sabato 29 luglio 2017

Lo schiaffo di Macron a Fincantieri danneggia pure la Francia - un articolo di LimesOnLine


Nazionalizzando Saint-Nazaire, Parigi dimostra di non aver intenzione di cedere all’Italia lo scettro del consolidamento della cantieristica europea. Anche a costo di affondare la creazione di un polo europeo in grado di competere con i giganti asiatici. E di rischiare il collasso dei suoi stessi storici cantieri.


Con l’ordine di nazionalizzare gli storici cantieri della Loira di Saint-Nazaire, l’acclamato enfant prodige della politica franco-europea Emmanuel Macron ha scelto di scaricare una vera e propria bordata contro Fincantieri, uno dei leader indiscussi delle costruzioni navali occidentali sia in campo civile che militare.

Per il colosso italiano l’acquisizione di Stx France era un’occasione da non perdere: mettendo le mani sulla diramazione francese del conglomerato sudcoreano Stx Offshore & Shipbuilding, travolto dalla crisi del settore dei trasporti marittimi e sottoposto ad amministrazione controllata da un tribunale di Seoul, Fincantieri puntava a dare ossigeno a un processo di crescita che negli anni si era fatto sempre più impetuoso.

Grazie al suo forte radicamento nel segmento traghetti e navi da crociera, il costruttore di Trieste ha potuto schivare le conseguenze del tracollo della cantieristica navale mondiale (-73% nel 2016), che ha fatto vittime soprattutto in Corea del Sud e Giappone.

Oggi vanta oltre un centinaio di navi in portafoglio, 20 cantieri in quattro continenti con più di 20 mila dipendenti, consegne che arrivano al 2025 per quanto riguarda le navi da crociera. Mentre la qualità dei suoi prodotti militari le è valsa importanti commesse da parte della Marina militare italiana (11 navi) e di quella del Qatar (7 navi). Assieme ai britannici di Bae e agli spagnoli di Navantia, Fincantieri è stata inoltre ammessa alla selezione finale di Sea 5000, megacommessa da 25 miliardi di euro per la costruzione di 9 fregate alla Marina australiana.

Se è vero che i cantieri di Stx France sono specializzati proprio nella costruzione di navi da crocierae navi passeggeri – motivo per cui acquisirne il controllo avrebbe significato mettere fuori gioco un competitore sul lato civile – la crescita nel ramo militare degli ultimi anni è arrivata anche e soprattutto ai danni della Francia. Parigi ha cercato fino all’ultimo di ostacolare la commessa da 5 miliardi che la Marina del Qatar ha assegnato a Fincantieri, mentre nella gara australiana il progetto italiano è stato reputato più affidabile di quello transalpino, che non ha superato la prima selezione assieme a quello tedesco.

Italiani e francesi torneranno a sfidarsi anche in Canada, paese che ha necessità di rinnovare la propria flotta di superficie e che a questo proposito ha lanciato il più grande programma di costruzioni navali della sua storia (circa 25 miliardi di dollari per 15 navi). Ironia della sorte, Fincantieri e Dcns, il suo omologo transalpino che di recente ha mutato nome in Naval Group, partecipano a tali gare internazionali offrendo unità da guerra nominalmente diverse come le classe Bergamini e le classe Aquitaine che sono in realtà frutto dello stesso progetto congiunto italo-francese, quello delle acclamate fregate multimissione Fremm.

La controffensiva dell’Eliseo sui cantieri della Loira si spiega anche col loro valore strategico. Grazie a un accordo del 2008 con Dcns, Stx France è infatti l’unico cantiere di Francia in grado di costruire unità navali da oltre diecimila tonnellate (portaerei, portaelicotteri e navi da supporto logistico) destinate a soddisfare le esigenze della Marina militare francese come di clienti internazionali. È rimasto l’unico dopo la chiusura dell’arsenale di Brest, quello in cui è stata realizzata – non senza difficoltà – l’ammiraglia della Marine Nationale, la portaerei a propulsione nucleare De Gaulle.

Sulla Loira sono state realizzate le cinque grandi unità d’assalto anfibio classe Mistral: tre sono attualmente in servizio con la flotta francese, due con quella egiziana dopo il loro mancato trasferimento alla Russia per la crisi in Ucraina. Sempre i cantieri della Loira dovranno inoltre realizzare una nuova portaerei quando si renderà necessario ritirare la De Gaulle, un fattore che ne moltiplica enormemente la valenza.

Inoltre, negli anni Stx France ha saputo ritagliarsi un ruolo non meno importante in seno alle politiche navali francesi nell’ambito di attività lucrose e decisive come quelle che riguardano la manutenzione e l’ammodernamento delle unità della flotta, peraltro proprio ai danni di Dcns.

Cosa significa la mossa di Macron? La Francia non ha nessuna intenzione di cedere all’Italia lo scettro di paese-guida nel processo di consolidamento della cantieristica europea. Anche a costo di rischiare l’affondamento dei suoi storici e prestigiosi cantieri che, dopo il fallimento sudcoreano e l’uscita di scena di Fincantieri, restano privi di un valido partner industriale.

