mercoledì 14 febbraio 2018

LA NAVE- PIATTAFORMA DELLA SAIPEM FERMATA A CIPRO DAI TURCHI - Erdoğan, l’Eni e il grande gioco del gas: il caso “ Saipem 12000” non è solo questione di gas e di soldi. Investe il rango dell' Italia e le sue priorità geopolitiche nazionali - Un articolo di Lucio Caracciolo


Che cos’altro deve accadere perché noi europei ci si renda conto che non viviamo fuori dalla storia, in un giardino dell’Eden dove armoniosamente coltiviamo i nostri valori (quali?), retto dal diritto internazionale e dalle regole del buon vicinato?

A ricordarcelo dovrebbe bastare il clima di scontro permanente e astioso che si è creato fra i principali paesi europei, Italia compresa, e la Turchia del presidente/sultano Recep Tayyip Erdoğan. Dal controllo dei media alle vessazioni nei confronti di chi nel suo paese non consente con lui, dalle avventure militari in Siria ai rapporti speciali quanto ambigui con la Russia, dall’uso delle diaspore turche in Europa fino alla crisi in corso intorno ai giacimenti di gas ciprioti, che coinvolge direttamente l’Eni e quindi il nostro paese: l’elenco delle partite in corso è impressionante.

Ridurre tutto alla peculiare personalità di Erdoğan sarebbe fuorviante. Alla radice c’è un nostro errore di percezione, che ci ha spinto per decenni a considerare la Turchia come avamposto dell’Occidente, nostro alleato atlantico, da integrare prima o poi nell’Unione Europea. Ciò proprio mentre Ankara recuperava già negli anni Novanta del secolo scorso, e poi in maniera esplicita con Erdoğan, la sua vocazione imperiale. Neo-ottomana, panturca e panislamica.

Per il presidente turco il riferimento non è Bruxelles – “capitale” dell’Unione Europea in fase di graduale disgregazione secondo agende nazionali o addirittura subnazionali. Semmai lo sono Maometto il Conquistatore o Solimano il Magnifico. Naturalmente il paragone, stabilito dallo stesso Erdoğan, con i suoi Grandi del passato è sproporzionato. E infatti la Turchia, imbarcata contemporaneamente in dispute e conflitti da cui non riesce a uscire e che ne stanno logorando le legature sociali, l’economia e lo stesso strumento militare, appare destinata a pagare un prezzo molto salato per voler apparire ciò che non è: una grandiosa potenza in ascesa.

Erdoğan ama il teatro, la provocazione. Fino a ribattezzare la via dove si trova l’ambasciata americana ad Ankara con il nome dell’operazione militare in corso contro i curdi nel Nord della Siria – Ramoscello d’Olivo – in occasione della visita del segretario di Stato Usa, Rex Tillerson.

Ora però la questione ci riguarda da molto vicino. Il blocco della nave Eni destinata all’esplorazione di giacimenti di idrocarburi in acque cipriote da parte di unità militari turche, impegnate in esercitazioni di cui l’Italia non era a quanto pare informata, incide nei già logorati rapporti fra Roma e Ankara. Forse esiste un collegamento fra il pessimo clima in cui si sono svolti i recenti colloqui fra Mattarella, Gentiloni e il presidente turco, e il trattamento riservato alla piattaforma “ Saipem 12000”.

Siamo finiti dentro all’infinita, forse infinibile disputa fra Grecia, Turchia e le due Cipro di fatto (di cui quella Nord riconosciuta solo dalla Turchia), in cui Ankara difende i presunti diritti propri e del suo satellite cipriota sui più che promettenti giacimenti in acque che Nicosia, appoggiata dagli europei e non solo, considera proprie. Una nave turca ha speronato un guardacoste greco, mentre Erdoğan ha tuonato contro le “spacconerie” di Atene e delle diplomazie europee che vogliono estromettere i turchi dal “loro” Mediterraneo orientale.

Le manovre della flotta turca dovrebbero concludersi il 22 febbraio. Illudersi che questo termine coincida con la soluzione del caso sarebbe pericoloso. Dall’epicentro siriano la crisi si sta diffondendo in tutto il Levante, fino all’Egeo. Riguarda ormai tutte o quasi le principali potenze regionali e mondiali. Ciascuna impegnata a difendere i propri interessi, in ordine sparso.

Il caso “Saipem 12000” non è solo questione di gas e di soldi. Investe il nostro rango e le priorità geopolitiche nazionali. Sarà confortante constatare come, malgrado le baruffe elettorali, le nostre autorità politiche e istituzionali si sveleranno all’altezza della sfida. O no?
Lucio Caracciolo
Direttore di Limes

mercoledì 7 febbraio 2018

GLI STRANIERI IN ITALIA: UNA QUESTIONE CHE ORMAI TRAVALICA LA RAZIONALITA' COME I FATTI DI MACERATA E LE CONSEGUENZE SULL' OPINIONE PUBBLICA DIMOSTRANO - In anteprima, una carta a colori da Limes 1/2018 Musulmani ed europei.


