martedì 28 agosto 2018

IMPORTANTE INTERVISTA A LI RUIYU, AMBASCIATORE CINESE A ROMA, SULLA VISITA GOVERNATIVA IN CORSO A PECHINO - SI PARLA MOLTO DI TRIESTE, DEL PORTO E DELLA ZONA FRANCA IN ZONA INDUSTRIALE -


Intervista all' ambasciatore a Roma Li Ruiyu dell' agenzia AGI del 27/8/18 (clicca qui):

“La Cina è interessata a rafforzare la cooperazione con l'Italia anche in ambito finanziario”. A parlare è l’ambasciatore cinese Li Ruiyu in una intervista all’Agi, alla vigilia della missione in Cina (27 agosto-1 settembre) del Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria. La visita ha l’obiettivo, spiega un comunicato, di “rafforzare ulteriormente i rapporti economici tra i due Paesi, che possono trarre reciproco vantaggio da una intensificazione delle relazioni economiche, finanziarie e commerciali”


Tria ha in programma incontri al massimo livello nella People's Bank of China. La Cina potrebbe essere interessata a comprare titoli del debito italiano?

Accolgo con favore la visita in Cina del Ministro Tria. In base alle informazioni in mio possesso, quella in Cina sarà la sua prima visita ufficiale al di fuori dell’Unione Europea. Sono convinto che tale missione possa essere utile al Ministro per comprendere meglio la Cina e per ottenere nuovi progressi nella promozione della cooperazione economico-finanziaria sino-italiana. Gli investimenti in debito estero sono una parte importante del portfolio di investimenti in valuta estera della Cina e rappresentano operazioni di mercato. Alla luce della situazione dei mercati internazionali e alle esigenze di investimento del governo cinese, è necessario adottare una gestione finanziaria precisa.

Cosa intende, Ambasciatore?

La Cina gestisce da sempre le riserve in valuta estera in base al principio della diversificazione e della distribuzione. In altre parole, le operazioni di investimento e l'allocazione degli asset avvengono in base alle necessità della Cina, con l’obiettivo di garantire la sicurezza, il mantenimento e l’accrescimento del patrimonio in valuta estera. A prescindere che si guardi alle riserve valutarie o al mercato degli investimenti, la Cina è sempre e comunque un investitore responsabile; le sue attività di investimento da un lato promuovono la stabilità dei mercati finanziari internazionali, dall’altro mirano a mantenere e accrescere il valore delle riserve.

Cosa significa questo per l’Italia?

Attualmente, i rapporti sino-italiani vivono un momento di rapido sviluppo, e i due Paesi intendono approfondire ulteriormente la cooperazione di mutuo vantaggio. Spero che Cina e Italia possano attuare concretamente l’intesa raggiunta dai nostri leader di governo, e promuovere in modo stabile lo sviluppo della cooperazione in tutti i settori, compreso quello finanziario.

Nell'ambito del progetto Belt and Road, sappiamo che il governo cinese è interessato al porto di Trieste come approdo in Europa per i mercantili in arrivo dalla Cina meridionale, attraverso l’Oceano Indiano e Suez. “Le autorità e le aziende cinesi hanno già preso contatti con i porti come Trieste, per sviluppare nuove opportunità di cooperazione”, aveva detto a gennaio scorso intervenendo al convegno organizzato dalla Società italiana per l’organizzazione internazionale (SIOI) e dall’Ambasciata cinese. Ci sono stati sviluppi?

L’Italia e la Cina sono rispettivamente il punto di partenza e quello di arrivo dell'antica Via della Seta e sono partner importanti nell’ambito all’iniziativa “Belt and Road”. Lo scorso anno, abbiamo siglato il “piano di azione quadriennale sino-italiano per il rafforzamento della cooperazione 2017-2020”. Si tratta di un documento che esprime chiaramente la volontà di rafforzare il coinvolgimento delle infrastrutture logistiche italiane, e in particolare di creare opportunità di cooperazione con i porti italiani. 