Il passaggio di Stx France nell’orbita del colosso italiano avrebbe messo in moto un significativo processo di riassetto dell’industria navale europea. Preparando il terreno a un possibile ampliamento della collaborazione Fincantieri-Dcns. E andando a costituire il nucleo di un polo capace di sfidare lo strapotere dei colossi asiatici nella cantieristica civile e di attrarre altri soggetti europei interessati al business delle costruzioni navali di tipo militare.

lunedì 24 luglio 2017

LE ANCORE DELLA CINA NEL MEDITERRANEO - RIGUARDA TRIESTE UN ARTICOLO DI LIMES IN ESCLUSIVA-


Interessi e investimenti del Celeste Impero nel fu Mare nostrum (carta completa in fondo)

Mentre in Europa si tende a guardare all’ex mare nostrum con lenti latitudinali (come per le disparità economiche fra membri meridionali e settentrionali dell’Ue o la faglia migratoria fra sponda sud e sponda nord), agli occhi di Pechino il Mediterraneo è limes occidentale delle nuove vie della seta.

La Repubblica Popolare percepisce il Mediterraneo come nastro trasportatore per le proprie merci verso i maggiori mercati mondiali. Di qui la necessità di guadagnare attracchi locali nei principali snodi strategici del mare. Forse in futuro da irreggimentare dislocando guarnigioni delle proprie Forze armate (come sta succedendo a Gibuti).

Ne ha scritto Giorgio Cuscito su Limes 6/2017 Mediterranei:


Pechino sta investendo massicciamente nei porti del Mare nostrum per farne la cerniera tra la rotta terrestre e quella marittima della Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta), il progetto infrastrutturale e commerciale lanciato da Xi Jinping nel 2013.

La Repubblica Popolare è interessata ai porti che hanno un valore strategico, possibilmente collocati in paesi stabili sul piano politico ed economico, che le consentano di controllare i colli di bottiglia del commercio mondiale oppure di sviluppare rotte alternative per ridurre la dipendenza dagli stessi.

Seppur in ritardo rispetto ad altri Stati, l’Italia si sta ritagliando un ruolo nella Bri. Lo ha confermato il viaggio di metà maggio del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni in Cina per il Forum delle nuove vie della seta, dove ha ottenuto l’ok dei cinesi agli investimenti nel porto di Trieste e Genova.

La Bri sta contribuendo all’incremento delle attività economiche e della presenza di cittadini cinesi lontano dal loro paese. Per questa ragione, gli analisti in Cina riflettono su come proteggere le sue rotte. È probabile che l’impegno di Pechino in tema di sicurezza nel Mediterraneo aumenterà in proporzione agli interessi della Repubblica Popolare nella regione. Generando nuove opportunità di collaborazione con i paesi rivieraschi, Italia inclusa, per il mantenimento della stabilità regionale.

Negli ultimi anni, la crescita economica cinese ha determinato un notevole impatto sui flussi commerciali che attraversano il Mar Mediterraneo. Nel 1995, le rotte transpacifiche rappresentavano il 53% dei traffici globali, quella Europa-Estremo Oriente solo il 27%. Oggi il gap è notevolmente diminuito: la seconda ha raggiunto il 42% mentre la prima è scesa al 44%.

I porti in cui la Cina sta investendo si trovano sia sulla sponda Sud sia su quella Nord del Mare nostrum. Le operazioni più importanti sono condotte dal colosso della logistica China Ocean Shipping Company (Cosco).


giovedì 20 luglio 2017

MIGRAZIONI: CRESCITA DEMOGRAFICA ED EMIGRAZIONE IN AFRICA SUB-SAHARIANA - Come mai se c'è "fame e guerra" la popolazione cresce a dismisura quando finora in carenza di risorse tendeva a diminuire? - Un articolo di Neodemos che ci aiuta a capire il problema al centro delle tensioni Austria - Italia .


Molti media e parte della classe politica attribuiscono in maniera retorica a "guerre e fame" l' impennata del fenomeno migratorio dall' Africa subsahariana.

Tuttavia il numero dei conflitti in quell' area è calato nettamente dal 1995 e cosi pure l' incidenza di carestie e malnutrizione.

La Presidente Boldrini ha dichiarato recentemente al Corriere che la Nigeria nel 2030 avrà più abitanti degli USA e che pertanto non è possibile fermare le migrazioni essendo assurdo usare la forza militare.

Tuttavia nel corso della storia si è sempre osservato che in presenza di guerre e fame la popolazione tende a diminuire, non ad aumentare vertiginosamente come correttamente segnalato dalla Boldrini, e lo stesso avviene in natura per le popolazioni animali in una situazione di carenza di risorse.

Il dato trova indiretta conferma dal fatto che il 70/80% dei migranti che sono arrivati negli ultimi 3 anni sono migranti economici informali e non rifugiati di guerra o politici.

E' pertanto legittima la domanda dell' "uomo della strada": "Se ci sono tante guerre e carestie perchè la popolazione nigeriana e subsahariana aumenta tanto ?".

