di Jens Woelk
Alla “fatica di allargamento” dell’Ue - dopo i due allargamenti del 2004 e del 2007 l’adesione della Croazia nel luglio 2013 è passata quasi inosservata -, nei Balcani sembra corrispondere una dilagante “fatica di pre-adesione” che ha fatto rallentare di molto le attività di riforma in prospettiva della piena integrazione europea.
Da anni ormai, le relazioni annuali di monitoraggio della Commissione si potrebbero intitolare “no-progress reports”, almeno per alcuni paesi. Inoltre, i Balcani sembrano spariti dai radar dei governi e dall’interesse dei media europei, lasciando i Paesi della regione galleggiare nel processo di stabilità e adesione, nei vari stadi tra “candidato potenziale” (Kosovo), “candidato” senza inizio dei negoziati (Bosnia ed Erzegovina, Macedonia) e quello più avanzato di “candidato” entrato nei negoziati (Albania, Montenegro e Serbia). Una certa stabilizzazione dell’area sembra quindi riuscita, ma al prezzo dell’immobilità e del mantenimento di uno status quo comunque fragile.
No progress report
Infatti, i problemi della transizione multipla, democratica, economica e sociale, non sono risolti e in alcuni Paesi della regione sono da registrarsi nuove tensioni, fra cui la profonda crisi politica degli ultimi due anni in Macedonia, i referendum contro la Corte costituzionale e la comunità internazionale nonché la richiesta di una terza entità (croata) in Bosnia, la controversia intorno all’associazione dei Comuni serbi in Kosovo e altro ancora. Tutti questi rivelano la fragilità degli Stati e delle loro istituzioni.
Se da una parte Federica Mogherini ha intensificato, negli ultimi due anni, la sua attività diplomatica con varie visite nella regione, dall’altra c’è chi, nel dibattito accademico, dichiara il venir meno del “potere di trasformazione” dell’Ue, impotente di fronte allo stallo, e pertanto offre come unica soluzione alla “disfunzionalità multi-etnica” quella di ri-disegnare i confini lungo le linee etniche per ottenere anche nei Balcani degli Stati-nazione.
Solo l’omogeneità etnica, che secondo questa visione corrisponde ad uno ‘stato naturale’ delle cose, tradotta in uniformità delle istituzioni, può produrre maggiore efficienza di queste ultime. Tale equazione offre una spiegazione semplicistica che ricorda la formula propagata da Samuel Huntington all’inizio degli anni 1990, secondo la quale lo scontro fra culture è inevitabile.
Essa non solo ha portato alle pulizie etniche, ma sta anche in netto contrasto con la situazione in tante aree dei Balcani, dove una netta separazione di aree di insediamento di gruppi diversi semplicemente non esiste (si pensi ai croati nella Bosnia centrale oppure ai serbi nel Kosovo), e con il lavoro paziente dell’Ue, Stati donatori e società civile che cercano da anni di promuovere una convivenza nella diversità - molto simile a quanto caratterizza, come approccio, la stessa Ue (“uniti nella diversità”).
Il processo di Berlino cerca di rianimare questa politica paziente con qualche accento nuovo. Iniziato con un vertice nel 2014 a Berlino, seguito da altri due a Vienna (2015) e a Parigi (2016), esso ha come obiettivo dichiarato il consolidamento e il mantenimento di una dinamica positiva del processo di pre-adesione nei Balcani occidentali, nonostante l’euroscettiscismo e il moratorium espresso dal Presidente Juncker.
L’iniziativa intergovernativa che coinvolge gli Stati della regione e alcuni Stati membri dell’Ue mira soprattutto a intensificare i rapporti multilaterali e a migliorare la cooperazione regionale in ambito infrastrutturale e di sviluppo economico. Ciononostante, le sfide più importanti per la regione sono (e rimangono) l’instabilità, le democrazie ancora deboli, le difficoltà nel garantire l’attuazione del principio dello Stato di diritto, nonché i tentativi di potenze esterne di destabilizzare gli Stati della regione (infatti, si discute molto sul rispettivo ruolo di Arabia Saudita, Turchia, Cina e soprattutto Russia).