In che modo?

Il porto di Trieste è situato vicino al confine nord-orientale dell’Italia e costituisce un accesso importante al Nord dell’Adriatico: una posizione decisamente favorevole. A partire dallo scorso anno, il presidente di Assoporti e il Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale, Zeno D’agostino, ha fatto visita due volte in Cina. Ha incontrato i rappresentanti della China Communications Construction e di altre aziende cinesi, aprendo un confronto in merito alle infrastrutture portuali e alla cooperazione. La Cina ha a sua volta organizzato delle missioni di studio presso il Porto di Trieste. 

Questi contatti sono andati avanti?

Per quando ne sappiamo, una serie di proposte che riguardano piani di sviluppo per il porto hanno ottenuto l’autorizzazione delle istituzioni italiane preposte, sia a livello nazionale che regionali, spianando la strada alle successive fasi di cooperazione. Inoltre, l’Autorità Portuale di Trieste ha acquistato un'area di 300 mila metri quadrati per la realizzazione di una zona franca. Una iniziativa che può dare un importante supporto allo sviluppo sistematico del settore.

Cosa manca?

Un proverbio italiano dice “chi va piano va sano e va lontano”. Sono convinto che le aziende italiane e cinesi, sotto l'egida dell’iniziativa “Belt and Road”, possano promuovere concretamente la cooperazione portuale bilaterale. Al contempo, spero che si possa arrivare quanto prima alla firma del Memorandum of Understanding per la cooperazione per la cooperazione bilaterale lungo la Nuova Via della Seta.

Alcune recenti analisi sottolineano il rischio per alcuni Paesi coinvolti nella Belt and Road di cadere nella cosiddetta «trappola del debito» con la Cina.

Negli ultimi cinque anni, da quando il Presidente Xi Jinping ha lanciato l’iniziativa Belt and Road nel 2013, la costruzione della Nuova Via della Seta si è gradualmente trasformata da teoria a prassi, da visione a realtà. Insomma, ha ottenuto importanti risultati proprio grazie all’impegno congiunto di tutte le parti coinvolte. Con la promozione di progetti infrastrutturali, quali ad esempio l’aumento delle linee della China Railway Express, l’apertura del "corridoio aereo", abbiamo costruito passo dopo passo, insieme a tutti i Paesi lungo le Vie della Seta, ponti di cooperazione, vie di amicizia. In altre parole, abbiamo realizzato pienamente il concetto di una cooperazione in cui “coloro che hanno visioni simili non possono essere divisi da mari o monti”.

In questo processo, la Cina ha sempre sostenuto un approccio di uguaglianza, apertura e trasparenza, mettendo al centro le aziende e operando secondo le regole del mercato e le norme internazionali dei diversi settori. Ogni progetto è il frutto di negoziati paritari con le parti coinvolte. La realizzazione del Belt and Road rispetta il triplice principio di “negoziati congiunti, costruzione congiunta e risultati condivisi”. I numeri parlano chiaro: abbiamo generato a favore dei nostri partner introiti fiscali per 220 miliardi di dollari e più di 200 mila posti di lavoro, ricevendo il sincero apprezzamento dei governi e dei cittadini dei Paesi interessati. 

Riguardo ai media che hanno parlato di “trappole del debito” adducendo accuse ingiustificate, non posso che dire che sono in completo disaccordo.

Ci spieghi

Faccio due esempi. Il primo riguarda la cooperazione della Cina con le aziende greche per il progetto di cogestione del Porto del Pireo. Da quando Cosco ha realizzato l’investimento, il traffico dei container è aumentato di 6 volte, e il porto è passato dalla 93esima posizione alla 36esima a livello mondiale, divenendo il terminal con la crescita più rapida al mondo. Ciò ha iniettato nuova linfa vitale per la ripresa economica e l’uscita dalla crisi della Grecia.

Il secondo esempio?