Ci siamo rivolti al sito specializzato in demografia Neodemos per cercare risposte:

Ecco un recente articolo:

Crescita demografica ed emigrazione in Africa Sub-Sahariana

Da alcuni anni, l’emigrazione dall’Africa Sub-Sahariana (ASS) verso Italia e resto d’Europa è aumentata notevolmente e, date le condizioni geopolitiche prevalenti in Libia e Vicino Oriente, è probabile che questo trend continui negli anni a venire. In modo un po’ semplicistico, alcuni media e parte della classe politica attribuiscono questo fenomeno alle guerre e alla fame che imperverserebbero nella regione, mentre – per grazia di Dio – il numero dei conflitti in Africa è calato nettamente a partire dal 1995 (quando l’emigrazione da tale regione era di assai minori dimensioni), mentre l’incidenza di carestie, fame e malnutrizione sono diminuite durate lo stesso periodo, pur se lentamente. Mentre è indubbio che alcuni dei nuovi immigrati siano ‘rifugiati politici’ provenienti da zone in conflitto, come Sud Sudan e Somalia, o da paesi con regimi dittatoriali come l’Eritrea, una quota elevata (pari al 70-80 percento) di coloro che son sbarcati in Italia negli ultimi 2-3 anni sono migranti economici informali che cercano in Europa migliori condizioni di vita.
A scanso di equivoci, va sottolineato che gli scriventi auspicano per gli anni a venire una continuazione dell’immigrazione regolare (dall’ASS e altre regioni in sviluppo) verso un’Italia, Europa e gran parte del mondo sviluppato (o emergente, come la Cina) affette da una implosione demografica di cui non si intravede la fine. Una immigrazione regolata aiuterebbe a tappare alcune delle falle più evidenti nel mercato del lavoro e porterebbe ad un arricchimento culturale ed economico della Vecchia Europa, così come è avvenuto in California ed altre regioni avanzate. Il problema non è se l’immigrazione è auspicabile, ma il suo volume ed il modo in cui ha luogo.
La domanda da porsi è, dunque, quali sono i fattori che generano una forte spinta a emigrare dalla ASS in maniera molto costosa (un viaggio dai paesi d’origine organizzato dai trafficanti di esseri umani costa oltre 10.000 dollari), potenzialmente pericolosa (basti pensare alle migliaia di annegati nel Canale di Sicilia), e con incerte prospettive di inserimento legale e professionale in una Europa a bassa crescita economica e che si sente ‘invasa’.
Analisi recenti delle tendenze economiche e demografiche degli ultimi 20 anni in ASS suggeriscono che il forte aumento di tale emigrazione può essere ascritto al modello di crescita sub-ottimale seguito da gran parte della regione nell’ultimo quarto di secolo, a problemi di governance nazionali ed internazionali, e ad una ‘transizione demografica ritardata’. Per quel che riguarda il modello di crescita seguito dalla ASS notiamo brevemente che – malgrado un aumento annuale del PIL pari al 5% nel ventennio 1991-2011 – i settori ad alto assorbimento di forza lavoro semi-qualificata (ad es. agricoltura intensiva, manifattura e costruzioni) si sono sviluppati relativamente meno che quelli minerario, dei servizi urbani ad alta intensità di lavoro qualificato, e dei servizi informali a bassa produttività. La crescita è stata dunque caratterizzata da una domanda di lavoro debole, sia in termini assoluti che in relazione ad una offerta di lavoro in rapida crescita.
Problemi di governance hanno aggravato lo squilibrio di cui sopra tra domanda e offerta di lavoro. Tra questi, una insufficiente allocazione di risorse e la bassa priorità politica assegnata a settori chiave. Tra questi agricoltura e Green Revolution (malgrado una dipendenza massiccia da importazioni ed aiuto alimentare), istruzione femminile e regolazione della fecondità, e controllo delle massicce fughe di capitali, che fan sì che gli attivi detenuti all’estero da cittadini africani superino l’intero debito pubblico della regione. Pressioni del FMI, Banca Mondiale e Organizzazione Mondiale del Commercio hanno poi spinto anche i paesi africani a ridurre drasticamente i dazi sui prodotti manifatturieri, con conseguente forte aumento delle importazioni dall’Asia ed un netto declino di quel po’ di industria domestica sviluppatasi con fatica nei primi decenni post-indipendenza.
Il ritardo della transizione demografica
Ma, forse, il fattore che spiega più degli altri la spinta attuale ad emigrare è una ‘transizione demografica ritardata’ – e cioè il ritardo nel calo della fecondità femminile che avrebbe dovuto seguire, dopo una decina d’anni, la notevole diminuzione della mortalità registrata negli ultimi 20 anni grazie all’aumento delle vaccinazioni, all’intensificazione della lotta contro malaria, tubercolosi e HIV/AIDS, e al miglioramento delle condizioni di vita. L’effetto immediato della ritardata transizione demografica è stato un forte aumento della disoccupazione tra le coorti di giovani che son entrati in tempi recenti sul mercato del lavoro grazie al calo della mortalità registrato nei 20 anni precedenti. Tale tendenza si acuirà nei prossimi tre decenni. Ad esempio, nel 2050 la popolazione di 15-24 anni di età sarà maggiore di 200 milioni di quella del 2015 (Grafico 1) con risultati ovvi in termini di offerta di lavoro. 