In anteprima, una carta a colori da Limes 1/2018 Musulmani ed europei.

“Per uno Stato a modesta legittimazione, l’integrazione non troppo soft
 degli immigrati, musulmani o meno, è imperativa.

Altrimenti ci ridurremo a campo di esercitazione delle influenze altrui. Non solo dei nostri alleati e partner, abituati a considerarci terra nullius. Anche degli Stati e dei regimi da cui provengono i migranti, che intendono serbare influenza nelle rispettive diaspore e/o avanzare le rispettive agende geopolitiche.

Come fanno, in competizione, Marocco e Arabia Saudita. Ovvero il paese dotato della massima diaspora islamica in Italia e il capofila del wahhabismo, con la sua tuttora considerevole potenza finanziaria – grazie alla quale compra beni materiali, decisori e comunicatori ovunque convenga – e i suoi jihadisti at large.

Che cosa fa l’Italia per proteggere i propri interessi, dunque per integrare gli stranieri di cui abbiamo necessità per ragioni demografiche e di welfare?

Lo Stato non ha strategia. Le iniziative di alcuni suoi esponenti locali (qualche sindaco), talvolta centrali (ministero dell’Interno, cui soprattutto si deve la drastica riduzione dei flussi via ex Libia, per ora ottenuta in negoziati informali con i «guardiani del deserto»), e di molti cittadini di buona volontà non sono inscritte in un piano di lungo periodo.

Assenti ingiustificati il governo nella sua collegialità e i partiti che a parole aprono all’integrazione, salvo non darvi seguito perché temono di perdere consenso a favore di chi denuncia l’«invasione».

Di qui l’accantonamento del blandissimo aggiornamento del cosiddetto ius soli, di fatto ius scholae per figli e nipoti degli immigrati che ambirebbero a diventare italiani.”

lunedì 5 febbraio 2018

LIMITI E POTENZIALITA' DELLE NUOVE VIE DELLA SETA POLARI PER LA CINA - Un' analisi di Limes -


La rotta settentrionale non sostituirà mai davvero Suez. Semmai, serve a Pechino per posizionare le proprie pedine nell’Artico.
di Andrea Migliuolo


Con il progressivo riscaldamento globale e la conseguente riduzione della banchisa, sia in termini di estensione geografica che di durata nell’anno, molti prospettano un notevole sviluppo dei traffici marittimi attraverso il passaggio a nord-est, la cosiddetta “rotta marittima settentrionale” (Northern Sea Route). Quest’ultima collega lo stretto di Bering con l’Europa, passando lungo le coste russe e norvegesi per poi immettersi nel Mare del Nord.

È ipotizzabile un tale sviluppo? Può il passaggio a nord-est diventare una rotta alternativa per la Belt and Road Initiative (le nuove vie della seta)la strategia cinese per gestire i flussi e i rapporti con i suoi mercati di riferimento?

La rotta offre potenziali vantaggi in termini di minore distanza e minori tempi di navigazione, dunque di riduzione dei costi operativi. Il costo giornaliero di una porta container è di circa 70-80 mila dollari, con punte di 100-120 mila per le nuove mega-carrier. Pertanto, una riduzione di dieci giorni nei tempi di percorrenza implica una diminuzione dei costi operativi di circa 1 milione di dollari a tratta.

Alla luce di queste considerazioni, non sorprende quindi che già dal 2012 i cinesi effettuino prove di navigazione sulla rotta e siano interessati ad alcuni suoi porti quali Arkhangel’sk(Russia), Klaipeda (Lituania), Kirkenes (Norvegia) e a un fiordo nel Nord dell’Islanda.

Assistiamo quindi all’alba di una “seconda via” per l’Occidente? Probabilmente no, per ragioni strutturali e strategiche.

Nella migliore delle ipotesi, oggi il passaggio a nord-est è libero da ghiacci solo da luglio a novembre. Le più ottimistiche previsioni sul riscaldamento globale vedono per la fine di questo secolo sei mesi l’anno di navigazione libera. Per la maggior parte dell’anno quindi, rimane utile solo la rotta via Suez.

Inoltre, il vantaggio competitivo della rotta settentrionale diminuisce significativamente dai porti meridionali della Cina, quali Fuzhou, Quanzhou, Guangzhou, Zhanjiang, Haikou, Beihai (hub ufficiali della Belt and Road Initiative) e Hong Kong, da cui parte la maggior parte del traffico. E si azzera se la destinazione è il Mediterraneo, dove sbarca circa il 40% dei flussi verso l’Europa.