Riguarda la cooperazione tra Cina e Sri Lanka per la gestione del porto di Magampura Mahinda Rajapaksa. Attualmente il porto registra ottimi risultati: gli introiti sono condivisi tra i due Paesi. Le due parti stanno lavorando insieme per far sì che lo Sri Lanka raggiunga l’obiettivo di diventare un hub logistico importante dell’Oceano Indiano. Stando al rapporto 2017 della Banca Centrale Cinese, la rimanenza dei prestiti concessi dalla Cina rappresentava solo il 10,6% del totale dei debiti esteri dello Sri Lanka.  All’interno di questa percentuale, il 61,5% dei prestiti erano stato concessi in forma agevolata, non rappresentando quindi il principale fardello sul debito estero.

Come si spiega queste critiche?

Purtroppo, ci sono sempre persone, gruppi, che per via di pregiudizi o di proposito, cercano di screditare gli importanti risultati ottenuti dall’iniziativa Belt and Road, e colgono ogni occasione per distorcere il senso e i contenuti dell’iniziativa, affibbiando alla Via della Seta e alla Cina una serie di etichette, dalla trappola del debito, all’ascesa geopolitica, allo sfruttamento delle risorse. Ci tengo a sottolineare che tra i nostri partner non ce n’è uno che è entrato in una crisi del debito a causa della cooperazione con la Cina. E di tutte le “crisi del debito” che abbiamo visto fino ad oggi, non ce n’è neppure una che sia partita dalla Cina. Spero che i media possano mantenere un atteggiamento di ricerca della realtà dei fatti, togliendosi le lenti che deformano la realtà, e proponendo articoli più oggettivi, giusti e completi, per far sì che i loro lettori possano leggere la verità.

Il Mise ha lanciato nei giorni scorsi la Task Force Cina. Anche il Sottosegretario allo sviluppo economico, Michele Geraci, è in partenza per la Cina per aumentare la cooperazione economica e attrarre maggiori investimenti. Cosa possiamo aspettarci nei rapporti Italia-Cina nel 2019?
L’istituzione della Task Force, che ha finanche l’obiettivo di migliorare la posizione dell’Italia come partner prioritario della Cina nell’ambito della Via della Seta e nei confronti della strategia “Made in China 2025”, evidenzia non solo l’importanza che il governo italiano attribuisce alla Cina, ma anche la risolutezza che mette nella cooperazione bilaterale. Permettetemi di esprimere il mio più alto apprezzamento. Auguro a Geraci un pieno successo della visita. Del resto, negli ultimi anni, le relazioni tra Italia e Cina hanno registrato un notevole sviluppo: la fiducia politica reciproca è sempre più profonda, la convergenza di interessi sempre più fitta, e gli scambi people to people sempre più floridi. Il 2019 sarà l’anno della celebrazione del 15esimo anniversario dall’istituzione del partenariato strategico globale bilaterale e nel 2020 sanciremo il 50esimo anniversario dall’instaurazione delle relazioni diplomatiche. I rapporti bilaterali si trovano di fronte a un nuovo momento storico per il loro sviluppo, sia sul fronte della cooperazione economica, sia sull’impegno internazionale. In un contesto internazionale segnato dal ritorno di spinte protezionistiche, Cina e Italia devono promuovere la liberalizzazione del commercio e gli investimenti globali.


domenica 19 agosto 2018

AL CENTRO DELL' EUROPA - ECCO PERCHE' AI CINESI PIACE IL PORTO DI TRIESTE - UN' INTERVISTA AL SOTTOSEGRETARIO ALLO SVILUPPO MICHELE GERACI PUBBLICATA DAL CORRIERE DELLA SERA DENSA DI PROSPETTIVE PER IL FUTURO DELLA NOSTRA CITTA' -

Pubblichiamo l'interessante intervista sul Corriere della Sera di domenica 19 (QUI) dell' economista Michele Geraci , Sottosegretario allo Sviluppo Economico nel Governo Conte, perchè è densa di prospettive per il futuro di Trieste e del suo Porto Franco Internazionale.