La soluzione di questo enorme problema occupazionale – che è alla base della spinta migratoria dei paesi della ASS verso Europa, Africa del Sud e – in misura minore – altre regioni, richiederà interventi in tutte le aree menzionate sopra. La probabilità che – senza mutamento nelle politiche economiche, demografiche e di governance – gran parte di questa nuova forza lavoro trovi una occupazione adeguata sono minime. Se questo sarà il caso, per molti l’emigrazione resterà – malgrado i suoi costi elevati – una delle poche opzioni praticabili.

Questo fortissimo aumento di forza lavoro è dovuto alla menzionata ‘ritardata transizione demografica’. I dati della Divisione della Popolazione delle Nazioni Unite indicano infatti che mentre tra 1980-85 e 2010-15 il tasso di fecondità in Africa del Sud è sceso da 4.7 a 2.5 figli per donna in età fertile, quello dell’Africa Centrale ed Occidentale è calato solo da 6.7 a 5.8 e da 6.8 a 5.5. Nel frattempo tutte le altre regioni in via sviluppo hanno raggiunto tassi di fecondità tra 1.5 e 2.5.
I casi contrapposti di Niger e Nigeria e di Etiopia e Ruanda
Tali differenze appaiono ancor più marcate se si confrontano alcuni paesi africani archetipici. E’ sintomatico ad esempio che negli ultimi 30 anni Nigeria e Niger abbiano registrato solo un lievissimo declino o addirittura un aumento della fecondità femminile, mentre Etiopia e Ruanda han registrato un netto calo (Grafico 2).

 Dal confronto delle politiche demografiche seguite in queste coppie di paesi si possono trarre utili lezioni circa gli approcci che permettono di controllare il problema della sovra-popolazione in gran parte della regione anche a bassi livelli di reddito pro capite.
In conclusione, il miglioramento delle condizioni di vita in ASS e la regolazione del forte flusso migratorio verso l’Europa e le regioni più ricche dell’Africa richiede interventi sia sul fronte economico, che dell’aiuto internazionale, della governance e delle politiche demografiche. Vista l’inerzialità dei fenomeni demografici, nel breve periodo gli interventi economici, di governance e sostegno internazionale saranno i soli che potranno ridurre la pressione ad emigrare. Nel medio e lungo periodo, invece, la soluzione del problema dipenderà dalla diffusione di politiche di controllo della crescita demografica ben concepite e con un forte supporto politico di governi locali, opinion makers, autorità religiose e comunità internazionale. L’esempio di paesi poveri come Ruanda ed Etiopia mostra che risultati incoraggianti possono essere ottenuti già in una quindicina d’anni (Grafico 2). Il problema ora è quello di generare la volontà politica per agire rapidamente nel resto della regione, dove il tasso di fecondità rimane elevato e contribuisce a causare disoccupazione, impoverimento ed una forte emigrazione informale.

Riferimenti bibliografici
Canning, David, Sangeeta Raja, and Abdo S. Yazbeck (eds). “Africa’s Demographic Transition: Dividend or Disaster?” Africa Development Forum. Washington, DC. The World Bank  License: CC BY 3.0 IGO
Cornia, Giovanni Andrea, Ayodele Odusola, Haroon Bhorat and Pedro Conceicao (2017), “Income Inequality Trends in Sub-Saharan Africa: Trends, Divergence, Determinants”, UNDP Regional Bureau for Africa, New York.
Hailemariam, Assefa, Solomon Alayu, and Charles Teller (2010), “The National Population Policy (NPP) of Ethiopia: Achievements, Challenges and Lessons Learned, 1993–2010.” The Demographic Transition and Development in Africa. Springer Netherlands, 2011. 303-321.
Westoff, Charles F. “The recent fertility transition in Rwanda.” Population and Development Review 38.s1 (2013): 169-178.



LA SVOLTA REALISTA DI PAPA FRANCESCO SULLA CINA- La diplomazia vaticana ha sempre avuto un grande influsso sull' Italia - Un articolo di Limes


Malgrado lo iato tra retoriche ufficiale e ufficiosa, il Vaticano procede nella marcia di riavvicinamento a Pechino. La sublimazione dell’armonia come direttrice geopolitica della Santa Sede verso l’Asia, dove si giocherà il futuro della Chiesa.
Freno e acceleratore. Le parole dei due portavoce, ufficioso e ufficiale, di Francesco non eranomai risuonate tanto distoniche. Ai limiti del corto circuito e della convulsione istituzionale.

Troppo per non indurre al sospetto di una regia unitaria, nel gioco di ombre cinesi e guerra di nervi che si svolge a distanza di ottomila chilometri fra il Colle Vaticano e la Città Proibita, ormai peraltro accessibile a tutti. Fuorché alla Chiesa.

