Quando trattiamo il dossier libico finiamo per tripartirlo nel classico schema energia/terrorismo/migrazioni. Il primo affidato all’Eni, gli altri due a intelligence, Difesa e ministero dell’Interno. A Palazzo Chigi e, dietro le quinte, al Quirinale, resta il disperato tentativo di stabilire una rotta italiana.
“Splende la pace in Tripoli latina, recando i dromedarii un sacro odore”.
È passato poco più di un secolo da quando Gabriele d’Annunzio così sobriamente cantava la conquista italiana della quarta sponda, su cui Italo Balbo avrebbe poi inventato la Libia. Di latino, o meno aulicamente d’italiano, a Tripoli e in quella che gli atlanti continuano a designare Libia – di fatto uno spezzatino geopoliticoconteso tra milizie, etnie, tribù varie, e dalle potenze esterne che le sponsorizzano ai propri fini – è rimasto davvero poco.
Ora che le truppe del generale Haftar premono su quella che fu la capitale della Libia, dove in pochi metri quadri è asserragliato il nominale governo del pallido al-Serraj, riconosciuto dall’Onu, sostenuto con calante enfasi dall’Italia e boicottato da molti paesi che fingono di appoggiarlo, è d’obbligo una revisione di quanto (non) abbiamo fatto negli otto anni del dopo-Gheddafi. Non cedendo alla tentazione di cavarcela con l’abituale litania anti-francese.
Certo, Parigi non ha mai collaborato con Roma né in Libia né in Tunisia né nel resto di quello che per noi è il Nordafrica Vicino, per i francesi la frontiera strategica che sigilla il loro pré carré imperiale. Peraltro, la Francia continua a pagare il prezzo dell’avventurismo di Sarkozy, che sarebbe finito in catastrofe già nel 2011 se gli Stati Uniti non fossero venuti in suo soccorso. Né si può omettere che persino l’Italia – in contraddizione con i suoi interessi ma in perfetta continuità con l’inclinazione a cercare uno strapuntino al tavolo dei grandi – volle mettere il suo gettoncino militare nello scavo di un vertiginoso buco nero geopolitico a poche miglia marine dalla Sicilia.
In Libia abbiamo commesso un solo errore. Il solito: niente strategia. Quando trattiamo il dossier libico finiamo per tripartirlo nel classico schema energia/terrorismo/migrazioni. Il primo affidato all’Eni, che proprio ieri ha annunciato l’evacuazione del personale italiano in loco; il secondo e il terzo all’intelligence, alla Difesa ma soprattutto al ministero dell’Interno, ormai evoluto in superdicastero onnicomprensivo, lasciando agli Esteri, in fase atarattica, la routine diplomatica. A Palazzo Chigi e, dietro le quinte, al Quirinale, resta il disperato tentativo di stabilire una rotta italiana. Non solo dei singoli soggetti pubblici o privati coinvolti nella mischia libica, ciascuno concentrato su sé stesso.
Ossessionati dalla presunta emergenza migratoria, ne abbiamo fatto l’alfa e l’omega della questione. Con successo, se consideriamo che i libici sbarcati in questi ultimi due anni in Italia si contano sulle dita delle mani e i flussi via Canale di Sicilia sono pressoché nulli. A costo della scomparsa di migliaia di persone affogate nel Mediterraneo, centinaia di migliaia vessate nei lager locali – su questo siamo perfettamente in linea con la “comunità internazionale”.
Oggi constatiamo che l’assenza di strategia ha ridotto al minimo la nostra influenza nella partita libica e più latamente mediterranea, in cui ci giochiamo una quota decisiva di sicurezza e benessere. Dopo esserci cullati nell’illusione che gli Stati Uniti avessero davvero voluto regalarci la gestione di quel rompicapo geopolitico. Quasi fosse privilegio.
Per renderci conto dell’altezza dello scontro, basta considerare il rango delle potenze coinvolte. Mondiali, non solo regionali. Profittando del relativo disimpegno dell’America, della competizione intestina fra apparati militar-burocratici e poteri politici (ieri la Casa Bianca, a smentire i messaggi obliqui di alcune agenzie nazionali, ha informato Haftar di non avergli mai dato luce verde per la presa di Tripoli), russi e soprattutto cinesi si sono affacciati nel “Mare Nostro”. In particolare nel caos libico, dove paiono trovarsi a perfetto agio. I russi armando fino ai denti Haftar, non gratis.
I cinesi tornando in forze nell’ex Libia. Nel contesto della penetrazione da sud-est della sfera d’influenza americana in Eurafrica, imperniata sull’impegno non solo economico e commerciale nell’area di Suez e nel Mar Rosso. Dopo Gibuti, potremmo veder spuntare basi cinesi in pieno Mediterraneo. Il ribollire del colosso algerino, le incertezze sul futuro della monarchia marocchina allargano il gioco all’intera facciata mediterranea africana. Per esempio spingendo l’Egitto a credere di poter finalmente mettere mano, via Haftar, sulla Cirenaica, contando sull’introversione di Algeri.
Forse è tardi, o forse no, ma provare a fissare i nostri interessi nella regione,per recuperare un’intesa pur minimale ma attiva con Washington, Parigi e Berlino su come evitare che diventi campo altrui o caos permanente, parrebbe esercizio dovuto.