«Al centro dell’Europa: ecco perché
ai cinesi piace il porto di Trieste»

Il sottosegretario Geraci: Sui trasporti sanno più di tutti




Il governo Conte ha deciso di aprire le porte dell’Italia alla Cina. A fine mese, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, sarà a Pechino per incontri politici. In parallelo, una missione coordinata dal sottosegretario allo Sviluppo Michele Geraci (che a Shanghai vive da dieci anni) sarà nel Paese, dal 28 agosto al 2 settembre, per parlare di affari. «Vogliamo trasmettere alla Cina — dice Geraci — l’idea che è il governo italiano, non qualche individuo, a intraprendere una nuova strada di rapporti intensi. Cercheremo investitori che possano sostituire la Banca centrale europea quando gli acquisti di Btp da parte di quest’ultima termineranno, a fine anno. E vogliamo trovare occasioni di business comuni».

Pechino è pronta a comprare titoli italiani?

«La Cina cerca investimenti alternativi a quelli effettuati finora. Il fatto che i rendimenti dei titoli italiani siano più elevati di altri, paradossalmente è qualcosa che li rende attraenti. Ma nel nostro viaggio vogliamo avere un approccio sistemico. Dei titoli pubblici si occuperà maggiormente Tria, io mi concentrerò su altri tipi di cooperazione, dai progetti cinesi sulla Via della Seta all’Africa, dall’immigrazione agli investimenti in Italia».

Lei parla di investimenti cinesi in Italia. Di che tipo?
«Non trovo interessanti tanto le acquisizioni dirette, quanto gli investimenti greenfield, che partono da zero, oppure ingressi in imprese per portare capitali e rafforzarle. Come è successo in Ungheria e sta succedendo in Austria: aumenti di capitale per finanziare la crescita».

Alcuni Paesi europei, come la Germania, stanno invece cercando di limitare gli investimenti cinesi, soprattutto in settori strategici.

«I tedeschi si sono svegliati dopo che è stata comprata la loro Kuka Robotics, considerata strategica. Ma se in Italia i cinesi investiranno in infrastrutture o in trasporti, non vedo problemi. Anzi. Se in un porto italiano realizzano un molo in più, sono i benvenuti. Lo stesso nelle linee aeree: se prendessero una quota di minoranza in Alitalia non vedrei il problema. Più in generale, nelle infrastrutture non siamo messi bene: possono portare un contributo positivo. Su infrastrutture e trasporti oggi la Cina è il Paese che ne sa di più».

Si parla di un investimento di Pechino nel porto di Trieste.

«La Cina cerca un porto nell’Adriatico del Nord, per raggiungere l’Europa con le sue merci: il più a Nord possibile, perché muoversi per via d’acqua costa meno che muoversi per via terra. Trieste sarebbe la soluzione migliore: investimenti cinesi per ampliarne la capacità, anche logistica. La posizione della città è ottima per loro: non tanto perché è in Italia, ma perché è sul confine, ha connettività con l’Europa dell’Est e del Nord».

Cosa direte ai cinesi?
«Vorremmo dire loro dove investire. Non come in passato quando si parlava di tante ipotesi, generiche, per i porti. Il loro interesse si concentra su Trieste. Per noi è un’opportunità».


La Ue è però scettica sull’espansione cinese. Gli ambasciatori dell’Unione a Pechino hanno scritto una lettera nella quale dicono che gli interessi della Cina non sono quelli dell’Europa.

«Meno l’ambasciatore ungherese. Sono timori che vengono sempre dai Paesi dell’Europa del Nord. Nessuno in Grecia si lamenta del fatto che i cinesi abbiano ampliato il Pireo. Perché la Ue si dovrebbe preoccupare di Trieste? Che timori può avere l’Olanda se entrano in Alitalia? Forse la Lufthansa li potrebbe avere. Non capisco. Temono che dal Sud arrivi più concorrenza?».