Da un lato la sala stampa, che nella dichiarazione del direttore, l’americano Greg Burke, prende atto suo malgrado della battuta d’arresto, quanto meno di un drastico slow-down del dialogo con Pechino, e denuncia il sequestro del vescovo di Wenzhou, “forzatamente allontanato”. Ultimo di una serie di “episodi che purtroppo non facilitano cammini d’intendimento”.

Dall’altro La Civiltà Cattolica di Padre Antonio Spadaro, che assomma in sé nei confronti di Bergoglio il profilo dei due “Giovanni” del Vangelo: Battista ed Evangelista. Precorrendone la via e rivelandone i pensieri del cuore. Al punto da prospettare assertivo la soluzione del problema e affermare tra il temerario e il perentorio che “la Chiesa cattolica e la società cinese non si scontreranno più”.

La frase è contenuta in una sorta di “tema di maturità”. Un po’ prova d’esame, un po’ prova d’amore. Stampato con il visto della segreteria di Stato e assurto subito a manifesto politico: il “manifesto” comunista di Francesco. Mirando a quella che configura sin da principio la destinazione strategica del pontificato gesuita e della Compagnia fondata da Sant’Ignazio. Per guadagnare l’ambito approdo che i successori di Pietro si vedono ripetutamente negato da trent’anni almeno. Da quando gli eredi di Mao scelsero con Deng Xiaoping di riaprire il paese alla modernità e mantenerlo chiuso alla democrazia. Conservando un rigido controllo sulla società e promuovendo un rapido decollo dell’economia.

“Finché il Partito comunista cinese rimarrà l’unico partito di governo, il marxismo continuerà a essere il riferimento ideologico della società. Perciò la Chiesa cattolica cinese è chiamata a ridefinire il suo ruolo e le sue relazioni con il Partito comunista e con la sua ideologia”, scrive ardito e inaudito Padre Joseph You Guo Jiang, che firma il pezzo con l’imprimatur del confratello papa, Jorge Bergoglio, e vanta una suggestiva somiglianza con il giovane Mao Tse Tung. In virtù della quale sorvola sugli orrori del passato e, giunto in zona critica, si tiene al largo dagli errori del presente, ossia le persecuzioni che investono a ondate intermittenti l’episcopato e il clero della chiesa “sotterranea”, fedeli a Roma.

L’excursus storiografico naviga ordinario, bonario lungo un millennio di rapporti a corrente alternata. Poi però in prossimità della meta opera una improvvisa virata e manda un clamoroso segnale di avvistamento. Ammainando la bandiera del pluralismo e alzando quella rossa del socialismo. “Questo non significa”, mette le mani avanti l’autore, “che la Chiesa debba essere d’accordo con la politica e con i valori del Partito, ma piuttosto che essa debba trovare soluzioni flessibili ed efficaci per continuare la sua missione e il suo ministero in Cina”.

In qualunque maniera la leggiamo, al netto delle precisazioni e attenuazioni del caso, si tratta di una svolta. Se Ratzinger, con la lettera del 2007 ai cattolici cinesi, apriva le porte alla collaborazione con il governo, il manifesto di Civiltà Cattolica le schiude a quella con il Partito, annota il sinologo Francesco Sisci, autore di una celebre intervista con il papa per Asia Times.

Il riconoscimento del ruolo guida del Politburo da parte della Sede Apostolica costituisce un red carpet cromatico e diplomatico, su cui Pechino inopinatamente avanza con cadenze poliziesche, ma che il pontefice si ostina nondimeno a stendere, in uno stridente allestimento geopolitico del “Porgi l’altra guancia”.

“Ci sono dettagli che devono essere definiti e che rivestono grande importanza su ambo i versanti”, spiega Sisci. “Essi riguardano aspetti religiosi, per il Vaticano, e prerogative dello Stato, secondo Pechino. Non c’è una questione di principio. Ma questi particolari sono molti e delicati”.

Particolari e dettagli che alla stregua delle ombre cinesi, sovrapponendosi e ingigantendosi, possono repentinamente peggiorare la percezione del quadro, facendo scomparire o riapparire alla bisogna un personaggio scomodo quale il vescovo Shao Zhumin e confermando la persistenza di approcci brutali, arbitrari, duri a morire. Dietro una coltre di atavica diffidenza che la duplice professione di fede, nel papa e nel Partito, dovrebbe contribuire a dissipare.

Come se Bergoglio, che custodisce la memoria genetica del migrante, avesse accettato di sottoporsi al test di cittadinanza, con immagine di stringente attualità, per ottenere l’agognato ius soli. Ossia non limitandosi a indossare un abito culturale sul modello del precursore Matteo Ricci, ma immedesimandosi ancora di più e integrandolo con l’habitus mentale di una classe dirigente che respinge la litigiosità perenne dei moderni sistemi occidentali, dialettici e competitivi. Ostentando in sua vece l’armonia: “quell’armonia che ama tanto lo spirito cinese”. Slogan riecheggiato in due Angelus nel maggio 2016 e 2017, durante i messaggi augurali per la festa della Vergine di Sheshan.

