lunedì 5 febbraio 2018

LIMITI E POTENZIALITA' DELLE NUOVE VIE DELLA SETA POLARI PER LA CINA - Un' analisi di Limes -


La rotta settentrionale non sostituirà mai davvero Suez. Semmai, serve a Pechino per posizionare le proprie pedine nell’Artico.
di Andrea Migliuolo


Con il progressivo riscaldamento globale e la conseguente riduzione della banchisa, sia in termini di estensione geografica che di durata nell’anno, molti prospettano un notevole sviluppo dei traffici marittimi attraverso il passaggio a nord-est, la cosiddetta “rotta marittima settentrionale” (Northern Sea Route). Quest’ultima collega lo stretto di Bering con l’Europa, passando lungo le coste russe e norvegesi per poi immettersi nel Mare del Nord.

È ipotizzabile un tale sviluppo? Può il passaggio a nord-est diventare una rotta alternativa per la Belt and Road Initiative (le nuove vie della seta)la strategia cinese per gestire i flussi e i rapporti con i suoi mercati di riferimento?

La rotta offre potenziali vantaggi in termini di minore distanza e minori tempi di navigazione, dunque di riduzione dei costi operativi. Il costo giornaliero di una porta container è di circa 70-80 mila dollari, con punte di 100-120 mila per le nuove mega-carrier. Pertanto, una riduzione di dieci giorni nei tempi di percorrenza implica una diminuzione dei costi operativi di circa 1 milione di dollari a tratta.

Alla luce di queste considerazioni, non sorprende quindi che già dal 2012 i cinesi effettuino prove di navigazione sulla rotta e siano interessati ad alcuni suoi porti quali Arkhangel’sk(Russia), Klaipeda (Lituania), Kirkenes (Norvegia) e a un fiordo nel Nord dell’Islanda.

Assistiamo quindi all’alba di una “seconda via” per l’Occidente? Probabilmente no, per ragioni strutturali e strategiche.

Nella migliore delle ipotesi, oggi il passaggio a nord-est è libero da ghiacci solo da luglio a novembre. Le più ottimistiche previsioni sul riscaldamento globale vedono per la fine di questo secolo sei mesi l’anno di navigazione libera. Per la maggior parte dell’anno quindi, rimane utile solo la rotta via Suez.

Inoltre, il vantaggio competitivo della rotta settentrionale diminuisce significativamente dai porti meridionali della Cina, quali Fuzhou, Quanzhou, Guangzhou, Zhanjiang, Haikou, Beihai (hub ufficiali della Belt and Road Initiative) e Hong Kong, da cui parte la maggior parte del traffico. E si azzera se la destinazione è il Mediterraneo, dove sbarca circa il 40% dei flussi verso l’Europa.

Infine, la rotta marittima settentrionale non è senza costi aggiuntivi: la navigazione si svolge necessariamente a ridosso delle coste russe con l’obbligo della scorta di una delle quattro navi rompighiaccio a propulsione nucleare russe (altre tre sono in dirittura di arrivo) e un costo stimato di circa 200-300 mila dollari a tratta.
Dal punto di vista strategico poi, basta ricordare che oltre il 90% degli scambi tra Oriente e Occidente avviene via mare. Nessuna nazione, e men che meno una potenza come la Cina, metterebbe a rischio il proprio sviluppo economico ridimensionando drasticamente corridoi di scambio strutturati da centinaia di anni, quindi stabili e sotto controllo.

In aggiunta, la rotta a nord-est è di fatto controllata dalla Russia, potenza regionale con mire globali e non è nell’interesse cinese (né giapponese né coreano) mettere parte significativa dei suoi flussi alla mercé di una potenza dominante nella zona e competitrice, a dispetto dell’avvicinamento tattico fra Mosca e Pechino. Cosa ben diversa è la rotta a sud, dove opera sì la flotta statunitense ma diluita su una superficie vastissima e non presente in maniera esclusiva, viste le zone d’influenza di numerose altre nazioni tra cui alcune potenze regionali.

In ultimo, attraverso la rotta verso Suez la Cina proietta la sua influenza su aree di diretto interesse strategico quali il Sud-Est asiatico, l’Oceano Indiano e l’Africa orientale. Un ridimensionamento di questi flussi porterebbe necessariamente a un riassetto strategico nell’area.

Due riflessioni possono però spiegare l’evidente interesse (non solo) cinese verso il passaggio a nord-est.

In primo luogo, come la storia insegna, le guerre – anche quelle economiche – si vincono con la logistica e, per essere efficiente ed efficace, quest’ultima necessita di soluzioni alternative valide, testate e pianificate da attivare in caso di necessità. In questo senso, la rotta artica rappresenta una preziosa opzione alternativa.

In secondo luogo è evidente l’interesse globale per le risorse naturali presenti nell’Artico, e la Cina non fa eccezione. A questo proposito, è interessante un articolo pubblicato qualche anno fa dalla Nordic China Advisory nel quale, pur dando qualche rilievo allo sviluppo del traffico attraverso la rotta marittima settentrionale, gli autori focalizzano l’attenzione sull’attuale e futuro sfruttamento delle risorse energetiche a nord della Norvegia e nell’Artico e l’importanza di tali giacimenti per il futuro energetico della Cina.

In quest’ottica, i porti  vicini al circolo polare, d’interesse cinese anche se marginali nel traffico mondiale di container, appaiono scelti ad arte a ridosso della zona di maggiore concentrazione di risorse naturali per costituire un’efficace rete d’appoggio alle aspirazioni cinesi sul campo.

In effetti, lo stesso governo cinese nell’ambito del suo recentissimo Arctic Policy White Paper parla del suo auspicio per lo sviluppo di una via della seta polare (Polar Silk Road). Tuttavia, dedica all’argomento solo un paio di paragrafi, precisando che sarà necessario per il futuro proseguire con ulteriori “prove di navigazione commerciale”, per poi concentrare gran parte del documento allo sviluppo dell’Artico e allo sfruttamento sostenibile e condiviso delle sue risorse naturali – petrolio, gas e materie prime, ma anche pesca e turismo. Nel rapporto la Cina chiede per l’Artico maggiori investimenti in ricerca e tutela dell’ambiente. Il viceministro degli Esteri cinese Kong Xuanyou ha recentemente dichiarato che per la Cina esistono due punti fermi per quanto riguarda l’Artico: non interferire (nelle attività altrui) e  non essere assente.

Sembra dunque chiaro come il passaggio a nord-est non sia una reale alternativa ai flussi di traffico tra Oriente e Occidente, attualmente pari a circa 20 mila portacontainer all’anno solo tra Cina ed Europa. Il complesso di rotte attraverso il Canale di Suez, che è parte strutturale del consolidato sistema logistico mondiale e vero e proprio pilastro della Belt and Road Initiative, è troppo vasto e collaudato per poter essere messo in discussione da una rotta che presenta criticità strutturali e di carattere strategico.

Ciò nondimeno, forte delle sue doti di pianificazione strategica di lungo periodo e attenta alle opportunità che si stanno presentando anche grazie ai cambiamenti climatici, la Cina sembra intenzionata a non lasciare solo ad altri lo sviluppo della zona attorno al circolo polare artico, annunciando pubblicamente il suo interesse per una nuova rotta marittima a favore degli scambi internazionali.





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