giovedì 6 settembre 2018

L'ITALIA, LA FRANCIA E LA LIBIA - Equilibrio tra le milizie, scontro Roma-Parigi, elezioni farsa: molti nodi sono venuti al pettine in questi giorni.- Articolo di Federico Petroni su Limes On Line



Equilibrio tra le milizie, scontro Roma-Parigi, elezioni farsa: molti nodi sono venuti al pettine in questi giorni.


Gli scontri in corso nei dintorni e nel centro di Tripoli dal 27 agosto aprono una nuova fase dell’instabilità della Libia e portano al pettine nodi che il cessate-il-fuoco del 4 settembre non può sciogliere.

Uno di questi nodi riguarda i delicati rapporti tra l’Italia, ex potenza colonizzatrice, e la Francia.Parigi sta portando avanti il tentativo di sostituirsi a Roma come interlocutrice di riferimento nel paese africano. Un piano concepito dall’allora presidente Nicolas Sarkozy, che nel 2011 animò l’intervento militare occidentale contro Muammar Gheddafi.

L’obiettivo tattico di Sarkozy era riparare il danno d’immagine subìto in Tunisia (dove l’alleato dittatore Ben Ali era stato costretto alla fuga dalle rivolte di piazza) mostrandosi vicino alle “primavere arabe”. Quello strategico, condiviso dall’attuale inquilino dell’Eliseo Emmanuel Macron, è inserire nella sfera d’influenza transalpina il quarto paese più esteso del continente, primo per riserve dimostrate di petrolio.

La Libia è un’immensa piattaforma tra Mediterraneo e Sahel che, saldata al resto della Françafrique,permetterebbe a Parigi di controllarne le risorse e i traffici. Migranti compresi. Più di quanto già ora non le sia possibile dal Niger.

Allo scoppio delle ostilità, sembrava che la questione fosse limitata alla redistribuzione del potere dentro la capitale libica. A controllare il centro di Tripoli infatti non è tanto il governo di Fayez al-Serraj – il premier riconosciuto dalla comunità internazionale, su cui punta in particolare Roma – bensì un cartello semi-ufficiale di milizie che, oltre a difendere il primo ministro, gli altri dicasteri e le infrastrutture critiche, si accaparra le principali risorse, comprese quelle provenienti dalle agenzie Onu.

A lanciare l’offensiva era stata, fra le altre, la Settima brigata della città di Tarhuna, denunciando la corruzione degli altri gruppi armati stanziati a Tripoli e muovendo contro la periferia settentrionale della capitale. Di fronte all’avanzata dei ribelli e a una cinquantina di morti in poco più di una settimana, Serraj ha dichiarato lo Stato d’emergenza e invocato l’aiuto delle milizie di Misurata, potenti alleati che già in passato hanno salvato la compagine governativa o condotto operazioni in linea con la sua strategia – per esempio l’epurazione dello Stato Islamico da Sirte. L’Italia intrattiene stretti rapporti con la stessa Misurata: il segno più evidente è la missione militare medica stanziata nella città costiera.

Lo schieramento di queste milizie a Tripoli aveva smorzato la tensione, con l’imposizione di un cessate il fuoco e la convocazione di un incontro presieduto dalla missione Onu in Libia. Roma ha evacuato parte del personale diplomatico e militare e alcuni operatori economici, ma l’ambasciata nella capitale resta aperta (è l’unica).

Tuttavia, la posta in gioco sembra più ampia di un regolamento di conti. La cerchia di Serraj sostiene che a sobillare la rivolta e a infiltrare le milizie ribelli siano stati contingenti vicini al generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica (la parte orientale del paese) dotato di un’agenda in aperta opposizione a quella del governo di Tripoli. L’obiettivo dell’offensiva sarebbe stato dunque un colpo di Stato, che secondo queste accuse avrebbe avuto il sostegno di Francia ed Emirati Arabi Uniti.

Non è un mistero che Parigi e Abu Dhabi siano molto più vicini ad Haftar di quanto non lo sia l’Italia. Né che il presidente Macron spinga per tenere elezioni il prossimo 10 dicembre, come pattuito alla conferenza del maggio scorso con cui l’inquilino dell’Eliseo aveva fatto sedere allo stesso tavolo il premier e il generale.

Iniziativa platealmente contraria all’agenda di Roma, che ritiene prematuro andare alle urne in questo momento. Anche perché a detenere il potere non sono politici la cui unica legittimità proviene dal riconoscimento internazionale, ma la miriade di gruppi armati in cui si è frammentata la Libia dopo la guerra del 2011. Entro il 16 settembre dovrebbero essere adottate le basi legali e costituzionali per celebrare le elezioni.

Inutile infine chiedersi con chi stiano gli Stati Uniti: Washington non esprime una posizione univoca perché la Libia non si avvicina minimamente alle priorità tattico-strategiche della superpotenza.

Esiste semmai più di un approccio Usa al teatro nordafricano. Il dipartimento di Stato guarda con favore all’Italia e al progressivo consolidamento dell’autorità di Serraj. Il comando militare per l’Africa (Africom) si occupa unicamente della caccia ai jihadisti e all’occorrenza tesse relazioni con chi di dovere, Haftar compreso. Trump, che pure ha riconosciuto (con riserva) la leadership italiana sul dossier libico durante la visita alla Casa Bianca del premier Conte, non è interessato alla questione.

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