Una password non solo politica bensì teologica, per accedere al dialogo con le regioni e religioni dell’Asia, come si evince da un ulteriore articolo di Civiltà Cattolica che sancisce la nascita e consacrazione di una “teologia panasiatica, sotto il segno dell’armonia”. Lo ha redatto il gesuita francese Benoît Vermander – Wei Mingde, il suo nome cinese – professore dell’università Fudan di Shanghai e assertore del principio secondo cui occorre “fare i conti con la visione del mondo inclusa nelle parole, nei concetti e nelle strutture linguistiche” del megacontinente.
C’era una volta la democrazia: undicesimo comandamento dei papi del Concilio, in uno stretto, sponsale abbraccio tra Chiesa e Occidente. Amore sbocciato al termine di un sofferto, incerto rito di corteggiamento.

E c’è oggi l’armonia, parola d’ordine di un pontificato che viene da Ovest, ma che con l’Occidente ha reciso gli ormeggi puntando a Oriente, per aggiornare dopo due millenni la formula dell’adagio “andate in tutto il mondo”, depurandola di ogni sorta di proselitismo e accompagnandola con una iniezione pragmatica di realismo. Unitamente a una dose omeopatica di relativismo. Nell’epoca del pensiero aperto, fondato “sul dialogo e sulla costruzione del consenso”.

Si deve partire da questa cornice copernicana per inquadrare il pressing in atto sulla Cina e le sortite di Civiltà Cattolica, che sgretolano in sequenza i pilastri del cristianesimo europeo, dal razionalismo al logos, e la presunta superiorità delle sue argomentazioni: “La dialettica è l’ottimismo della ragione, il dialogo è l’ottimismo del cuore”, insiste Wei Mingde.

Paradosso emblematico di una rivista che per quattromila numeri, tanti ne ha celebrati a febbraio, si è identificata con le mura della civitas e adesso le abbatte a colpi di piccone, invitando a deporre il vessillo della civiltà cristiana per sciogliersi come lievito nei mondi altrui, senza pretesa di plasmarli, ma di farli semmai lievitare verso un traguardo di più alta spiritualità e umanità.

C’era una volta la democrazia: precetto canonicamente codificato da Montini alla scuola di Maritain, teologicamente sublimato da Ratzinger sulla cattedra di Ratisbona, militarmente brandito a mo’ di Excalibur da Wojtyla, con l’impeto leggendario di una carica di Pilsudski. E c’è oggi l’armonia, un balsamo emolliente spalmato da Bergoglio sulle piaghe e fra le pieghe di una storia che altrimenti non si lascia sfogliare, lenire, capire.

Apologo-epilogo di un cattolicesimo progressista che ha rincorso la democrazia, quale standard imprescindibile di modernizzazione. Ma poi realizza d’un tratto che il mezzo risulta inadeguato nel contesto del secolo asiatico, dalla sponda del Golfo alla costa del Mar Giallo.

Retaggio di una globalizzazione che ha spostato a Oriente – quello estremo fra il Guangdong e Pyongyang – non solo il target geografico, ma ideologico del papato, spingendo i pontefici sul limite del fuorigioco dottrinale, per non restare ai margini ed essere ammessi nell’area che conta, dove si vince o perde la partita del futuro. “Le Chiese cristiane in tutto il mondo hanno preso coscienza del fatto che il XXI secolo è veramente il secolo dell’Asia”, ribadisce Padre Vermander. Lasciando chiaramente intendere che agli occhi del papa non sussiste alternativa.

Insomma una riedizione su scala planetaria della teoria dei “due polmoni”, con cui Wojtyla delineò in ambito europeo l’esigenza vitale, per la Chiesa, di respirare da Est e Ovest: pena il sottrarsi e venire meno alla propria natura universale. Come se Bergoglio avvertisse lo stesso senso di asfissia spirituale del papa polacco e lo proiettasse al di là degli Urali e dell’Amur.

Nulla di nuovo sotto i cieli della storia. Se “Parigi val bene una messa” – come chiosò l’ugonotto Enrico di Navarra, ricevendone in cambio la corona di re – Pechino varrà pure, a parti e partiti invertiti, una bandiera rossa.
“bergogliani”, c’è molto più di una chiesa minoritaria: un fiume carsico capace di sfociare, sulla distanza del millennio appena iniziato, in confluenze maggioritarie impensate. Confidando in un hardware predisposto alla “app” del cattolicesimo e suscettibile di rispondere in progressione geometrica. Un azzardo nel quale la Compagnia non si preclude, all’orizzonte remoto, il bingo indicibile: di conquistare il banco e attrarre una leadership palesemente in deficit di valori morali, che fungano da collante alle istituzioni e antidoto alla dilagante corruzione.

“La Chiesa cattolica e la Cina e non si scontreranno più. Perché i valori culturali e tradizionali cinesi e i valori evangelici e l’insegnamento ecclesiale hanno molte cose in comune”, conclude il manifesto “comunista” di Civiltà Cattolica, riconoscendo nella joint venture con il partito un provvisorio e colorato lasciapassare. Una vernice appariscente, che non penetra in profondità e svanisce nel tempo, a contatto con le culture millenarie che la sottendono.

