficoltà sia di accessibilità nautica  che di uso della fitta rete di canali navigabili a causa della siccità legata ai cambiamenti climatici, un fattore che già adesso si fa sentire molto sulle vie d’ acqua in cui transitano gran parte delle loro merci.

Trieste è invece collegata con una fitta rete ferroviaria ereditata dall’ Impero Asburgico: la linea con Vienna è del 1857 e i viadotti costruiti allora dal geniale ingegnere Karl von Ghega sono tuttora utilizzati.

Ed ha banchine direttamente sul mare con fondali profondi a differenza, ad esempio, di Amburgo che si trova sul fiume Elba e i cui fondali risentono della portata fluviale che la siccità riduce.

Vantaggi competitivi che si aggiungono al regime di Porto Franco (ribadito nel trattato di Pace del 1947 e pertanto riconosciuto dall’ Europa)  che faciliterà insediamenti industriali anche di reshoring (rientro post Covid-19 dalle delocalizzazioni).

E’ di questi giorni la notizia che 
 Il Porto di Duisburg in Germania, considerato il più grande scalo interno del mondo e snodo strategico della logistica europeainvestirà nel Porto di Triesterilevando una quota del suo interporto.
Duisport utilizzerà l’ interporto triestino per il trasporto su gomma, ma il reale interesse risiede altrove, ovvero nell’ 
utilizzo dei magazzini del Punto Franco (FreeEste) presso Bagnoli della Rosandra e guardando anche al futuro dello sviluppo dell’interporto ferroviario di Cervignano (nuovamente, sono le ferrovie il reale interesse per gli austro-tedeschi).


Ed altre importanti notizie su investimenti internazionali sono state annunciate per le prossime settimane dall' Autorità Portuale.
L’ interesse tedesco per Trieste è ormai palpabile così come a Trieste è vivo il mito delle città–stato portuali come Amburgo che tuttora hanno uno status di Stato federato alla Germania.


La prima parte del testo è di Federico Petroni e la cartina è di Laura Canali pubblicati entrambi  su Limes On Line il 24/2/2017 mentre l' integrazione su Trieste è di Paolo Deganutti pubblicata il 3/7/2020.
La cartina della rete ferroviaria del Porto di Trieste è dell' Autorità Portuale


venerdì 3 luglio 2020

PERCHE’ UNA CITTA’ SI E’ MOBILITATA PER DIFENDERE L’ AUTORITA’ PORTUALE - A CHI E A COSA SERVE TRIESTE – IL PORTO GUARDA ALL’ ENTROTERRA NATURALE AUSTRO-TEDESCO. Un articolo per Limes On Line a disposizione dei nostri lettori.

 
Il Presidente Zeno D’Agostino invitato a parlare alla manifestazione cittadina del 13 giugno

IL PORTO E LA CITTA' GUARDANO ALL’ ENTROTERRA NATURALE 
AUSTRO-TEDESCO.


di Paolo Deganutti
(articolo per Limes On Line)

Fatto unico al mondo una città si è mobilitata per difendere l’  Autorità Portuale: Trieste è scesa in piazza al seguito della forte e decisa reazione dei lavoratori portuali alla traumatica destituzione del Presidente D’ Agostino avvenuta per un cavillo giuridico il 5 giugno da parte dell’ ANAC (Autorità Anticorruzione).
Il Presidente è stato ora reinsediato, a furor di popolo, con una sentenza del Tar del Lazio  del  30 giugno che ha annullato il provvedimento dell’ ANAC.

In questi giorni c’ è stato un blocco del porto da parte dei lavoratori e una grande manifestazione cittadina, trasversale sia in senso sociale che politico, in cui hanno fatto il loro ingresso i portuali al grido di “el presidente non se toca”  tra gli applausi e le bandiere rosso alabardate della città, le uniche ammesse.

In realtà la destituzione del Presidente è stata vista non solo come un attacco ingiustificato a una persona stimata e onesta che si era data molto da fare per rilanciare il Porto Franco sulla scena internazionale e il miglioramento delle condizioni di lavoro, ma soprattutto come un attacco al Porto Franco Internazionale di Trieste da parte della burocrazia romana in un contesto di polemiche strumentali e infondate riguardo l’ interesse cinese, attualmente solo platonico, per lo scalo.