Alla ricerca della sostenibilità che necessita di uno stato di diritto funzionante
Lo Stato di diritto funzionante non è soltanto fondamentale per la libertà e per il funzionamento di un sistema democratico: una giustizia funzionante e una libera stampa sono presupposti necessari per i diritti dei cittadini ma anche per lo sviluppo economico. Allo stesso tempo sono indispensabili per una futura adesione all’Ue (come si è vista con l’istituzione del meccanismo di verifica post-adesione nei confronti della Romania e della Bulgaria, proprio per dubbi sulla sostenibilità, efficienza e indipendenza dei loro sistemi giudiziari).
Il concetto di “EuMember State-Building”, da tempo discusso, sottolinea la necessità di processi endogeni di riforma per arrivare alla maturità ed efficienza di istituzioni capaci di permettere l’apertura della statualità e la cooperazione con istituzioni di altri Stati, necessarie per uno Stato membro nell’integrazione europea.
La situazione nei Balcani è pertanto molto diversa rispetto alla situazione dell’Europa centro-orientale di 20 anni fa, dove gli Stati nella loro transizione democratica intendevano comunque realizzare un ampio programma di riforme, con (o senza) l’aiuto dell’Ue come attrice esterna. L’aiuto esterno era sempre considerato come un supporto di un processo interno, la prospettiva dell’integrazione europea era allo stesso tempo obiettivo e strumento.
Nei Balcani, invece, lo stesso momentum positivo non è stato ancora raggiunto nonostante l’articolata condizionalità e l’importante assistenza tecnica e finanziaria; anzi, attualmente sembra che gli Stati della regione siano fermi o stiano perfino regredendo con il rischio di scivolare verso dei sistemi semi-autoritari. Naturalmente non aiuta la situazione in cui si trovala stessa Ue: crisi economica-finanziaria, il dibattito sulla Brexit, la fatica di allargamento e il moratorium sull’allargamento espresso da Juncker; tutto ciò rende certamente meno attraente la prospettiva di adesione e pertanto meno incisivo il potere di trasformazione dell’Ue.
Infatti, determinante per la situazione di stallo attuale è la mancanza di volontà da parte degli stessi Stati della Regione di impegnarsi e di mantenere in corso un processo endogeno di riforma: l’obiettivo non può essere soltanto l’adesione all’Ue, ma deve essere quello di sostenibilità e stabilità come sistemi democratici per i propri cittadini e per favorire lo sviluppo economico e sociale. Invece sembra proprio che per tanti gruppi al potere l’attuale status quo sia più attraente di qualsiasi riforma.
Società civile contrappeso al leaderismo
L‘Ue dovrà risolvere tale dilemma fra una stabilità nel breve termine, accettando che i governi degli Stati nei Balcani non rispettano i loro obblighi di rendere funzionante la giustizia e di riconoscere i risultati di elezioni democratiche, e una stabilità a medio-lungo termine che potrà essere garantita soltanto attraverso il rispetto di una democrazia pluralistica e dello Stato di diritto.
Per raggiungere tale stabilità a lungo termine, l’Ue deve insistere nel completamento della transizione democratica rafforzando la società civile come contrappeso al leaderismo e aiutando gli Stati ad evitare la tentazione di seguire il modello russo di un sistema autoritario.
Gli ultimi sviluppi nella Macedonia, uscita da due anni di crisi politica profonda, sono promettenti e incoraggianti. L’auspicio è quello dell’instaurazione di una dinamica positiva nei Balcani che sia ulteriormente rafforzata al prossimo vertice multilaterale di Trieste, tappa del processo di Berlino che, alla fine, possa portare la regione a Bruxelles.
Jens Woelk è Professore associato di diritto costituzionale comparato presso la Facoltà di Giurisprudenza e la Scuola di Studi internazionale dell’Università degli Studi di Trento nonché vice-direttore dell'istituto per gli studi federali comparati presso l'Eurac Research a Bolzano.