Così, mentre subiscono il goal in contropiede, ad opera di un regime che davanti alle reiterate, spericolate aperture vaticane non cessa di praticare il catenaccio e “marcare a uomo”, entrando a gamba tesa sui vescovi obbedienti al papa, Bergoglio e i suoi consiglieri continuano indomiti a predicare l’armonia.

Nuova, sottile declinazione dell’egemonia nel Terzo Millennio dell’era cristiana, in cui un pontefice ha deciso di stimolare “l’export” e riposizionare il brand sui mercati che crescono. Accettando di pagare un dazio ideologico, all’estero, e teologico, in casa, pur di aggirare le barriere in difesa e alzare i numeri della Chiesa in Asia.

Vista da Roma infatti la posta geopolitica è altissima e va oltre il risultato minimo dell’auspicata, reciproca legittimazione e riunificazione tra le due chiese, “patriottica” e “sotterranea”, che cumulano insieme, sul miliardo e trecento milioni di persone, una percentuale comunque irrisoria di popolazione.

Di “sotterraneo” in Cina, nella scommessa visionaria degli strateghi “bergogliani”, c’è molto più di una chiesa minoritaria: un fiume carsico capace di sfociare, sulla distanza del millennio appena iniziato, in confluenze maggioritarie impensate. Confidando in un hardware predisposto alla “app” del cattolicesimo e suscettibile di rispondere in progressione geometrica. Un azzardo nel quale la Compagnia non si preclude, all’orizzonte remoto, il bingo indicibile: di conquistare il banco e attrarre una leadership palesemente in deficit di valori morali, che fungano da collante alle istituzioni e antidoto alla dilagante corruzione.

“La Chiesa cattolica e la Cina e non si scontreranno più. Perché i valori culturali e tradizionali cinesi e i valori evangelici e l’insegnamento ecclesiale hanno molte cose in comune”, conclude il manifesto “comunista” di Civiltà Cattolica, riconoscendo nella joint venture con il partito un provvisorio e colorato lasciapassare. Una vernice appariscente, che non penetra in profondità e svanisce nel tempo, a contatto con le culture millenarie che la sottendono.

Così, mentre subiscono il goal in contropiede, ad opera di un regime che davanti alle reiterate, spericolate aperture vaticane non cessa di praticare il catenaccio e “marcare a uomo”, entrando a gamba tesa sui vescovi obbedienti al papa, Bergoglio e i suoi consiglieri continuano indomiti a predicare l’armonia.

Nuova, sottile declinazione dell’egemonia nel Terzo Millennio dell’era cristiana, in cui un pontefice ha deciso di stimolare “l’export” e riposizionare il brand sui mercati che crescono. Accettando di pagare un dazio ideologico, all’estero, e teologico, in casa, pur di aggirare le barriere in difesa e alzare i numeri della Chiesa in Asia.

Articolo pubblicato originariamente su L’Huffington Post

martedì 18 luglio 2017

MIGRANTI: SALVATAGGI, UN DILEMMA ITALIANO - Mare Nostrum e Triton - Un articolo di un esperto della Marina su Affari Internazionali -


Mare Nostrum e Triton
Migranti: salvataggi, dilemma italiano
di Fabio Caffio


Dopo venticinque anni di tumultuosa attività di controllo dell'immigrazione via mare, l'Italia appare ancora incerta sulla svolta da dare alle operazioni di salvataggio (Sar). Nel frattempo, ora che la politica ha un quadro realistico della situazione, tutti i nodi sono venuti al pettine, a partire da Mare Nostrum e Triton.

L'anomalia italiana nella gestione del Sar oltre l'area nazionale, frutto di ambizioni marittime e di prassi autoreferenziali, è lo scoglio da superare per ripartire su nuove basi, collaborando con la Guardia costiera libica, modificando Triton, selezionando l'ingresso nei porti delle Ong senza abbandonare la via maestra dell'umanitarismo.

Precedenti modelli operativi
Non tutto era sbagliato nelle decisioni assunte in passato di collaborare con Albania, Libia e Tunisia, demandando loro la responsabilità di fermare le partenze di imbarcazioni insicure. Certo, resta il macigno della condanna della Corte Europea Diritti dell'Uomo per i respingimenti in alto mare, ma nulla è mai stato eccepito sulle attività svolte nelle acque territoriali dei singoli Paesi.

Il modus operandi adottato dall'Italia in quegli anni era, tra l'altro, incentrato su un normale dispositivo di soccorso dislocato in posizione avanzata, nella nostra zona Sar, vicino Lampedusa.

Tutti ricordiamo, inoltre, le continue dispute con Malta che non accettava di essere luogo di sbarco delle persone salvate nella sua zona, sostenendo che la normativa internazionale sugli obblighi di accoglienza del Paese responsabile del Sar vada integrata dal principio di prossimità territoriale.



Da Mare Nostrum a Triton
Il vero strappo con il passato avvenne con Mare Nostrum, quando ci assumemmo l'onere di prevenire i naufragi di migliaia di persone in navigazione al largo della Libia.