Il fatto è che Pechino fa prestiti per lo più a Paesi finanziariamente deboli, poi ricattabili.

«In parte è vero. Non credo che però l’Italia potrebbe finire nella cosiddetta trappola del debito: finirci o meno non dipende dal prestatore, ma dal Paese che riceve l’investimento. L’Italia ha molte risorse e credo che il rapporto tra Roma e Pechino possa essere un buon connubio. Loro intervengono in un Paese per volta, in Europa. Noi abbiamo la possibilità di essere quelli più avanti, in questo rapporto: possiamo puntare a una relazione privilegiata».

mercoledì 15 agosto 2018

L'EUROPA HA CAMBIATO L'AUSTRIA. ORA L'AUSTRIA VUOLE CAMBIARE L'EUROPA - Un articolo di Limes On Line -

L’Europa ha cambiato l’Austria. Ora l’Austria vuole cambiare l’Europa

Le crisi che attraversa l’Unione Europea impongono a Vienna di riflettere sulla propria identità, sul rapporto con la Germania e su quello con la Mitteleuropa.


L’ultimo decennio ha visto grandi trasformazioni dello spazio geopolitico attorno alla piccola Austria.


Queste numerose trasformazioni hanno ulteriormente alterato quei tratti del sistema regionale sopravvissuti alla caduta della cortina di ferro, che aveva cristallizzato la postura internazionale austriaca in una funzionale nicchia di neutralità che si inseriva lungo tre vettori principali. Quello mitteleuropeo, che era finito oltre-cortina ed era a egemonia russo-sovietica; quello balcanico, che coincideva sostanzialmente con lo spazio neutrale jugoslavo; quello europeo, determinato dal polo di attrazione linguistico ed economico della Germania, principale motore del processo di costruzione di uno spazio politico comunitario.

Questo incastro di tre mondi geopolitici che si dipanavano attorno a Vienna, rendendo speciale la posizione di frontiera multipla dell’Austria, era ovviamente il prodotto delle fratture geopolitiche dell’ordine di Yalta. Che, ancorché sopravvissute al crollo della cortina di ferro, erano iniziate a venire meno in seguito alla dismissione dei progetti geopolitici sovietico e jugoslavo e all’emersione del piano per la creazione di una cosiddetta Nuova Europa che unisse l’Europa occidentale con quella orientale e sud-orientale. Quest’ultimo progetto rappresentava una drastica semplificazione geopolitica a nord, est e sud-est dell’Austria; rendeva apparentemente superato il concetto di neutralità di Vienna, in quanto due terzi dei paesi confinanti entravano nello spazio di attrazione dell’unico vettore geopolitico sopravvissuto, quello del cosiddetto allargamento euro-atlantico, con centro nominale a Bruxelles e centri strategici a Washington e Berlino.

Il processo di allargamento euro-atlantico spostava le frontiere geopolitiche di diverse centinaia di chilometri dai confini austriaci, avviando un superamento dello status di neutralità attiva e creando un rischio di marginalizzazione. Vienna tentò di superare questo rischio con l’ingresso nell’Unione Europea (referendum del 1995), rinunciando all’opzione di una sovranità assoluta, quella di divenire una Svizzera dell’Est. Pochi hanno osservato che la riconfigurazione della politica estera austriaca in chiave europeista implicava il prevalere dell’opzione pangermanica a scapito di quella nazionale.
Le progressive difficoltà registrate dal progetto europeo anche nella sua dimensione orientale (problemi economici e istituzionali dei paesi di nuovo allargamento, mancato completamento dell’integrazione dei Balcani occidentali, acuirsi delle tensioni dell’Ue con Mosca ed Ankara), la fragilità dell’Eurozona e da ultimo la crisi migratoria che ha investito il continente hanno ridato forza in Austria alla prospettiva nazionale rispetto ai fallimenti della Ostpolitik europea e tedesca.