Il provvedimento dell’ ANAC ha arrecato un danno gravissimo visto che immediatamente è rimbalzata a livello internazionale la notizia della destituzione dei vertici portuali da parte dell’ Autorità Anticorruzione. Non per comportamenti scorretti , inesistenti e mai contestati, come all’ estero si potrebbe logicamente supporre, ma  per un motivo intraducibile e incomprensibile per chi non conosce gli abissi burocratici italiani: una presunta inconferibilità dell’ incarico (4 anni prima) per un’ interpretazione cavillosa di una legge che aveva tutt’ altri scopi.
Insomma Zeno D’ Agostino non sarebbe mai stato Presidente del Porto e la comunità internazionale dello shipping ha saputo che chi girava il mondo da 4 anni per promuovere il porto e firmare accordi commerciali in realtà sarebbe stato solo un privato cittadino malgrado la nomina ministeriale: un discredito planetario sull’ affidabilità del sistema Italia.  Una follia inspiegabile che è rientrata dopo una mobilitazione massiccia che ha bloccato il porto per un paio di giorni ma che avrebbe potuto bloccarlo ad oltranza innescando una situazione molto difficile anche in città.

Il Presidente è ora reinsediato nel pieno delle sue funzioni e notevolmente rafforzatoinsieme al Porto, dal forte e deciso sostegno cittadino cosa che fortunatamente non è sfuggita all’ estero.
Appena in tempo per presentare la candidatura alla presidenza dell’ Espo, l’ organizzazione europea dei porti di cui è già vicepresidente.

E’ la dimostrazione che Trieste sta ricordando, dopo un lungo oblio indotto, di essere una città nata e cresciuta intorno ad un Porto Franco Internazionale che lavora per il 90% con l’ entroterra mitteleuropeo e solo per il 10% con l’ Italia.
Ne testimonia anche il grande successo e la grandissima presenza di pubblico a tutte le iniziative del Limes Club Trieste su questi temi.

Nei 20 giorni in cui lo scalo triestino è stato gestito dal Segretario Generale Mario Sommariva, lo stimato 
braccio destro del Presidente nominato all’ uopo Commissario, si sono firmati due importanti accordi:

1) L’ acquisizione definitiva da parte dell’ Ungheria di un terminal in concessione per un  investimento di 130 milioni.

2) La riconversione dell’ “area a caldo” della Ferriera (l’ ILVA triestina) in attività portuale e ferroviaria al servizio del nuovo grande terminal
 costituito dalla Piattaforma Logistica e Molo VIII cui erano interessati diversi operatori internazionali: si è vociferato di Cinesi e Arabi ma si ha notizia anche di concreti interessamenti di operatori europei.

A chi serve Trieste?

Innanzitutto, ovviamente, ai suoi cittadini che desidererebbero uscire da una decadenza che dura da 100 anni, cioè da quando la città è stata sradicata dal suo entroterra naturale mitteleuropeo con l’ annessione all’ Italia e l’ avvento di una burocrazia che in questi giorni è stata definita benevolmente “kafkiana”. 

Scriveva Luigi Einaudi nel 1915 : “il porto di Trieste perderebbe però gran parte del suo valore nel giorno che fosse separato dal suo entroterra tedesco e slavo ed aggregato all’Italia”. (1)

Ma Trieste serve principalmente agli scambi commerciali tra Europa Centrale ed Orientale e l’ Oriente vicino e lontano attraverso il recentemente raddoppiato canale di Suez.
Lo scriveva sempre Luigi Einaudi nel 1915: “
Trieste vive come un punto di intermediazione fra i porti d’oltremare e l’entroterra slavo tedesco”(1).
Lo scalo triestino serve  dunque all’ Europa Centro Orientale come porto ben collegato via ferrovia e con rotte marittime 
verso l’ Oriente più brevi  rispetto ai grandi porti del Nord.