Mare Nostrum non era tuttavia un'operazione Sar, quanto una missione 'militare e umanitaria' svolta dalla Difesa al di fuori del controllo del centro nazionale Sar (MRCC-Roma).

A leggere le statistiche, pare che al tempo Marina e Guardia costiera rivaleggiassero su chi salvasse più persone. Non si spiega altrimenti come, durante il corso della stessa operazione, il MRCC della Guardia costiera abbia preso ad impiegare sistematicamente navi mercantili, ponendole sotto il suo controllo per salvataggi a ridosso delle coste libiche.

Sta di fatto che, terminata dopo un anno Mare Nostrum, nel novembre 2014, la sua eredità è stata assunta da Triton (prima a 30 mg. dalle coste italiane e poi più al largo, a sud di Malta) oltre che da Eunavfor Med, confermando la leadership della nostra Guardia costiera.

Sbarchi in Italia
A leggere il Regolamento di Frontex 656/ 2014 si comprende come l'Italia, essendo il Paese guida, dovesse necessariamente accogliere le persone salvate in mancanza di soluzioni alternative a Malta o altrove.

Oggi ci si chiede a che servisse una tale operazione, ma allora sembrò essere una mano tesa all'Italia nel suo sforzo umanitario. Forse, una maggiore attenzione all'interesse nazionale, avrebbe fatto capire che ad essere avvantaggiata era soprattutto Malta la quale allontanava così lo spettro degli sbarchi sul suo piccolo territorio.

Stranamente, dopo un po' è cominciata a circolare (ed è stata ripresa in interrogazioni al Parlamento europeo) la tesi che l'Italia avesse concesso a Valletta zero sbarchi, in cambio della mano libera sulle ricerche petrolifere in un'area di mare contesa. Sono solo illazioni, ma l'obiettivo potrebbe essere contestare il decreto italiano del 2012 relativo alle prospezioni nella zona della nostra piattaforma continentale a sud-est della Sicilia pretesa da Malta.

Guardia costiera libica ed Ong
Il Memorandum di Roma del 2 febbraio 2017 e la susseguente Dichiarazione di Valletta con cui si legittima il ruolo di sorveglianza delle acque territoriali demandato alla nascente Guardia costiera libica sono tuttora ritenuti fondamentali per la stabilizzazione della Libia.

Riserve sull'attività di capacity building di Italia ed Ue (aiuti sono stati deliberati nel recente Vertice di Tallin), sono però espresse da alcune Ong, le quali sostengono che esponenti della Guardia costiera libica abbiano commesso, a danno dei migranti, violazioni dei diritti umani sulle quali indagherebbe la Corte penale internazionale.

A prescindere dal fatto che la Corte non ha confermato la notizia, sarebbe paradossale se l'Italia e la Ue appoggiassero un'organizzazione criminale. La verità è che si imputano alla Guardia costiera libica quelle forme di coercizione per indurre le imbarcazioni insicure dei migranti a rientrare in porto, che invece sono applicate nell'Egeo o in acque antistanti la Spagna. 

Lezioni apprese
La responsabilizzazione nel Sar degli Stati di origine dei migranti, piaccia o non piaccia, è l'unico modo per impedire tragedie in mare e traffici di esseri umani. L'Italia sostiene questo modello, d'accordo con l'Ue, per Libia, Tunisia ed Egitto.

La regionalizzazione del Sar, mediante accordi dedicati anche allo sbarco delle persone salvate, andava da noi perseguita in anni passati. Ora non è il momento, come dimostra la contrarietà di Spagna e Francia alle nostre recenti proposte.

Se così è (e lo ha confermato il recente incontro tenutosi nella sede di Frontex), allora tanto vale per l'Italia rinunciare a Triton, ad evitare che navi della Guardia costiera di Paesi del nord Europa (Islanda compresa) vengano da noi a sbarcare migranti a spese dell'Ue. Diverso il discorso per Eunavfor Med la cui regola di sbarco in Italia potrebbe essere cambiata in occasione del prossimo rinnovo del mandato.

Meglio contare sulle proprie forze, arretrando il dispositivo di soccorso in prossimità della zona Sar nazionale, chiedendo a Malta di assumersi le sue responsabilità se competente, e sperare nell'assistenza di Tunisia, Libia ed Egitto (con l'Algeria esiste già un accordo Sar).

Quanto alle Ong (che sin dall'anno scorso erano state accreditate con l'iniziativa Una Vis), bisogna partire dal presupposto che il loro impiego incondizionato rappresenta una torsione del sistema Sar nazionale. La chiusura selettiva dei porti andrebbe perciò vista in questa prospettiva.

Infine, vista la complessità dei problemi relativi al soccorso migranti che coinvolgono più ministeri, sarebbe auspicabile un loro accentramento presso un'unità di coordinamento della Presidenza del consiglio, come avviene in Francia per tutte le questioni relative all'azione dello Stato sul mare, in una prospettiva unitaria di perseguimento dell' interesse nazionale.

Fabio Caffio è Ufficiale della Marina militare in congedo, esperto in diritto marittimo