In questo contesto, l’affermazione di un governo conservatore-nazionalista e l’abbandono della grande coalizione – la stessa al potere nei parlamenti di Berlino e di Bruxelles – sono segnali di rottura rispetto agli sviluppi nella politica interna ed esterna dell’Ue. In particolare, rispetto alla gestione da parte della cancelliera tedesca Angela Merkel delle due grandi crisi intervenute con Mosca ed Ankara. L’Unione Europea è stata costretta a scendere a patti con Erdoğan dopo aver subito la crisi migratoria nel biennio 2014-2015 e a sposare la linea dura di Washington contro Putin per il conflitto in Ucraina; le sanzioni alla Russia e la linea morbida verso la Turchia hanno ampliato le differenze tra Berlino e Vienna, rendendo la visione geopolitica di quest’ultima più simile a quella della Baviera o degli Stati del blocco di Visegrád (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia – V4) che a quella del più grande Stato tedescofono d’Europa.

I cambiamenti negativi verificatisi negli ultimi anni in Europa sud-orientale hanno ulteriormente eroso l’immagine che ha l’Austria dell’Unione Europea. È andato a picco il rapporto con la Russia, da cui Vienna importa il 50% del gas naturale; si sono riacutizzate le tensioni etniche e geopolitiche nei Balcani, regione in cui il sistema finanziario ed economico austriaco ha investito massicciamente; Ankara è passata da alleata ad antagonista de facto, e ha già dimostrato di poter annichilire la Grecia e mettere in ginocchio la stessa Germania aprendo il rubinetto dei migranti; l’assertivo blocco di Visegrád, al di là delle simpatie o affinità politiche su certi temi, di fatto sostituisce al soft power post-moderno mitteleuropeo austriaco e tedesco un forte patriottismo nazionalista d’impronta cristiana, slava e magiara.

L’Austria è profondamente euroscettica, ma la natura del suo euroscetticismo è incomprensibile se non si analizza l’identità nazionale. Nel dopoguerra il nazionalismo in Austria si è sviluppato, in maniera poco visibile e sotterranea, lungo tre dimensioni: quella localista, delle heimat e delle piccole patrie; quella pangermanista, della opzione Großdeutschland; e quella statalista, basata su un’identità racchiusa nel binomio neutralità + Stato sociale. La destra attuale, ad esempio, specialmente nella versione “sovranista” ultimi anni sotto la guida di Strache, non ha mai richiesto l’uscita dall’Ue o dalla moneta unica e si è sempre caratterizzata per una linea nei fatti molto più morbida rispetto agli omologhi partiti europei. Il paradosso dell’euroscetticismo austriaco e delle sue ambiguità è tutto qui: il nazionalismo austriaco è in qualche modo la sintesi di queste tre componenti apparentemente inconciliabili; l’integrazione europea è oggi l’unica forma possibile di pangermanismo soft.
È chiaro che l’abolizione dei confini, la libera circolazione del capitale, la riduzione delle forme nazionali di controllo dell’economia sono tutti fattori che con il tempo lavorano per una forma di unificazione post-moderna dei due maggiori Stati tedescofoni d’Europa, riproponendo il grande tema della creazione di unico spazio pangermanico dal Mar Baltico ai Balcani. Un progetto che il declino dell’Ue, l’assertività russa e turca e l’emersione del blocco di Visegrád hanno però messo in crisi, sviluppando tre progetti geopolitici concorrenti. Se l’Unione Europea non è la via per un rapporto più politicamente integrato con la Germania, tanto vale ridurne gli effetti invasivi e le ambizioni di trasferimento di sovranità dai Länder (Stati federali) a Bruxelles.