Infine, la rotta marittima settentrionale non è senza costi aggiuntivi: la navigazione si svolge necessariamente a ridosso delle coste russe con l’obbligo della scorta di una delle quattro navi rompighiaccio a propulsione nucleare russe (altre tre sono in dirittura di arrivo) e un costo stimato di circa 200-300 mila dollari a tratta.
Dal punto di vista strategico poi, basta ricordare che oltre il 90% degli scambi tra Oriente e Occidente avviene via mare. Nessuna nazione, e men che meno una potenza come la Cina, metterebbe a rischio il proprio sviluppo economico ridimensionando drasticamente corridoi di scambio strutturati da centinaia di anni, quindi stabili e sotto controllo.

In aggiunta, la rotta a nord-est è di fatto controllata dalla Russia, potenza regionale con mire globali e non è nell’interesse cinese (né giapponese né coreano) mettere parte significativa dei suoi flussi alla mercé di una potenza dominante nella zona e competitrice, a dispetto dell’avvicinamento tattico fra Mosca e Pechino. Cosa ben diversa è la rotta a sud, dove opera sì la flotta statunitense ma diluita su una superficie vastissima e non presente in maniera esclusiva, viste le zone d’influenza di numerose altre nazioni tra cui alcune potenze regionali.

In ultimo, attraverso la rotta verso Suez la Cina proietta la sua influenza su aree di diretto interesse strategico quali il Sud-Est asiatico, l’Oceano Indiano e l’Africa orientale. Un ridimensionamento di questi flussi porterebbe necessariamente a un riassetto strategico nell’area.

Due riflessioni possono però spiegare l’evidente interesse (non solo) cinese verso il passaggio a nord-est.

In primo luogo, come la storia insegna, le guerre – anche quelle economiche – si vincono con la logistica e, per essere efficiente ed efficace, quest’ultima necessita di soluzioni alternative valide, testate e pianificate da attivare in caso di necessità. In questo senso, la rotta artica rappresenta una preziosa opzione alternativa.

In secondo luogo è evidente l’interesse globale per le risorse naturali presenti nell’Artico, e la Cina non fa eccezione. A questo proposito, è interessante un articolo pubblicato qualche anno fa dalla Nordic China Advisory nel quale, pur dando qualche rilievo allo sviluppo del traffico attraverso la rotta marittima settentrionale, gli autori focalizzano l’attenzione sull’attuale e futuro sfruttamento delle risorse energetiche a nord della Norvegia e nell’Artico e l’importanza di tali giacimenti per il futuro energetico della Cina.

In quest’ottica, i porti  vicini al circolo polare, d’interesse cinese anche se marginali nel traffico mondiale di container, appaiono scelti ad arte a ridosso della zona di maggiore concentrazione di risorse naturali per costituire un’efficace rete d’appoggio alle aspirazioni cinesi sul campo.

In effetti, lo stesso governo cinese nell’ambito del suo recentissimo Arctic Policy White Paper parla del suo auspicio per lo sviluppo di una via della seta polare (Polar Silk Road). Tuttavia, dedica all’argomento solo un paio di paragrafi, precisando che sarà necessario per il futuro proseguire con ulteriori “prove di navigazione commerciale”, per poi concentrare gran parte del documento allo sviluppo dell’Artico e allo sfruttamento sostenibile e condiviso delle sue risorse naturali – petrolio, gas e materie prime, ma anche pesca e turismo. Nel rapporto la Cina chiede per l’Artico maggiori investimenti in ricerca e tutela dell’ambiente. Il viceministro degli Esteri cinese Kong Xuanyou ha recentemente dichiarato che per la Cina esistono due punti fermi per quanto riguarda l’Artico: non interferire (nelle attività altrui) e  non essere assente.

Sembra dunque chiaro come il passaggio a nord-est non sia una reale alternativa ai flussi di traffico tra Oriente e Occidente, attualmente pari a circa 20 mila portacontainer all’anno solo tra Cina ed Europa. Il complesso di rotte attraverso il Canale di Suez, che è parte strutturale del consolidato sistema logistico mondiale e vero e proprio pilastro della Belt and Road Initiative, è troppo vasto e collaudato per poter essere messo in discussione da una rotta che presenta criticità strutturali e di carattere strategico.

Ciò nondimeno, forte delle sue doti di pianificazione strategica di lungo periodo e attenta alle opportunità che si stanno presentando anche grazie ai cambiamenti climatici, la Cina sembra intenzionata a non lasciare solo ad altri lo sviluppo della zona attorno al circolo polare artico, annunciando pubblicamente il suo interesse per una nuova rotta marittima a favore degli scambi internazionali.