In questo momento l’ Ungheria è al primo posto per volume di traffici e la Germania al secondo, il che ha indotto qualche operatore a notare che Trieste è di fatto, per tonnellaggio e convogli ferroviari, "il terzo porto della Germania più che non il primo dell’ Italia".

Il Porto Franco di Trieste diventerà sempre più importante per l’ Europa e la Germania stessa mano a mano che si paleseranno i due grandi problemi dei porti del Nord: la congestione crescente soprattutto del traffico ferroviario e la difficoltà sia di accessibilità nautica  che di uso della fitta rete di canali navigabili a causa della siccità legata ai cambiamenti climatici, un fattore che già adesso si fa sentire molto sulle vie d’ acqua in cui transitano gran parte delle loro merci.

Trieste è invece collegata con una fitta rete ferroviaria ereditata dall’ Impero Asburgico: la linea con Vienna è del 1857 e i viadotti costruiti allora dal geniale ingegnere Karl von Ghega sono tuttora utilizzati.

Ed ha banchine direttamente sul mare con fondali profondi a differenza, ad esempio, di Amburgo che si trova sul fiume Elba e i cui fondali risentono della portata fluviale che la siccità riduce.


Vantaggi competitivi che si aggiungono al regime di Porto Franco (ribadito nel trattato di Pace del 1947 e pertanto riconosciuto dall’ Europa)  che faciliterà insediamenti industriali anche di reshoring (rientro post Covid-19 dalle delocalizzazioni).

E’ di ieri la notizia che 
 Il Porto di Duisburg in Germania, considerato il più grande scalo interno del mondo e snodo strategico della logistica europeainvestirà nel Porto di Triesterilevando una quota del suo interporto.
Duisport utilizzerà l’ interporto triestino per il trasporto su gomma, ma il reale interesse risiede altrove, ovvero nell’ 
utilizzo dei magazzini del Punto Franco (FreeEste) presso Bagnoli della Rosandra e guardando anche al futuro dello sviluppo dell’interporto ferroviario di Cervignano (nuovamente, sono le ferrovie il reale interesse per gli austro-tedeschi).
Ed altre notizie su investimenti internazionali sono attese nelle prossime settimane.
L’ interesse tedesco per Trieste è ormai palpabile così come a Trieste è vivo il mito delle città – stato portuali come Amburgo che tuttora hanno uno status di Stato federato alla Germania.

E’ singolare che l’ Italia invece non sembra ritenere che Trieste le serva, se non come simbolo retorico di unità nazionale, visto che mentre arrivano investimenti dall’ estero da Roma invece partono siluri non si sa quanto casuali, come questa destituzione con salvataggio in corner, oppure ostacoli sistematici dell’ Agenzia delle Dogane alla piena applicazione del  regime di extraterritorialità doganale del Porto Franco Internazionale, indispensabile per l’ insediamento di attività produttive.

Forte risentimento ha causato in città in questi giorni anche il taglio drastico delle linee ferroviarie e aeree che collegavano, già malamente, Trieste a Milano e Roma.
Ed anche preoccupazione per il blocco della linea ferroviaria costiera dovuta a un deragliamento causato da una piccola frana per difetto di manutenzione il 22 giugno. Su questa linea, che da tempo aspetta un nuovo binario,  passa tutto il traffico passeggeri e soprattutto merci per il porto, che fortunatamente è stato possibile in parte deviare sulla antica “Transalpina” austriaca riattivata da poco.

Sembrerebbe trattarsi di autolesionismo se non fosse probabilmente sintomo di assenza di una qualsivoglia politica per i traffici marittimi, di incomprensione totale del quadro geopolitico e geoeconomico dell’ area danubiana e di caos crescente in una crisi sistemica del Paese  in cui una mano non sa quello che fa l’ altra.


Note:
(1) 
 Luigi Einaudi, Guerra ed economia-Prediche, Roma-Bari 1920, Laterza, pp. 1,42.


L’ emozionante arrivo dei Portuali alla manifestazione cittadina del 13 giugno in Piazza Unità.