Il semestre di presidenza austriaco (luglio-dicembre 2018) coincide con un momento estremamente delicato della crisi dell’Unione Europea. Quella di Vienna sarà l’ultima presidenza prima del Brexit, previsto per 29 marzo 2019, e delle elezioni europee del 23 maggio 2019, che si annunciano come uno scontro tra europeisti e sovranisti. Difficilmente l’Ue potrà sopravvivere a questo doppio passaggio rimanendo uguale a sé stessa, ma dovrà necessariamente avviare un processo di ripensamento dagli esiti quanto mai incerti, che potrebbe portare a una sostanziale revisione dei trattati. In questo contesto revisionista, anche la ridefinizione del nuovo budget settennale – che proprio durante la presidenza austriaca andrà incontro a dei passaggi chiave – diventa cruciale.
Ad accrescere il significato mediatico del semestre iniziato a luglio è il fatto che sia il primo in mano a un governo guidato da un’inedita coalizione tra conservatori e nazionalisti. Anche se non è molto chiaro come l’esecutivo austriaco possa influenzare il clima politico europeo attraverso il debole strumento semestrale della presidenza. Altri organi istituzionali, la Commissione in primis, determinano gli sviluppi dei principali dossier. All’Austria – in particolare al primo ministro Kurz, che ha voluto trasferire dal ministero degli Esteri al
cancellierato le competenze europee per non lasciarle in mano alla FPÖ – resta la visibilità e soprattutto il coordinamento dei lavori del Consiglio, in cogestione con il presidente Tusk.

Contrariamente a quello che molti potrebbero aspettarsi, sul dossier più importante – Brexit – l’Austria non seguirà una linea che possa definirsi sovranista. Vienna appare difatti intenzionata a mantenere l’unità dei 27 come principale valore in gioco, non dimostrandosi disposta a favorire un accordo a metà che schiuda a Londra modalità intermedie tra l’inclusione e l’esclusione dall’Ue. Il tema è cruciale non solo per la Gran Bretagna: le modalità con cui il Regno Unito rimarrà collegato o meno a Bruxelles potrebbero creare uno spazio per quegli Stati desiderosi di aprire una terza opzione tra adesione e fuoriuscita. L’opzione di una partecipazione di seconda classe non è dissimile dal concetto di Europa a due velocità che si sta facendo strada a Berlino – concetto che rischia di indebolire ulteriormente l’Unione e potrebbe avvicinarne la disintegrazione.
I membri del V4 (tre dei quali sono fuori dall’Eurozona) appaiono pronti a prendere questa strada, Vienna per il momento no. I legami economici e finanziari con la Germania, sulla cui importanza concordano gli europeisti federalisti e i nazionalisti filo-tedeschi, sono un patrimonio da non mettere a rischio e appaiono più forti della tentazione di una revisione radicale della struttura dell’Ue.

Con questi limiti, l’euroscetticismo di Vienna imporrà una frenata graduale del processo di integrazione europea verso un super-Stato sovranazionale, processo del resto già arenatosi per conto suo. Nel linguaggio costituzionale-burocratico della presidenza austriaca questo approccio passa sotto il nome di sussidiarietà e di efficientamento della spesa pubblica europea. Affermare questo principio nel momento in cui l’Ue traballa per colpa del Brexit e si apre una finestra per la revisione dei Trattati vuol dire riportare Bruxelles alle sue competenze minime fondamentali, avviando una rinazionalizzazione delle competenze stesse che potrebbe portare a un nuovo patto di sussidiarietà tra gli Stati membri, la Commissione e il Parlamento europeo.
In questi anni, in Austria il processo di integrazione europeo è stato piuttosto asimmetrico; ha eroso competenze e sovranità prevalentemente a livello dei Länder, mentre ha paradossalmente rinforzato il debole ruolo dello Stato centrale. Questo sia perché gli ambiti delle competenze cedute non erano in massima parte quelle del dominio di Vienna, sia perché il cancelliere – il cui ruolo è quello di un coordinatore più che di un artefice delle politiche – è stato enormemente rafforzato rispetto ai governatori e ai ministri, visto che è lui a sedere nella principale sede europea (il Consiglio) in cui la devoluta sovranità politica nazionale viene assemblata sotto nuove forme.

