giovedì 19 ottobre 2017

COSA SI GIOCANO VENETO E ITALIA CON IL REFERENDUM DEL 22 OTTOBRE - Un articolo di LimesOnLine nazionale in esclusiva per i nostri lettori

Riproduciamo per i nostri lettori non anciora abbonati a Limes l' articolo appena uscito su LimesOnLine (clicca QUI).

Gli effetti della consultazione sull’autonomia, al pari di quella gemella in Lombardia, assai difficilmente resteranno nei confini delle due regioni del Nord. Dall’esito delle urne e dell’affluenza potrebbe innescarsi una reazione a catena che rimette in discussione l’assetto istituzionale del paese.
di Giovanni Collot


Domenica 22 ottobre gli elettori del Veneto, insieme a quelli della vicina Lombardia, saranno chiamati alle urne per pronunciarsi su una maggiore autonomia per la propria regione.

La consultazione, derubricata fin dall’inizio come ennesima boutade secessionistadi un territorio non nuovo a certi balzi in avanti poco ortodossi, ha assunto una nuova più preoccupante sfumatura dopo gli eventi controversi del referendum in Catalogna, lo scorso 1° ottobre. E che ha fatto paventare a molti un rischio di effetto domino.

In realtà, ben poco accomuna il Veneto (e pure la Lombardia) alla Catalogna. Soprattutto dal punto di vista formale. Lungi dall’essere un viatico per una restaurazione della Repubblica Serenissima o una secessione della Lombardia, i due referendum sono consultivi, non vincolanti e più circoscritti. Richiedono una maggiore decentralizzazione di competenze dallo Stato verso Venezia e Milano.

Il quesito sui cui dovranno pronunciarsi gli elettori veneti è piuttosto generico: “Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”.

Così posta, la questione lascia indubbiamente adito ad ambiguità: cosa vuole vuole ottenere, in pratica, il Veneto? In altre parole, quali sono queste “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?“. Per capirlo, bisogna allargare lo sguardo e guardare in un luogo inaspettato, visto il tema del contendere: la Costituzione italiana. In particolare, gli articoli 116 e 117, riformati insieme al resto del titolo V nel 2001, prevedono la possibilità di cedere alle regioni che ne facciano richiesta, con legge dello Stato, una lista di materie di legislazione concorrente, ovvero normalmente gestite insieme dai due livelli territoriali e persino alcune di appannaggio esclusivo dello Stato. Tra di esse, l’istruzione, la tutela della ricerca, la valorizzazione dei beni culturali o il commercio con l’estero, secondo il principio del “regionalismo differenziato”.

Nella norma, una regione potrebbe fare richiesta di maggiori competenze direttamente a Roma, senza passare per una consultazione popolare – è quanto sta facendo l’Emilia-Romagna. Invece, nelle intenzioni di Luca Zaia, il governatore leghista del Veneto nonché principale promotore del referendum, il voto dovrebbe servire a dare un mandato popolare alla regione per negoziare con lo Stato la cessione di ulteriori competenze.

Se la mossa di Venezia ha senza dubbio una certa valenza politica – tanto che i detrattori chiamano la consultazione “il referendum di Zaia” – essa almeno in parte si appoggia a una questione istituzionale di un certo peso: di fatto, gli articoli succitati non hanno visto attuazione pratica fino a oggi. La procedura per l’autonomia differenziata fu già chiesta una prima volta dalla Lombardia nel 2007 e dal Veneto nel 2008, senza però che fosse mai portata a termine – ora è il turno, come accennato, dell’Emilia-Romagna, che ha avviato il processo a fine settembre. A ostacolare il conferimento dell’autonomia differenziata è anche la complessità del negoziato, che prevede l’approvazione tramite un voto del parlamento a maggioranza assoluta.

La speranza di Zaia è di far saltare il tavolo, rafforzando la propria richiesta di autonomia con un forte sostegno popolare. «È evidente che il potere contrattuale della Regione del Veneto si rafforzerà se il referendum farà registrare una fortissima partecipazione e una altrettanto robusta affermazione del “Sì”», spiega il libelloAutonomia: le 100 domande dei veneti a Luca Zaia, distribuito dalla presidenza della regione. «Se il governo dovesse limitare le richieste del Veneto o dovesse rifiutarsi di garantire risorse adeguate al loro finanziamento, farebbe un “autogol” politico».

Lo stesso percorso di avvicinamento al referendum è stato molto accidentato. La forma attuale è il risultato di una lunga triangolazione tra la regione Veneto, lo Stato e la Corte costituzionale. Nel giugno 2014, Venezia aveva presentato, con la legge regionale 15/2014, la proposta di una consultazione con cinque quesiti approfonditi, che andavano dal mantenimento del gettito fiscale sul territorio regionale all’acquisizione di un’autonomia pari a quella di una regione a statuto speciale. La legge, impugnata dal governo, venne limitata e riveduta dalla Corte costituzionale, che nel 2015 riconobbe come legittimo solo il primo dei cinque quesiti, stralciando gli altri come incostituzionali. Dopo una serie di ulteriori negoziati tentati dalla regione, il 24 aprile il Consiglio regionale del Veneto ha annunciato la convocazione del referendum con il quesito attuale, quello legittimato dalla Consulta, per la data del 22 ottobre. Una data simbolica, in quanto 151° anniversario dei plebisciti che nel 1866 sancirono l’unione del Veneto al Regno d’Italia.