Un altro dossier importante su cui la presidenza austriaca si focalizzerà sarà certamente quello migratorio. Sul tema c’è una potenziale unità di intenti con la Baviera, Visegrád e in parte anche con il governo italiano. Alla base dell’approccio austriaco c’è la volontà di fermare l’immigrazione illegale verso l’Europa spostando l’azione congiunta dalla redistribuzione tra paesi membri alla protezione delle frontiere esterne dell’Ue. Il tema migratorio è esplicitamente legato alla sicurezza interna (anche contro radicalizzazione e terrorismo); viene offera, almeno retoricamente, solidarietà alla Grecia e all’Italia, che non devono affrontare la pressione immigratoria illegale sulle loro coste da soli.
Questa visione può portare a un rafforzamento del mandato di Frontex, anche se la chiave per il controllo delle frontiere resta quella degli accordi con i paesi terzi di transito. Il semestre austriaco potrebbe essere il momento per mettere mano alla questione giuridica del sistema migratorio e di asilo europeo, ma si tratta di un terreno complesso e insidioso, in particolare per chi – come Austria e Germania – ha fatto dell’accoglienza umanitaria un pilastro del proprio reinserimento nella comunità internazionale del dopoguerra.
Più facile che si acceleri sulla creazione delle cosiddette “piattaforme regionali di sbarco” fuori dall’Unione Europea, in cui far confluire i migranti illegali salvati nel Mediterraneo. Si tratta di un vecchio progetto di Vienna, il cui governo ha già cercato senza successo di trovare paesi disponibili lungo la rotta balcanica. Nella persistenza della crisi migratoria, alcuni Stati extra-Ue come l’Albania, la Tunisia o l’Egitto potrebbero essere nuovamente interpellati; il compito di trovare paesi disponibili e zone isolate in cui costruire i campi di accoglienza temporanea (si cercano in particolare isole disabitate nel Mediterraneo) appare però particolarmente arduo. L’idea, a ogni modo, avrà un discreto sostegno: oltre all’Austria, alla Germania, ai V4 e all’Italia, potrebbe aggregarsi qualche Stato nordeuropeo desideroso di bloccare a monte i meccanismi di redistribuzione dei profughi senza apparire chiuso ai problemi umanitari.

A proposito di Visegrád: l’Austria è spesso vista come un membro aggiunto di tale gruppo, ma la realtà è più complessa. Si tende a considerare il V4 come un consorzio anti-migratorio, mentre i fattori che hanno spinto questi paesi a collaborare precedono di molto lo scoppio della crisi migratoria, che ovviamente – anche in virtù della debole e inefficace risposta europea – ne rafforza la compattezza. Vienna ha sempre cercato di dispiegare il proprio soft power nell’area che fu asburgica, quindi con alcuni membri di questi Stati ha relazioni privilegiate e particolari dai tempi della guerra fredda. Ma l’elemento polacco, che è determinante nel progetto del V4, porta verso la costruzione di un’identità geopolitica autonoma che non sia né germanica né russa. Visegrád, pur nelle sue blande forme di cooperazione, si muove su vettori non diversi da quelli del Trimarium: vuole favorire l’emersione di un’altra Europa di mezzo che si inserisce lungo un asse nord-sud nello spazio compreso tra il termine del mondo germanico e germanofilo e l’inizio del mondo russofono e russofilo.

L’Austria si trova dunque a presiedere l’Unione Europea in momento in cui il progetto dell’Ue è entrato in crisi. Le modalità con cui essa ne uscirà possono essere fondamentali tanto per i nuovi equilibri geopolitici nell’Europa sud-orientale che per il futuro della questione dell’identità nazionale austriaca, sia nei confronti dei vicini orientali che nei confronti della Germania. I mesi di qui a dicembre non potranno determinare gli esiti di questi processi, ma saranno un utile indicatore delle nuove tendenze che stanno emergendo a Vienna.

Pubblicato su Limes On Line del 9/8/18