È proprio questa scelta simbolica che apre a un discorso più complesso sul referendum veneto: per quanto l’argomento su cui si basa – la redistribuzione di competenze da centro a periferia – sia piuttosto prosaico, esso si inserisce in un sostrato culturale rilevante. Il richiamo all’autonomia fa riferimento a un sentimento di alterità e a un desiderio di autogoverno caratteristici del Veneto profondo. Un riflesso inconscio che porta a galla varie sfumature dello stesso sentimento. Lo testimoniano punte più radicali e quasi situazioniste.

Come quando, sempre nel 2014, mentre nelle sale istituzionali si chiedeva l’autonomia, in rete si teneva un tanto discusso, quanto illegittimo e ben presto sbugiardato, referendum per l’indipendenza del Veneto, su una piattaforma dall’evocativo nome di plebiscito.eu. Oppure come i confini fra le piattaforme politiche nazionali, che si scolorano nell’acqua dei canali: basti pensare agli esponenti del Movimento 5 Stelle a sostenere il referendum insieme alla maggioranza di centrodestra e alle molte voci all’interno del Partito democratico e della sinistra a pronunciarsi in favore dell’autonomia, per non lasciare l’iniziativa sull’autogoverno alla Lega di Zaia.

Questo brodo di coltura permette di inserire in un contesto più ampio il tema dell’effetto del referendum. Anche in caso di vittoria del “Sì”, la procedura per l’autonomia potrebbe non essere diretta. L’ambiguità del quesito non aiuta a definire i confini all’interno dei quali si muoverà l’azione della regione. Lo stesso Zaia ha ripetuto più volte che l’obiettivo del negoziato sarà «ottenere tutto quello che possiamo avere», puntando al maggior numero di competenze possibile. Con una particolare attenzione per i feticci degli autonomisti: l’istruzione, la sanità e l’erogazione dei fondi alle imprese, all’interno del mantra battente del “tenere più schei a casa nostra”. Le questioni specifiche sono lasciate a discussioni successive al voto, in sedi istituzionali. È questa mancanza di dettagli, tra le altre cose, che ha sollevato numerose critiche all’iniziativa, vista come velleitaria e inutile. In particolare per il costo previsto di 14 milioni, totalmente a carico delle finanze regionali.

Anche la narrazione del maggior gettito fiscale mantenuto sul territorio deve passare alla prova dei fatti. La richiesta di maggiori competenze, secondo i proponenti, dovrebbe portare a un utilizzo più virtuoso del cospicuo residuo fiscale annuale registrato da Venezia, che la vede al terzo posto nazionale, dopo Lombardia ed Emilia-Romagna, nella classifica del bilancio dare-avere delle regioni. Tuttavia, le istituzioni venete non sono state ancora in grado di mostrare chiaramente se e quanto la maggiore autonomia porterà a risparmiare o anche solo a ridurre gli sprechi.


Carta di Laura Canali – 2015

Al netto dell’incertezza sui risultati pratici, il referendum veneto rischia comunque di innescare effetti indiretti, ma non per questo meno tettonici. Su tre livelli.

Il primo è quello interno al Veneto, in quanto una vittoria decisa rafforzerebbe ancora di più Zaia in regione, permettendogli di intestarsi il successivo negoziato con il governo.

Il secondo è interno alla Lega, che rivedrebbe il tema autonomista riemergere con prepotenza, e in modo istituzionale, nonostante la mutazione genetica nazionalista imposta dal segretario Matteo Salvini.

Il terzo e più interessante è quello nazionale.
Una eventuale vittoria roboante in due delle regioni del Nord più attive economicamente in questo momento storico riporterebbe con insistenza la questione federalista in cima all’agenda politica. Un capovolgimento di fronte rispetto all’altro referendum, quello costituzionale (fallito) del 4 dicembre 2016, che invece puntava a un maggiore centralismo.

Eppure, dopo un lungo periodo di incubazione, i tempi potrebbero essere maturi per rimettere in discussione dei rapporti centro-periferia.
Nell’attuale situazione di incertezza politica interna, nulla esclude che anche l’Italia possa essere immune alle sirene che provengono da altri paesi d’Europa che affrontano dispute locali, come appunto la Spagna o il Regno Unito.
In questo senso, l’effetto del referendum veneto potrebbe andare oltre le intenzioni dei promotori: innestandosi nell’attuale periodo storico, potrebbe dare la stura a una nuova discussione sul futuro assetto istituzionale del paese.

Che un tale effetto “moltiplicatore” sia possibile, si vede anche analizzando le forze sprigionate sul terreno. I lunghi mesi di avvicinamento al referendum, innestatisi sul milieu culturale discusso poco sopra, hanno visto la rinascita di uno spazio politico identitario, che era rimasto per un certo periodo nascosto sotto la cenere. Lo testimoniano nuove pagine Facebook o movimenti politici emersi a tutti i livelli che hanno popolarizzato il discorso attorno alla questione dell’eccezionalismo veneto.

È troppo presto per dire a cosa porterà questo percorso e in quali altre forme si manifesterà, dopo il 22 ottobre. Eppure, rimane la possibilità concreta che il referendum veneto si riveli più un punto di partenza che un punto di arrivo per una ridiscussione profonda degli equilibri di potere italiani. Una parte consistente di tale discussione sarà basata su come il governo centrale reagirà alle nuove richieste di autonomia: se deciderà di aprire un negoziato più ampio, riconoscendone il valore politico, oppure ridurrà tutto a mere questioni di tecnicismi istituzionali.

Dal Veneto potrebbe passare il futuro d’Italia. Tutto dipenderà da come (e se) l’Italia stessa ha imparato l’esercizio di immaginare se stessa.

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